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C.P.A.T. --> HOME PAGE --> N. 43/2005

QUADERNI DI PSICOLOGIA,
ANALISI TRANSAZIONALE
E SCIENZE UMANE

Dal n° 43 - 2005


Intervista a Mauro Mancia

Neda Lapertosa




Nell’attuale panorama culturale, lo studio delle neuroscienze ha determinato una sorta di metonimia mente-cervello che ha prodotto un inquinamento epistemologico tra i due ambiti di ricerca.
Il sogno più di tutti, si presta a essere materia d’indagine da parte di neurofisiologi, psicofisiologi e di quanti, a vario titolo, ne studiano gli aspetti funzionali, ma è a un tempo appannaggio della psicologia e della psicoanalisi in particolare per l’aspetto emozionale-affettivo che esso veicola. Il sogno dunque ha una cornice biologica, come afferma Mancia, nella quale si dipana la materia della mente.
Se diversi sono i punti di osservazione del sogno, questo non esclude che le risultanze delle indagini che le neuroscienze forniscono, costituiscono indicatori preziosi di nuovi significati del processo onirico. Ciò è accaduto per l’individuazione della fase REM e NREM del sonno, che aveva espresso una vasta gamma di caratteristiche di sogno diverse in relazione a queste due fasi, fino ad arrivare agli studi del 1974 condotti da Warrington e Weiskrantz sulla memoria implicita. Questo dato è servito a dar voce a quella “parte muta” dell’esistenza, in cui le precoci esperienze infantili, in special modo traumatiche, vengono archiviate in una memoria non passibile di ricordo, della quale Freud, pur intuendone la presenza, nulla poteva dire a causa delle ridotte conoscenze scientifiche del suo tempo. Egli parla infatti solo di una memoria esplicita o autobiografica che si produce dopo i due anni, depositaria dell’inconscio rimosso. La memoria implicita, invece, è quella memoria affettivo-emozionale della quale non si ha ricordo, relativa alle prime relazioni che il bambino stabilisce con la madre e l’ambiente familiare e che costituisce il nucleo inconscio del Sé non rimosso. L’accesso a esso è possibile attraverso il sogno e il transfert. Il primo, per le sue caratteristiche simbolopoietiche, determina il passaggio dal presimbolico al simbolico e, rendendosi pensabile, dal preverbale al verbale. Il secondo viene valorizzato essenzialmente nell’aspetto “comunicativo” musicale della voce e prosodico del linguaggio.
Tutto ciò evidenzia la distanza storica dalla posizione di Freud legata a un modello pulsionale del sogno, che si richiama a un inconscio rimosso, rispetto all’odierno modello relazionale, già presente nella Klein, in cui la rimozione perde la sua centralità a favore del non rimosso.
Il sogno assume in tal senso una valenza “costruttiva” in relazione alle dinamiche intrapsichiche e intersoggettive tra paziente e analista simbolicamente rappresentato, nell’hic et nunc della seduta, e una valenza “ricostruttiva” perché consente all’analista attraverso il transfert di offrire al paziente immagini della sua vita in cui egli, senza ricordo, si crea una rappresentazione di sé e rivive le emozioni antiche. Diviene così possibile ridisegnare quella storia passata e dimenticata. Questo sostanzia l’affermazione di Mancia che definisce il sogno «una finestra aperta nel transfert» e serve altresì a illuminarci sul perché, nel divenire della relazione terapeutica, il significato latente del sogno diventi sempre più evanescente nei confronti di quello manifesto.
Se il sogno, come elemento di grande fascinazione, è stato da sempre accostato al teatro, perché il soggetto rivive e rappresenta la propria ed esclusiva storia personale, mantenendo inalterata questa analogia, possiamo indicare nella memoria implicita l’accesso a un backstage che, lungi dall’essere occultato, reclama sempre di più una sua visibilità e significatività nella rappresentazione.
Concludo queste brevissime annotazioni che precedono l’intervista al professor Mancia con le stesse parole che egli ha usato in apertura a uno dei suoi ultimi libri, Il sogno e la sua storia:

Esiste un tempo lontano
fuori del ricordo, muto e non databile,
di cui non parlano narrazioni
né manuali di storia,
un tempo perduto che a volte
il sogno riesce a ritrovare.


N.L.: L’individuazione dello stato REM e NREM del sonno, la memoria implicita e il recente studio della coscienza che Edelman affronta nel libro di imminente pubblicazione Al di là del cielo. Un dono fenomenologico della coscienza, propongono le neuroscienze come l’ambito privilegiato relativo allo studio della mente e del cervello, determinando una sorta di isoformismo tra i due termini, foriero di un disordine epistemologico.
Vorrei, professor Mancia, che Lei nella sua doppia formazione di neurofisiologo e psicoanalista, quale portatore delle due anime, mi aiutasse a definire l’affascinante rapporto tra i due ambiti, ma anche le singole specificità.
M.M.: Sì, il problema può essere affrontato in maniera da poter riconoscere i limiti metodologici, statutari ed epistemologici di ciascuna disciplina. Se non si mantengono questi limiti, si finisce per invadere il campo dell’altro e creare confusione, soprattutto con proposte molto riduttive, che non sono utili né a una disciplina né all’altra. Ora, io credo che la prima riflessione da fare sia che qualsiasi operazione mentale richiede l’attivazione di particolari aree, circuiti, strutture, organizzazioni del cervello. La mente non viene dal cielo, non è trascendente, dipende dall’esperienza, dalla genetica, dalla relazione e dunque, da tanti fattori, che incidono nel cervello e che modificano l’attività cerebrale in una forma che le neuroscienze oggi stanno cercando di conoscere bene, come la plasticità neuronale, le funzioni sinaptiche, l’azione degli stimoli adeguati sui geni, la produzione di proteine, l’azione di proteine nelle sinapsi, e quindi la modifica stabile di alcune sinapsi, il problema della memoria, ecc. Ora, premesso appunto che esiste un’attività mentale che è una conseguenza delle funzioni del cervello, dobbiamo anche riconoscere che non conosciamo tutte quelle funzioni del cervello responsabili di tutte le funzioni mentali. No?
N.L.: Certo.
M.M.: Questo a un tempo ci dice che per poter indagare sulle funzioni della mente, esiste un metodo, o esistono dei metodi, di cui la psicoanalisi è un po’ il principe, che non sono quelli della neurologia funzionale, e che, dal punto di vista epistemologico, è necessario accettare un dualismo. Quindi la mia formula, diciamo, è un monismo ontologico perché tutto deriva dal cervello, ma un dualismo epistemologico perché per indagare la mente gli strumenti della neurologia funzionale non sono sufficienti, così come gli strumenti della psicoanalisi non ci dicono nulla per conoscere come funziona il cervello. Quindi, da questo punto di vista, noi dobbiamo poter sviluppare parallelamente le due direzioni.
Portiamo ad esempio il sogno, quello che a me interessa particolarmente. Innanzitutto non possiamo illuderci che il sogno equivalga al sonno REM. Il sogno può avvenire in fase REM, ma la fase REM non è che una cornice biologica, all’interno della quale si sviluppa il sogno, primo. Secondo: non è solo da cornice il sonno REM, perché ci sono altre cornici che sviluppano il sonno REM. Per esempio, di recente ho parlato con il professor Bassetti di Zurigo che ha fatto una osservazione importante su una donna che ha avuto una lesione bilaterale delle aree temporo-occipitali, piccole lesioni che non hanno impedito il sonno REM, ma che hanno impedito il sogno, dunque il sogno può avvenire anche al di fuori del sonno REM. Pertanto il fenomeno mentale “sogno” e il fenomeno fisiologico “sonno REM” non vanno sempre insieme. Naturalmente possono andare insieme, ma l’organizzazione del sogno è più complessa del sonno REM. Quindi il sogno è una palestra interessante perché può essere oggetto d’indagine, di studio, da parte di tanti ricercatori, di tante discipline. I neuropsicologi studiano appunto quelle aree cerebrali che organizzano il sonno, la lesione delle quali impedisce il sogno. Gli psicologi sperimentali studiano in quale fase del sonno il sogno si manifesta, le caratteristiche del sogno in rapporto alle diverse fasi. I neuropsicologi classici, di cui io faccio parte nella mia formazione ormai quarantennale, si occupano di quelle strutture che determinano il sonno, all’interno delle quali il sogno si organizza. È solo la psicoanalisi che si occupa del significato del sogno. E dunque ognuno ha diritto di parlare del sogno.
N.L.: Con specificità diverse, con angolazioni diverse, come in un caleidoscopio.
M.M.: Con prospettive diverse, con angolazioni, con vertici, chiamiamoli vertici, di osservazione diversi. Oggi noi siamo nella posizione di poter vedere panoramicamente questi diversi vertici, possiamo vedere il fenomeno da vari punti di vista, con una stereoscopia che una volta non c’era. Questo per quanto riguarda il sogno; la stessa cosa vale per la memoria. La memoria interessa i neurofisiologi, i neurologi funzionali, i neurologi sperimentali, gli psicologi. Ma interessa molto anche gli psicoanalisti, perché fin dal 1912 lo stesso Freud aveva detto che tutto ciò che viene immagazzinato nella memoria in una forma o in un’altra viene a far parte dell’inconscio. Dunque, se l’inconscio è una struttura, una funzione, io la considero una funzione della mente indispensabile per poter conoscere anche la coscienza e per poter capire i comportamenti, i sentimenti, le emozioni di un soggetto, ecco allora che conoscere le strutture necessarie o comunque come si organizza la memoria, sia quella implicita sia quella esplicita, ci dà una misura di come si organizza l’inconscio. Non solo, ma se esistono due forme di memoria, la memoria esplicita e la memoria implicita, che è relativa soprattutto ai primi anni di vita, o a eventi particolarmente traumatici, ecco allora che su questa base noi possiamo pensare a due forme di inconscio: uno legato alla memoria esplicita, e quindi presumibilmente legato alla rimozione, e uno legato alla memoria implicita, che sicuramente non può essere attribuito alla rimozione. Dunque anche lì il contributo delle neuroscienze diventa appunto importante. Quindi ho parlato del sogno, parlando della memoria, e dell’inconscio. Ora possiamo parlare della coscienza.
Circa la coscienza, Edelman, Damasio, ecc., parlano di una coscienza in termini molto riduttivi, in termini cioè di una mappatura della corteccia, di processi rientranti nell’arco di alcuni circuiti. Ma la coscienza, dal punto di vista psicoanalitico, va al di là di questo, perché risente non soltanto dell’attivazione di alcuni circuiti, ma soprattutto dell’organizzazione dell’inconscio, perché la coscienza è il risultato di un’operazione dove l’inconscio ha un ruolo centrale. Quindi, a quel punto, l’inconscio ha a che fare con la memoria, come abbiamo detto, però ha a che fare anche con le emozioni, che a loro volta possono farci evitare o meno il processo di memorizzazione. Dunque, anche la coscienza, essendo un fenomeno direi quasi secondario rispetto a quello dell’inconscio, della memoria, delle emozioni, dipende da questi fattori, fattori molto complessi.
Questo fa parte di un discorso più ampio che verrà fatto a Verona il primo ottobre 2004 e poi a Genova il 4 novembre, dove ho organizzato una conferenza internazionale su neuroscienze e psicoanalisi, relativamente, appunto, alla memoria, alle emozioni e se ne riparla poi ad Atene due giorni dopo, il 6 novembre 2004, dove verranno ampliate e riprese queste stesse cose.
L’interesse è molto, con mia grande sorpresa. Devo dire che in questo anno c’è stata grandissima attenzione da parte di molti psicanalisti al problema delle neuroscienze. Giustamente, direi, perché le neuroscienze hanno fatto grandi progressi. È necessario tuttavia mettersi in condizione di muoversi in determinati ambiti senza fanatismo.
N.L.: Il rischio è altrimenti di dichiarazioni paradossali.
M.M.: Direi riduttive. Lo stesso libro di Damasio, che io ho recensito...
N.L.: Quello su Spinoza? Alla ricerca di Spinoza?
M.M.: Sì, è un libro importante, un libro di divulgazione, anche ben scritto, anche bello, che mi ha interessato leggere durante l’estate; tuttavia è molto riduttivo, perché non si può pensare che tutte le informazioni, tutti gli stimoli adeguati arrivino alla corteccia senza elaborazioni e di lì come una centralina s’irradi dappertutto e giustifichi il comportamento umano.
N.L.: Il comportamento umano è molto più ricco, anche perché è individualizzato…
M.M.: Le stesse emozioni in fondo sono ancora più ricche, sono spiegabili dal punto di vista neurologico funzionale, ma non possiamo ridurle a neurologia funzionale. Questo è il punto centrale.
N.L.: Senta professore, lei accennava poco fa al discorso della memoria implicita che porta a una revisione dell’inconscio: le due memorie, esplicita e implicita, fanno riferimento all’inconscio rimosso e all’inconscio non rimosso. Allora all’inconscio freudiano, che posto resta oggi? È sempre il luogo del rimosso e delle difese?
M.M.: Oso dire che progressivamente perde d’importanza, come ha perduto la centralità il complesso di Edipo.
Il complesso di Edipo e la rimozione, che sono stati i cardini su cui Freud ha costruito la teoria della rimozione, hanno perso la centralità. Ma questo è il mondo che lo va determinando. È l’intelligenza umana, la curiosità umana, il lavoro continuo che facciamo su di noi e sul mondo, che ci permette di andare oltre Freud. E guai se rimanessimo fermi. Quello che io vedo è che la centralità dell’Edipo e la centralità della rimozione devono lasciar lo spazio al tempo, e quindi anche alla memoria implicita. Già con la Klein negli anni ’30, si passa dal modello pulsionale a quello relazionale.
È chiaro che la pulsione è energia dinamica che comporta repressione, cioè l’inconscio rimosso. Ma laddove c’è una relazione, non c’è bisogno di rimuovere, c’è solo il problema di immagazzinare quest’esperienza e organizzare delle vicende o delle fantasie che non possono che far parte di una memoria che non può essere esplicita. Quindi tutto cambia e per fortuna direi, il fascino della stessa psicoanalisi che sa trasformarsi a dispetto di...
N.L.: Di quanti ritenevano che fosse un po’ troppo legata a Freud.
M.M.: Certo, era la morte, la fine. Io credo che abbia continuato per anni a girare su se stessa, senza tener conto dell’innovazione di Klein, Winnicott, Meltzer, degli autori che invece hanno portato dei contributi significativi, che hanno dato modo a noi di uscire un po’ da questa gabbia dorata della psicoanalisi freudiana, andando oltre Freud; rispettando enormemente le idee di Freud, ma arricchendole, ampliandole. E credo che il nostro compito sia di poter andare oltre Freud e di poter introdurre concetti nuovi, esperienze nuove. Prendere dalle neuroscienze, dalla filosofia, dalla neuropsicologia, dalla psicologia sperimentale, cercare di integrare queste conoscenze per poter arricchire la psicoanalisi e non farla morire.
Quindi è molto importante rendersi conto oggi che è necessario lasciare il passo e che la teoria della mente, basata su Edipo e sulla rimozione, deve lasciar lo spazio alla non-rimozione e alla relazione.
N.L.: Quindi il discorso sulla memoria implicita è una pietra miliare in questo processo evolutivo?
M.M.: Sì, certo. E c’è da meravigliarsi che tanti colleghi non ne siano a conoscenza. Quindi mi assumo la responsabilità e il merito di aver portato avanti questo discorso, sperando che venga recepito. Anche se le difese sono tante.
N.L.: Accade un po’ in tutti i campi, ancor di più in questo, in cui avendo a che fare con la mente, c’è anche un senso di potere maggiore.
M.M.: Esatto.
N.L.: Relativamente alla memoria implicita, Lei ha detto che le vie di accesso a questo nucleo non rimosso sono il sogno per gli aspetti simbolici e il transfert essenzialmente nella parte comunicativa.
M.M.: In particolare sono importanti, nell’ambito della comunicazione, due elementi: la voce e l’organizzazione del linguaggio. Perché la voce richiama la voce materna e quindi tutta la musicalità di una voce familiare, familiarissima, che incomincia già in vita prenatale. C’è un convegno a novembre 2004 a Lione, dove io sono stato invitato molto gentilmente da Bergeret, proprio su questo tema e sulle “conseguenze”, diciamo, della vita prenatale nell’ambito della vita postnatale. Lui stesso ha intuito l’importanza di questo, indipendentemente dai miei lavori, e mi ha mandato un suo lavoro in cui si sottolinea l’importanza dell’esperienza prenatale.
Ora, parlavamo della voce materna, un’esperienza che inizia precocemente e caratterizza la nostra modalità di stare nel mondo, di relazionarci, e del linguaggio, nella sua organizzazione sintattica, semantica. Parlo della voce in tutti i suoi aspetti, naturalmente: tono, volume, ecc. Ed è quello che ho chiamato la musicalità del transfert, cioè la dimensione musicale del transfert.
Questo è un aspetto molto importante, perché ci richiama esperienze preverbali, perché prima ancora che la parola abbia un suo contenuto, c’è una musicalità, c’è la lallazione, c’è tutto un tono che riemerge nel transfert. Soltanto dobbiamo stare abbastanza attenti a cosa far emergere. Se un analista non ha orecchio, è meglio che faccia un altro mestiere. Ecco perché dico che un buon analista deve avere anche un grande interesse musicale. L’altra cosa importante è il sogno. Perché il sogno? Perché il sogno ha questa grande capacità di trasformare simbolicamente esperienze presimboliche.
Il sogno ha quest’affascinante, meravigliosa, straordinaria funzione nella nostra mente, che è quella di fare ciò che nella veglia non riesce a fare, cioè trasformare simbolicamente un’esperienza preverbale e presimbolica in un’esperienza simbolica e, nella misura in cui è simbolizzata, diventa pensabile, attraverso il simbolo, e quindi verbalizzabile, verbale.
N.L.: Quindi tutto questo porta a valorizzare il “qui e ora” della relazione analitica?
M.M.: Ci permette di valorizzare il “qui e ora” della esperienza analitica, ma a un tempo, nella misura in cui ci richiama esperienze passate presimboliche, ci permette di ricostruire il valore presimbolico di qualche cosa, ad esempio di traumatico, che ricompare simbolizzato nel sogno. Ci permette un percorso costruttivo e ricostruttivo. Ecco perché è importante cogliere nel sogno la dimensione costruttiva come una finestra aperta nel transfert, cioè decisamente radiografante, diciamo così, il transfert, ma anche ricostruttiva perché attraverso quella radiografia si può risalire a un’esperienza presimbolica che il sogno ha reso simbolico e pensabile.
N.L.: Una domanda che m’interessa molto, su questo valore che assume la voce, il tono, la musica come lei l’ha chiamata perché ha a che fare con la musica materna, quindi, in un certo senso, con la famiglia, è quella di poter spiegare perché, ad esempio, il malato di Alzheimer, che perde man mano tante funzioni, tante abilità, conserva invece fino all’ultimo la sensibilità musicale?
M.M.: È una questione a cui non avevo mai pensato. Non ho tanta esperienza di Alzheimer in verità. Adesso che lei me lo dice, mi fa piacere pensare che lei possa aver ragione, che si possano conservare effettivamente le esperienze più arcaiche. Infatti nell’Alzheimer è intatta la memoria implicita. In un esperimento di gioco spaziale con il computer, condotto con otto Alzheimer e otto normali, tale esperienza è stata dai primi sognata, anche se era stata dimenticata. Cosa vuol dire questo? Che quell’esperienza non è stata depositata nella memoria esplicita, ma è stata depositata nella memoria implicita, per cui l’hanno potuta sognare, senza poterla ricordare.
N.L.: Questo ci porterebbe a guardare l’Alzheimer in maniera un po’ diversa?
M.M.: Questo che lei dice è molto giusto. Non avevo finora pensato in questi termini, ma ritengo che questa conservazione della memoria implicita da parte degli Alzheimer, così come lei propone, e come è stato dimostrato da un gruppo di Harvard nel 2001, riproponga considerazioni e riflessioni importanti. È come se le persone con l’Alzheimer avessero perduto la memoria esplicita, ma conservassero in realtà la memoria implicita. Quindi, anche ai fini del recupero terapeutico, diciamo, potrebbe essere molto importante far leva su questa conservazione.
N.L.: La persona con un disturbo di Alzheimer in tal senso sarebbe vista come una persona che mantiene ancora una memoria, che rappresenta il filo sottile del suo essere stato ed essere nel mondo; sarebbe una persona che ancora “c’è”.
M.M.: Questo è molto interessante, cioè il poter utilizzare la memoria implicita che rimane per un eventuale recupero terapeutico.
N.L.: Senta professore, un’ultima domanda. Qual è l’area di attenzione oggi nella ricerca sul sogno, dove sta andando la ricerca?
M.M.: Dal punto di vista psicoanalitico, tenendo conto dello sviluppo delle neuroscienze, l’attenzione è proprio quella di usare il sogno a fini costruttivi e ricostruttivi e recuperare dal sogno l’esperienza presimbolica che il sogno simbolizza. È questa la cosa fondamentale. Dal punto di vista neuroscientifico, l’esperienza di Bassetti, con cui ho parlato, è quella di poter localizzare nelle aree posteriori l’area del sogno, ma le aree posteriori sono anche quelle della memoria implicita. Quindi il sogno, da una parte, non può non rivelare il rimosso, ma come il problema della rimozione deve cedere il passo alla non rimozione, allo stesso modo l’uso del sogno per tirar fuori il rimosso deve lasciar il passo all’uso del sogno per tirar fuori ciò che non è stato rimosso, attraverso il processo di simbolizzazione.
N.L.: Quindi è un continuum, nel divenire.
M.M.: È l’andare avanti il fascino del nostro lavoro; certo, se non ci fosse questo, saremmo tutti qui a ripetere noiosamente quello che è stato già fatto.
N.L.: Quindi agli psicologi del Sé, che vedono il sogno come fatto evolutivo, si potrebbe rispondere che è evolutivo nella misura in cui il sogno soddisfa il processo costruttivo e ricostruttivo?
M.M.: Evolutivo, nel senso che sequenzialmente all’inconscio rimosso si aggiunge l’inconscio non rimosso e quindi il sogno in qualche modo permette di dare una sfaccettatura maggiore a tutte le forme d’inconscio. Sempre però tenendo presente che mano a mano che la ricerca va avanti ci accorgiamo, anche a livello clinico, che la rimozione diventa sempre meno importante rispetto alla non rimozione. Questo è difficile per i nostri colleghi capirlo, ma ciò che è rimosso non diventa più centrale al processo terapeutico; è centrale ciò che non è rimosso.
N.L.: Quindi è questo il nuovo orizzonte?
M.M.: Non è l’unico, spero che ce ne saranno altri. Io penso che dobbiamo battere questo ferro caldissimo adesso. Ma siamo in pochi a batterlo. Si sta diffondendo piano piano però.
N.L.: Faticosamente, mi pare.
M.M.: Sì, ad esempio, alcuni colleghi sono molto resistenti ad ammettere questo cambiamento di prospettiva. Io personalmente sfuggo alle dittature in questi ambiti.
N.L.: Per fortuna, possiamo contare sulla forza della ricerca e sulla sua eticità, che ci portano avanti.


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