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C.P.A.T. --> HOME PAGE --> N. 42/2004

QUADERNI DI PSICOLOGIA,
ANALISI TRANSAZIONALE
E SCIENZE UMANE

Dal n° 42 - 2004


Supervisione in analisi transazionale: un modello operativo

Marco Mazzetti*




Riassunto
L'articolo presenta un modello operativo per condurre supervisioni in Analisi Transazionale. Esso parte dalla lista di controllo proposta da Petruska Clarkson per la valutazione delle supervisioni, ed è stato modificato definendo sette elementi da tenere presente: 1. contratto chiaro e appropriato; 2. identificazione dei punti-chiave; 3. efficace contatto emotivo con l'allievo; 4. protezione dell'allievo e del paziente; 5. aumento delle direzioni di sviluppo; 6. consapevolezza e utilizzo efficace del processo parallelo; 7. relazione paritaria.
Vengono poi discusse le peculiarità di questi sette elementi nei tre diversi stadi di sviluppo dell'allievo (iniziale, intermedio e avanzato).

Abstract
Supervision in Transactional Analysis: an Operative Model
The paper shows a model for supervision in Transactional Analysis. Based on the Petruska Clarkson's checklist, it was modified by identifying seven components: 1. clear and appropriate contract; 2. key issues identified; 3. effective emotional contact with the trainee; 4. protection of both trainee and patient; 5. increases developmental directions; 6. awareness and effective use of the parallel process; 7. equal relationship.
The author discusses the characteristics of these seven components related to the trainee's three different stages of development (beginning, intermediate, advanced).

Supervisione analitico-transazionale: più prassi che teoria
La supervisione in Analisi Transazionale è nata con l'Analisi Transazionale stessa. Eric Berne, ci raccontano le testimonianze dei suoi primi discepoli, era un uomo che amava insegnare e offrire supervisioni. I suoi seminari, di Monterey e di San Francisco, cominciati dai primi anni '50, erano essenzialmente supervisivi (Cheney, 1971): Claude Steiner (1974) ci ricorda come una delle regole dei seminari fosse quella che ogni presentazione fatta dai partecipanti dovesse concludersi con una richiesta al gruppo. Beninteso, si trattava di supervisioni nel senso più ampio del termine, in cui si affiancava alla discussione sui casi clinici un'accurata analisi teorica del nascente sistema psicoterapeutico.
Coerentemente con il modello berniano, l'organizzazione internazionale dell'Analisi Transazionale, e il sistema di certificazione di cui si è dotata, hanno riservato un ruolo privilegiato alla supervisione. Ben presto gli analisti transazionali, con una scelta non comune nel mondo della psicoterapia, si sono posti il problema di come formare i supervisori, essendo consapevoli che offrire supervisione è un'attività a sé, con proprie peculiarità, e che comporta specifiche responsabilità. Hanno così strutturato un percorso formativo che nelle sue grandi linee è ancora quello attuale, in cui la certificazione come supervisore avviene dopo un lungo apprendistato che comprende, tra l'altro, un curriculum in cui ampio spazio hanno ore di supervisione su come fare supervisione, e un esame dal vivo, come ben sappiamo.
Gli analisti transazionali, dunque, in quasi mezzo secolo di attività, hanno fatto e offerto tantissime ore di supervisione, hanno appreso e insegnato come fare supervisione, si sono esaminati a vicenda sulla propria qualità come supervisori.
A fronte di così tanta pratica, non c'è stata una corrispondente produzione teorica su cosa sia la supervisione in Analisi Transazionale, e su quali ne siano le caratteristiche peculiari, come ha messo in evidenza Keith Tudor (2004) nella sua ampia revisione della letteratura.
Io non credo che questa situazione dipenda da una scarsa caratterizzazione della supervisione analitico-transazionale rispetto alla supervisione in generale, in psicoterapia o negli altri campi di applicazione. Ho visto all'opera molti supervisori durante il mio lungo percorso formativo, dal primo contratto come CTA (Analista Transazionale Certificato) all'esame finale di TSTA (Analista Transazionale Didatta e Supervisore), e continuo a vederne con piacere durante le sessioni di esame: i candidati, nonostante lo stress della situazione, esprimono stili di supervisione personali, meditati, ben ancorati nella teoria analitico-transazionale, e spesso mi offrono spunti di riflessione e di apprendimento.
Mi sono convinto, osservando così tanti supervisori, che ci sia molto di specifico nella supervisione in Analisi Transazionale: la questione è, semplicemente, che di queste esperienze non è stato scritto molto. Del resto io stesso penso di fare supervisioni essenzialmente analitico-transazionali, per quanto influenzate e arricchite da spunti provenienti da altre teorie. Ho pensato, quindi, di presentare il modello operativo che io utilizzo, e che è basato essenzialmente sulla teoria dell'Analisi Transazionale. Costituisce, a mio modo di vedere, un esempio di quella "teoria della tecnica" che è una nota distintiva del nostro sistema di riferimento: una teoria solidamente ancorata nella prassi, come Berne ha voluto che fosse, fin dagli inizi, l'Analisi Transazionale.

Il modello operativo che io seguo si basa in larga parte sulla "lista di controllo" (checklist) proposta da Petruska Clarkson (1992) nel suo saggio sulla psicoterapia analitico-transazionale, con alcune modifiche. Quella di Petruska Clarkson è, infatti, essenzialmente una lista di controllo che ha lo scopo di valutare una supervisione, o di fornire al professionista uno strumento di autovalutazione del proprio operato, e non nasce come modello di intervento. Essa si basa su questi sei punti:

1. Realizzazione del contratto
2. Identificazione dei punti-chiave
3. Riduzione della probabilità di danno per il paziente
4. Aumento delle direzioni di sviluppo
5. Capacità del supervisore di modellare il processo
6. Relazione paritaria

Gli analisti transazionali hanno apprezzato molto la semplicità e l'efficacia di questa lista, e hanno deciso di utilizzarla come base per la scheda di valutazione della sezione di supervisione dell'esame TSTA (EATA PTSC, 2003). Nella pratica professionale, tuttavia, molti colleghi (tra cui io) la usano come traccia per il proprio intervento supervisivo. Per passare da un utilizzo come lista di controllo per la valutazione a uno come modello operativo ho ritenuto opportune alcune modifiche, che descriverò in dettaglio più avanti, e che qui sintetizzo così:

1. Stabilire un contratto chiaro e appropriato
2. Identificazione dei punti-chiave
3. Efficace contatto emotivo con l'allievo
4. Assicurarsi che sia l'allievo sia il suo paziente siano adeguatamente protetti
5. Aumento delle direzioni di sviluppo
6. Consapevolezza e utilizzo efficace del processo parallelo
7. Relazione paritaria

Come si vedrà più avanti, si possono avere ampie sovrapposizioni tra questi fattori. Ad esempio, un'efficace discussione contrattuale può comportare, già a questo livello, l'identificazione dei punti-chiave, un'attenzione efficace ai vissuti emotivi dell'allievo può coincidere con l'analisi del processo parallelo, e l'identificazione di promettenti direzioni di sviluppo può essere il migliore modo per garantire protezione a entrambi i membri della relazione terapeutica. Tuttavia a scopo didattico mi sembra utile mantenere questa suddivisione.

L'altro riferimento teorico che utilizzo nel mio modello operativo è il lavoro pubblicato da Richard Erskine (1982) sullo sviluppo professionale nella supervisione in psicoterapia.
Erskine individua tre stadi di sviluppo nella competenza di un terapeuta, ognuno dei quali presenta caratteristiche peculiari e bisogni formativi specifici.
Il primo livello, stadio iniziale, è quello in cui il terapeuta ha una serie di necessità operative che sono essenzialmente quelle di sviluppare le proprie abilità professionali: deve costruirsi un solido sistema di riferimento teorico, e ha quindi bisogno di informazioni in tal senso, e deve imparare le tecniche di intervento. Ha anche delle necessità di tipo emotivo: ha bisogno di prendere confidenza con il suo ruolo professionale, di rassicurarsi sulle proprie capacità di fare, di sentirsi adeguato ad agire nella nuova attività.
Nel secondo livello, stadio intermedio, secondo Erskine l'allievo ha bisogno di rinforzare e ampliare le sue competenze e l'obiettivo principale è quello di sviluppare la sua personale identità come terapeuta; tra l'altro, ha bisogno di imparare a definire la direzione del trattamento e di pianificarlo. Sul piano personale, l'obiettivo è promuovere l'integrazione del senso di sé del terapeuta e lavorare sulle sue emozioni per comprendere e risolvere le eventuali difficoltà personali che lo ostacolano nel contatto con il paziente. In questa fase, secondo Erskine, è particolarmente importante per l'allievo la terapia personale.
Il terzo stadio, avanzato, è quello in cui l'allievo ha bisogno di imparare una varietà di approcci differenti e integrare molteplici riferimenti teorici, a riconoscere le diverse alternative di intervento che gli si prospettano, a scegliere tra queste, e a coltivare la propria flessibilità. Obiettivi dell'allievo in questa fase sono anche sviluppare la capacità di auto-supervisionarsi e di imparare a distinguere tra osservazioni di comportamenti e teorizzazione delle osservazioni.
Come vedremo, i sette punti del modello che io utilizzo hanno un'applicazione differente nei tre stadi della formazione descritti da Erskine: per questa ragione considero utile integrare queste due diverse prospettive.

I sette punti del modello operativo
Dopo questa premessa, è il momento di passare alla descrizione dei sette punti del modello operativo, con un'attenzione specifica a sottolinearne le peculiarità analitico-transazionali, perché un obiettivo di questo articolo è sostenere la tesi che esiste una specificità nell'offrire supervisioni in Analisi Transazionale.

1) Il contratto. Preferisco usare, per riferirmi a questo aspetto della pratica supervisiva, la definizione "Stabilire un contratto chiaro e appropriato" piuttosto che quella di Petruska Clarkson: "Realizzazione del contratto". Penso che in questo secondo caso, trattandosi di una lista di controllo per la valutazione della supervisione, l'enfasi sia giustamente posta sull'adempimento del contratto; volendo invece riferirsi a una guida per condurre la supervisione, trovo più utile sottolineare la procedura di definizione del contratto.
Non voglio entrare nel merito di quanto sia profondamente "Analisi Transazionale" pensare e agire in termini contrattuali: mi limito a concordare con Anna Rotondo (2003) quando sostiene che il contratto è l'aspetto che probabilmente meglio definisce la pratica dell'Analisi Transazionale rispetto alle altre prassi psicoterapeutiche, e ad aggiungere che l'uso del contratto è l'espressione operativa dei valori base dell'Analisi Transazionale (ognuno è Ok, ognuno ha la capacità di pensare, ognuno è responsabile del proprio destino).
Ai miei esordi come supervisore, appena iniziata la formazione come PTSTA, stabilire il contratto durante una seduta di supervisione mi appariva come qualcosa di vagamente minaccioso. Era un imperativo assoluto cui non potevo sottrarmi («Prima di tutto si DEVE fare il contratto») e che mi incuteva qualche timore; con gravi conseguenze per la mia autostima ogni qualvolta non ci riuscissi.
Le cose sono cambiate, per me, quando sono uscito dal mio dialogo interno, ho ridimensionato il mio recente e critico Genitore AT, e ho cominciato a dedicarmi al mio allievo. A quel punto mi sono reso conto che la discussione contrattuale non è altro che una procedura di comprensione e di esplicitazione dei bisogni dell'altro. Che, certamente, porta a stabilire una direzione comune. Ma vorrei qui mettere l'accento sulla comprensione e l'esplicitazione. Perché può accadere, a volte, che la discussione contrattuale si prenda quasi tutto il tempo della supervisione, e che addirittura non si arrivi a stabilire un contratto; e che (eresia!) non per questo la supervisione sia malfatta o inefficace.
A volte, infatti, può accadere che l'allievo si senta confuso, e che la sua difficoltà consista proprio nell'identificare ciò di cui ha bisogno: è più utile, in questi casi, proseguire nella chiarificazione delle sue necessità piuttosto che imboccare per forza qualche strada, per quanto possa apparire più o meno azzeccata al supervisore. Comprendere il bisogno scotomizzato, o anche solo portare in evidenza i motivi per cui l'allievo ha difficoltà nell'individuare un contratto possono essere già un buon risultato supervisivo.
Un contratto valido, in Analisi Transazionale, è quello che, come ci ricorda Claude Steiner (1974), si basa su consenso reciproco, corrispettivo valido, competenza e scopo lecito. Per quanto riguarda la supervisione, vorrei anche richiamarmi all'originale definizione berniana: «esplicito impegno bilaterale per un ben definito corso d'azione» (Berne, 1966 - il corsivo è mio), e vorrei sottolineare, in particolare, la parola "esplicito", perché ci introduce a qualche considerazione sulla tecnica contrattuale. A volte i contratti non sono del tutto espliciti: supervisore e allievo discutono, si accordano sull'argomento, ma manca un'esplicita formulazione dell'obiettivo comune, e questo può creare malintesi e ostacolare il raggiungimento dell'obiettivo finale. Le operazioni berniane più utilizzate, nella discussione del contratto, sono l'interrogazione e la specificazione; a mio parere, l'ultima transazione dev'essere una specificazione seguita da un'esplicita risposta di accordo, ad esempio:
Supervisore: «Dunque, quello che vuoi ottenere da questa supervisione è comprendere perché alla fine della seduta ti sei sentito irritato. È così?»
Allievo: «Sì, è questo».
O anche, reciprocamente:
Allievo: «Quindi, quello che voglio ottenere è comprendere perché alla fine della seduta mi sono sentito irritato».
Supervisore: «Bene, accetto di lavorare con te perché tu comprenda perché ti sei sentito irritato alla fine della seduta».
Una specificazione di questo tipo corrisponde al concetto berniano di «esplicito accordo bilaterale», e consente di essere efficacemente riutilizzata in seguito, come è proprio delle specificazioni. A volte, come nel caso discusso in precedenza in cui un allievo non sia ben consapevole dei propri bisogni, possono essere utili anche confrontazioni e/o spiegazioni.
In generale, anche per i contratti supervisivi valgono gli accorgimenti tecnici suggeriti per i contratti terapeutici da McClure Goulding e Goulding (1979) e M. James (1987): in particolare per quanto riguarda l'enunciazione in termini positivi, la comprensibilità e la specificità (evitare cioè ambiguità o aspetti impliciti); e, infine, per l'osservabilità e la raggiungibilità del risultato.
Altre considerazioni tecniche: per la definizione del contratto, e le specificazioni che si rendono necessarie, è preferibile utilizzare le parole usate dall'allievo, evitando di introdurne di nuove, perché si riduce il rischio di suggerire, in qualche modo e implicitamente, un contratto, mentre può essere efficace riformulare le frasi, ad esempio passando da un linguaggio passivo a uno attivo:
Allievo: «Questo paziente da un po' di tempo mi fa irritare».
Supervisore: «Dunque, mi dici che da un po' di tempo ti senti irritato con questo paziente. C'è qualcosa che ti interessa ottenere a questo proposito?»
E anche in supervisione valgono le stesse regole tecniche che si usano per i contratti terapeutici: attenzione a non suggerire contratti (che possono favorire adattamenti) o ad accettare richieste potenzialmente simbiotiche, ad esempio:
Allievo: «Vorrei che tu mi suggerissi delle strategie con questo paziente».
Dopo una frase di questo tipo, il supervisore può invitare l'allievo a diventare consapevole del gancio simbiotico:
Supervisore: «Vuoi che io ti suggerisca delle strategie, o sei interessato a trovarne tu, utilizzando la supervisione?».
Queste considerazioni tecniche non devono però diventare una camicia di forza: io sono piuttosto rigoroso nel seguirle con allievi negli stadi intermedio e avanzato, ma le cose cambiano con quelli allo stadio iniziale, in cui accetto un rigore assai minore, e in cui trovo adeguato fornire esplicitamente informazioni e suggerimenti sia per la diagnosi che per la terapia. Inoltre, con allievi agli inizi che hanno, talora, un dialogo interno critico legato al fatto di non sentirsi ancora a proprio agio nel nuovo ruolo professionale, un'attenzione molto puntuale al contratto può essere vissuta in termini persecutori, del tipo "non sono nemmeno in grado di sapere bene cosa voglio": è questa un'altra ragione, per me, di essere flessibile.
Un altro caveat: in genere non è utile accordarsi su due contratti, ovvero fissare due obiettivi, per quanto collegati tra loro: la duplice possibilità può diventare un'occasione di ridefinizioni. È più efficace, in genere, di fronte a una doppia richiesta, invitare l'allievo a scegliere una priorità, e cominciare da lì, rivolgendosi solo in seguito all'altra domanda. Il tutto esplicitamente dichiarato.
Il contratto stesso non deve diventare una camicia di forza! È un indirizzo iniziale, non una strada obbligata: può accadere che durante il procedere della supervisione l'allievo si accorga che la strada che più gli interessa sia un'altra, ed è pienamente legittimo cambiarla. A condizione che il cambiamento sia esplicitato e concordato, per evitare possibili inviti a giochi.
Infine, vorrei sottolineare come un'attenta e rispettosa discussione contrattuale sia parte fondamentale della capacità del supervisore di modellare il processo, ovvero di insegnare implicitamente uno stile di intervento con il proprio comportamento.

2) Identificazione dei punti chiave. Ritengo che dietro a ogni richiesta di supervisione ci possa essere una svalutazione, e che tenere a mente la matrice delle svalutazioni (Schiff, 1975) sia utile. La domanda che io mi pongo, quindi, già durante la discussione contrattuale con l'allievo, e poi durante il processo supervisivo, è "dove sta la svalutazione?". La matrice delle svalutazioni (figura 1) fornisce una mappa che mi sembra utile seguire.

Figura 1
La matrice delle svalutazioni (Schiff, 1975)



Come sappiamo, una svalutazione a qualsiasi livello comporta un'automatica svalutazione anche di tutte le aree che si trovano sotto e a destra. Il che può guidarci già nella discussione del contratto: non ha senso accordarci su "trovare alternative" se il problema ancora non è chiarito, e la svalutazione iniziale è a quel livello, o addirittura sopra, a livello degli stimoli.
Diventa inoltre determinante, dal mio punto di vista, conoscere lo stadio di sviluppo dell'allievo. In genere, tanto più l'allievo è agli inizi, tanto più probabile sarà una svalutazione ai livelli in alto e a sinistra (T1 e T2: esistenza e significato di stimoli e problemi) mentre tanto più il supervisionato è esperto, tanto maggiore sarà la probabilità di una svalutazione in basso e a destra (T5 e T6: agibilità delle alternative e capacità personali di risolvere i problemi).
È utile ricordare questo schema perché può aiutarci a prevenire alcuni rischi, soprattutto con allievi allo stadio iniziale: una svalutazione a livelli elevati può significare che l'allievo sta ignorando stimoli importanti, o non ne considera il significato. Il che, in psicopatologia, può significare non rilevare sintomi consistenti, svalutare ad esempio un rischio di suicidio o di violenza, o qualche aspetto etico che può mettere a rischio l'allievo o il suo paziente. Credo che sia uno specifico compito di ogni supervisore, soprattutto con allievi allo stadio iniziale, andare alla ricerca, con domande ad hoc, di specifiche possibili svalutazioni ai livelli alti della matrice.
Nella sua opera già citata, Petruska Clarkson (1992) definisce cinque categorie di questioni-chiave in supervisione: diagnosi e pianificazione del trattamento, strategie e tecniche di intervento, processo parallelo, controtransfert e problemi personali dell'allievo, etica e pratica professionale (con il modello modificato da me alcune di queste questioni vengono affrontate più avanti): come si vede si tratta di temi aspecifici, che possono valere per qualsiasi scuola psicoterapeutica. Ma a ognuno di essi si può efficacemente applicare il modello della matrice delle svalutazioni, che consente di fare una supervisione tipicamente analitico-transazionale. Oltre naturalmente al fatto che ognuna delle categorie identificate dalla Clarkson ha una specifica lettura analitico-transazionale: diagnosi e pianificazione del trattamento in Analisi Transazionale, strategie e tecniche in Analisi Transazionale eccetera.

3) Contatto emotivo con l'allievo. Qualche anno fa, nel corso della mia preparazione all'esame TSTA, chiesi una supervisione a Fanita English. Fanita si congratulò con me per l'efficacia con cui avevo identificato le questioni-chiave del problema clinico, tuttavia mi fece notare che avevo trascurato completamente le emozioni del collega supervisionato: mi aiutò a riconoscerle, a dar loro un significato e un senso operativo. Quel giorno compresi che far supervisione non significa (solo) discutere un caso clinico, ma soprattutto prendersi cura di una persona, il collega in supervisione, e tramite lui del suo paziente. Non è un'attività essenzialmente intellettuale, ma una modalità di "prendersi cura".
Da questo punto di vista le emozioni sono terreno privilegiato della supervisione. Erroneamente pensavo che ciò che riguardasse le emozioni fosse terapia, e quindi non dovesse avere spazio in supervisione. Oggi la penso diversamente: penso che l'empatia, la capacità di sintonizzarsi sui vissuti emotivi dell'allievo siano doti necessarie al supervisore. Rispetto alla terapia cambia il modo di occuparsi delle emozioni, non il fatto di occuparsene. In supervisione le emozioni entrano, perché è necessario riconoscerle, dare loro un nome, comprenderle, anche se la finalità non è, come in terapia, cambiare il copione dell'allievo: al massimo la supervisione, da questo punto di vista, serve a identificare questioni da trattare in terapia. Benché non di rado, soprattutto con allievi allo stadio avanzato e molto consapevoli di sé, questioni emerse in supervisione possano favorire degli insights e avere una notevole efficacia trasformativa.
Un buon contatto emotivo è quindi un requisito per una buona supervisione. Io distinguo due tipi di vissuti emotivi nel setting supervisivo: quelli che fanno parte del territorio del controtransfert e quelli che non ne fanno parte.
Per quanto riguarda le emozioni non controtransferali, esse hanno a che vedere soprattutto con il dialogo interno che l'allievo ha tra sé e sé, e che può esprimere (o non esprimere) come vissuti transferali nei confronti del supervisore. Questa distinzione è utile perché, in base alle mie osservazioni, il rapporto tra vissuti non-controtransferali e vissuti controtransferali varia parecchio nei diversi stadi della formazione (figura 2).



La figura vuole rendere graficamente l'idea che nella fase iniziale della formazione sono predominanti negli allievi vissuti non controtransferali. Ho fatto in precedenza, parlando del contratto, l'esempio di come io, all'inizio della mia pratica come PTSTA, mi sentissi così obbligato a stabilirne uno magnifico, che perdevo di vista a volte il mio interlocutore, e tribolassi essenzialmente con miei problemi di autostima. Così avviene anche con i nostri allievi allo stadio iniziale: si sentono a volte in difficoltà in un ruolo che è nuovo, che hanno bisogno di conoscere, possono non sentirsi all'altezza del compito, ci vedono come autorità tali da essere l'ideale per scatenare vissuti transferali.
Prenderci cura di questi vissuti fa parte dei nostri compiti di supervisori. Come ci ricorda Erskine, possiamo prendere dallo strumentario dell'Analisi Transazionale il concetto di carezze: creare nel setting supervisivo un'economia di carezze positiva (Steiner, 1971) diventa fondamentale. In questa fase i nostri allievi hanno bisogno, a mio parere, in particolare di carezze condizionate positive, centrate cioè sulla loro capacità di fare, in modo che possano imparare a conoscere i loro punti di forza attorno a cui costruire la propria competenza. Erskine suggerisce anche la possibilità di ignorare temporaneamente ciò che l'allievo non ha fatto bene in modo da ridurre sensazioni di inadeguatezza e sostenere l'autostima; a condizione, aggiungo io, di non creare pericoli per sé o per i propri pazienti. Vissuti transferali nei confronti del supervisore possono essere apertamente affrontati e discussi. In questa fase non vale la pena di concentrarsi particolarmente sui vissuti controtransferali: al massimo, qualora emergano, ci si può limitare a notarne e a legittimarne l'esistenza (sempre che, beninteso, non siano legati a essi evidenti problemi terapeutici).
Nello stadio intermedio, mentre i vissuti non-controtransferali tendono a ridursi e a venire ben gestiti, i vissuti controtransferali prendono sempre più rilievo, ed è il momento di cominciare a dar loro uno spazio consistente in supervisione. In questa fase, a mio avviso, la strategia essenziale è quella di aiutare l'allievo a divenirne consapevole e a legittimarsi qualunque emozione provi nei confronti dei pazienti. È adeguato e va bene provare sentimenti di irritazione, di noia fino ad addormentarsi, o sentirsi eccitati sessualmente da un proprio paziente, per continuare con tutte le cose più (apparentemente) disdicevoli possibile; può essere utile ricordare agli allievi che i giudizi morali si applicano ai comportamenti, non alle emozioni provate. E che legittimarsi tutti i propri vissuti significa impossessarsi di uno strumento diagnostico prezioso. In questa fase la terapia personale sarà particolarmente preziosa per l'allievo, allo scopo di affrontare le questioni che interferiscono con l'efficacia della sua azione con i pazienti.
Nello stadio avanzato, il contatto emotivo con gli allievi avrà come oggetto soprattutto i vissuti controtransferali: usare l'empatia per intuirli, aiutare l'allievo a riconoscerne le sottigliezze è il modo per avvicinarlo a questo poderoso strumento di comprensione dell'altro. In fondo, l'Analisi Transazionale nasce utilizzando qualcosa che oggi faremmo rientrare nei fenomeni controtransferali, in particolare se diamo a questo termine il significato ampio che ricorda Giampaolo Lai: «[...] la concezione ristretta di controtransfert viene sostituita dalla concezione allargata, secondo la quale con il termine di controtransfert si designano tutte le manifestazioni emotive, di pensiero, consce e inconsce, del terapeuta» (Lai, 2004). Infatti, quando Eric Berne discutendo l'idea di "Immagine dell'Io" (che prepara il concetto di Stato dell'Io), descrive il suo paziente avvocato, e dice di sentirsi davanti a lui come davanti a un bambino di tre anni (Berne, 1957), fremente di imbarazzo, ci sta parlando di vissuti a pieno titolo controtransferali, nell'ottica allargata che molti di noi utilizzano oggi. Quando usiamo la diagnosi sociale nel setting terapeutico, diventando consapevoli di quali nostri Stati dell'Io vengono chiamati in causa dai nostri pazienti, o quando ci sentiamo agganciati in un gioco o invitati in una simbiosi, noi stiamo leggendo con gli strumenti dell'Analisi Transazionale i territori del controtransfert.
Vale forse la pena di ricordare che vissuti non-controtransferali continuano comunque ad abitare il setting supervisivo: quando l'allievo è prossimo all'esame finale, non è raro che, in quella speciale situazione di stress, riemergano vecchie conclusioni di sopravvivenza copionali, questioni connesse all'avere successo, al concludere le cose, all'essere sotto esame o al confronto con un'autorità, che possono esprimersi anche nel transfert con il supervisore. Consapevolezza e attenzione a queste dinamiche possono essere decisive per aggirare in breve questi ostacoli.
Anche la capacità di creare un contatto empatico delicato e attento con l'allievo fa parte del compito del supervisore di modellare efficacemente il processo relazionale e promuovere l'apprendimento implicito.

4) La protezione. L'attenzione al principio ippocratico primum non nocere è parte degli elementi della supervisione. Benché meriti sempre attenzione, ne richiede una particolare con gli allievi nello stadio iniziale. Come si è detto a proposito dell'identificazione dei punti-chiave, le svalutazioni messe in atto dagli allievi in questa fase della formazione possono essere di un livello tale da portare a sottovalutare i pericoli per i pazienti.
Ma vorrei mettere in evidenza come anche la protezione dell'allievo sia una questione particolarmente delicata, soprattutto in questa fase. L'entusiasmo a volte un po' euforico legato alla nuova attività professionale, insieme a una conoscenza di sé e dei propri limiti ancora forzatamente parziale, può indurre l'allievo a caricarsi di impegni in modo superiore alla sua capacità di gestirli: o per la presa in carico di troppi pazienti, o di pazienti con problemi troppo severi per le sue attuali capacità di gestione. È compito del supervisore vigilare e, se del caso, confrontare apertamente il suo allievo.
Nello stadio intermedio della formazione questo tipo di rischi tende a ridursi; è però in questa fase che, con il maggiore impegno professionale degli allievi, possono emergere aspetti prima nascosti, e in particolare la possibilità che questioni copionali irrisolte possano passare dal terapeuta ai suoi pazienti, evidenziando il fenomeno descritto da Fanita English con il termine di epicopione (1969). E se, fortunatamente, casi gravi come quelli descritti da Fanita nel suo celebre articolo non sono frequenti, non sono però rare, a mio avviso, forme meno severe di "passaggio" di elementi copionali dal terapeuta al paziente. Ricordo, in proposito, un'allieva, anni fa, che aveva una relazione matrimoniale difficile: in corrispondenza delle sue crisi coniugali più serie, curiosamente anche i suoi pazienti presentavano nelle sedute di terapia temi legati all'insoddisfazione con i partner.
È utile sottolineare che l'attenzione all'epicopione, tipica dello stadio intermedio della formazione, è una modalità di fornire protezione non solo al paziente, ma anche all'allievo, che potrà diventare consapevole di questioni personali ancora irrisolte.
Nella fase avanzata della formazione i rischi a mio avviso si riducono molto, sia per l'accresciuta esperienza degli allievi, sia per l'efficacia su questo punto specifico delle precedenti fasi della formazione. È però necessario che l'attenzione rimanga vigile, in particolare su modi sottili di manifestare l'epicopione, soprattutto nel caso di supervisioni estemporanee, con allievi occasionali che potrebbero non aver avuto una specifica attenzione in tal senso durante il loro training.

5) Aumento delle direzioni di sviluppo. Petruska Clarkson dice testualmente, a questo proposito: «Poiché la supervisione è in sé un metodo per la crescita e l'apprendimento continui in ogni carriera professionale (indipendentemente da quanto esperto sia il professionista), si dà per scontato che ci sia sempre il potenziale per crescita e sviluppo ulteriori. [...] Riteniamo quindi che sia responsabilità del supervisore offrire nuove sfide, direzione e sostegno per ampliare gli orizzonti dell'allievo». (Clarkson, 1992).
Questo concetto è quindi molto ampio; possiamo interpretare le "direzioni di sviluppo" semplicemente come nuove opzioni di intervento a proposito del caso discusso, scoperte durante la supervisione. E possiamo dargli un'interpretazione più ampia: ovverosia, come possiamo stimolare la crescita culturale e anche la passione professionale del nostro allievo in una prospettiva a lungo termine?
Credo che sia utile tenere presente entrambe queste dimensioni.
Molti colleghi verificano apertamente, al termine della supervisione, quali siano le nuove opzioni individuate dall'allievo, connettendole esplicitamente al contratto: «Così hai capito perché ti eri sentito arrabbiato con il tuo paziente, durante l'ultimo incontro. In che modo ti può essere utile, nel tuo lavoro con lui?» Anch'io seguo questa prassi. La verifica sia della realizzazione del contratto che delle direzioni di sviluppo sono modalità per mantenere esplicito e chiaro tutto il processo, evitando il rischio di malintesi.
Contemporaneamente, come si diceva, è anche utile ricordare che il collega in supervisione è impegnato in un processo di crescita a lungo termine: possiamo occuparcene, ad esempio, concludendo la supervisione con indicazioni bibliografiche relative al tema discusso, o ad altri collegati, che possano ampliare le sue conoscenze e le sue competenze. Possiamo anche aiutarlo a coltivare la sua passione professionale invitandolo a diventare consapevole delle sue motivazioni positive nel continuare il proprio processo di crescita, chiedendogli cosa gli sia piaciuto di quello che ha compreso oggi, e "accarezzando" le emozioni piacevoli (gioia, speranza) che ci comunica.
E, naturalmente, quando non si tratti di un intervento estemporaneo ma di una supervisione con un allievo con il quale abbiamo una consuetudine formativa, la direzione di sviluppo verrà individuata con contratti a lungo termine, veri e propri "contratti di formazione", analoghi ai "contratti di trattamento" che utilizziamo in terapia. La discussione di questi contratti, ad esempio all'inizio dell'anno di formazione nei gruppi di training, o con cadenze regolari nel tempo, consentono di mettere a fuoco e concordare la direzione di sviluppo. A questi contratti si farà riferimento per verificarne la realizzazione nel tempo, ad esempio mettendoli in relazione con i risultati delle singole supervisioni.
È un punto che riveste un'eguale importanza in ogni stadio di sviluppo dell'allievo: benché, come abbiamo visto in precedenza, cambino le questioni chiave identificate, o le strategie contrattuali, o gli aspetti emotivi coinvolti, ogni allievo, che sia principiante, intermedio o avanzato, ha bisogno che la sua supervisione si concluda con prospettive di sviluppo per il caso specifico, e ha necessità di avere direzioni di crescita a lungo termine da seguire.

6) Consapevolezza e utilizzo del processo parallelo. Questo punto, nella lista di controllo di Petruska Clarkson, si chiama «Capacità del supervisore di modellare il processo». È un concetto esteso, e io ho ritenuto più agevole operativamente suddividerlo in specifici aspetti. Come ho detto in precedenza, una parte della capacità di modellare il processo la considero nella discussione contrattuale, un'altra in quello che ho chiamato, al punto 3), "contatto emotivo con l'allievo", e un'altra ancora nel punto successivo, relativo alla capacità di mantenere una relazione di tipo "io sono Ok, tu sei Ok".
Qui metto a fuoco specificatamente il processo parallelo, che merita a mio avviso un'attenzione particolare, perché si tratta di uno strumento poderoso in psicoterapia. Quando ero agli inizi della mia pratica come supervisore, oltre a essere assai preoccupato per il contratto, ero parecchio spaventato dal processo parallelo. Lo percepivo come una minacciosa trappola nella quale sarei cascato in modo del tutto inconsapevole, e che avrebbe fatto miseramente naufragare la mia supervisione.
Ho continuato a lungo a temere il processo parallelo, fino a quando mi sono reso conto che esso è uno straordinario strumento per comprendere l'altro. Evita Cassoni (2004), in questa stessa rivista, ne descrive l'evoluzione storica e ne approfondisce i significati. In particolare ne propone una lettura dal punto di vista delle neuroscienze, sottolineando come il processo parallelo possa essere visto come una condizione di allineamento di stati della mente, a seguito di una sintonizzazione affettiva del terapeuta con il suo paziente.
Se sposiamo questa prospettiva, e la portiamo alle sue ultime conseguenze, possiamo dire che un processo parallelo in supervisione, ovvero il fatto che il terapeuta agisca con il supervisore come il suo paziente con lui, è l'espressione di una profonda conoscenza/comprensione del paziente stesso. In altre parole, per agire come il suo paziente, il terapeuta deve averlo intuito profondamente, e nei dettagli più sottili. Si tratta, beninteso, di una comprensione sui generis, emotiva e inconsapevole, ma non per questo meno profonda.
Il processo parallelo è quindi l'espressione di una conoscenza accurata, profonda e inconsapevole. Ne deriva che ci basta portare a consapevolezza il fenomeno per offrire al nostro allievo uno strumento formidabile di comprensione dell'altro. Evita Cassoni, nell'articolo citato, ci offre esempi eloquenti in tal senso, e penso che ogni supervisore potrà trovarne nella propria esperienza professionale.
È mia profonda convinzione che il processo parallelo sia uno dei fenomeni più utili e preziosi in supervisione. Perché la trappola che tanto temevo agli inizi della mia attività come supervisore possa però dispiegare le sue potenzialità, è necessario che il supervisore si addestri con cura a riconoscerne le peculiarità e la sottigliezza con cui a volte si manifesta.
Nella mia pratica supervisiva utilizzo il processo parallelo in modo molto differente, in base all'esperienza degli allievi.
Nello stadio iniziale della formazione mi preoccupo di identificarlo anche se, nella maggior parte dei casi, mi astengo dall'utilizzarlo. Gli allievi in questa fase hanno perlopiù altre priorità, come abbiamo visto: identificare i punti chiave del problema clinico, garantire protezione adeguata a sé e ai pazienti. Mi limito a farlo notare, quando emerge in modo massivo, in modo che il collega in supervisione cominci a familiarizzare con questo concetto, e a considerarlo un potenziale alleato.
Uso in modo più diretto il processo parallelo con gli allievi nello stadio intermedio: porto a consapevolezza le dinamiche, e faccio parallelismi tra come le abbiamo risolte in supervisione e come possono venire analogamente gestite in terapia. Lo utilizzo anche per affinare le doti empatiche degli allievi, aiutandoli a riconoscere l'espressione fenomenologica dei vissuti dei loro pazienti.
Nello stadio avanzato, e in particolare con gli allievi in formazione didattica, mi concentro su aspetti anche molto sottili, che spesso consentono di evidenziare dinamiche co-transferali (tra terapeuta e paziente) o contro-transferali che possono non solo offrire prospettive alla terapia ma anche spunti di riflessione e di auto-analisi per il terapeuta.

7) Relazione paritaria. È l'espressione del valore fondante l'Analisi Transazionale: ognuno è Ok. È stato scritto molto su quest'argomento, e non mi dilungo. Desidero riportare qui le parole della scrittrice Marguerite Yourcenar: «Il rispetto è il senso della libertà degli altri, della dignità degli altri, l'accettazione senza illusioni ma anche senza la minima ostilità o il minimo disprezzo di un essere così com'è», che danno efficacemente il senso di cosa significhi rispettare l'Okness dell'altro.
In supervisione questo significa, naturalmente, un'accurata distinzione tra ciò che l'altro "è" e ciò che "fa". In Analisi Transazionale distinguiamo tra carezze incondizionate, rivolte all'essere, e carezze condizionate, rivolte al fare. In supervisione abbiamo necessità, talora, di dare riconoscimenti condizionati negativi, agli allievi. Se è superfluo ricordare di non confondere l'essere con il fare, può valer la pena invece di sottolineare che risparmiare all'altro carezze condizionate negative quando è opportuno darle può essere proprio un modo di svalutarne l'Okness, e cioè la sua capacità di prendere confrontazioni utili alla sua crescita professionale.
La relazione paritaria è fondamentale anche nel modellamento del processo: l'allievo abituato a essa nelle supervisioni apprende profondamente questo stile. Petruska Clarkson sottolinea che «come sappiamo dalla terza regola della comunicazione di Berne, il risultato di ogni transazione è determinato dal livello ulteriore, o psicologico. Quindi il modo più efficace di supervisionare è mediante il modellamento del processo auspicato». (Clarkson, 1992).

Il modello operativo e gli stadi di sviluppo
Come abbiamo visto nelle pagine precedenti, vi sono modalità diverse di applicare i sette elementi della supervisione ai tre diversi stadi evolutivi dell'allievo psicoterapeuta (e, in base alla mia esperienza, per quanto limitata, di counselling, organizzazioni ed educazione, mi pare che le stesse considerazioni valgano anche per gli altri campi applicativi dell'Analisi Transazionale).
Le differenze sono di tipo qualitativo, nel senso che è differente il modo di affrontare una questione se l'allievo è un principiante o invece un terapeuta esperto: ad esempio, come si è detto, sono diversi i livelli di svalutazione che entrano in gioco, o è differente la modalità di affrontare le tematiche contro-transferali.
Come si è visto, c'è anche una differenza quantitativa. Mentre per alcuni elementi l'attenzione è costante (ad esempio, la relazione paritaria), oppure è differente qualitativamente ma non quantitativamente (i punti-chiave), per altri vi è una diversa presenza sul piano operativo nelle tre successive fasi della formazione.
La figura 3 riassume l'enfasi che, nei tre stadi di sviluppo del terapeuta in formazione, viene posta sui singoli fattori della supervisione.


Stadio iniziale Stadio intermedio Stadio avanzato
Contratto
*
**
***
Punti-chiave
***
***
***
Contatto
***
***
***
Protezione
***
**
*
Direzioni di
sviluppo
***
***
***
Processo
parallelo
*
**
***
Relazione
paritaria
***
***
***

Figura 3


Non voglio che la lettura di questa tabella sia però occasione di malintesi: tutti e sette i punti citati devono essere ben presenti in ogni supervisione. In altre parole, il fatto che con gli allievi allo stadio avanzato vi sia un solo asterisco relativo alla protezione non significa che il supervisore sia quasi esonerato da essere attento ai temi relativi. La consapevolezza di ognuno di questi punti deve essere sempre ben viva.
La tabella esprime semplicemente il fatto che, nella mia esperienza, mi capita con una certa frequenza di dire a un allievo allo stadio iniziale: «Attento, per questo paziente c'è questo tipo di rischio, attiva le protezioni necessarie», oppure: «Con questa paziente ti potresti mettere in pericolo, e il pericolo che vedo è questo», mentre con allievi in fase avanzata questo avviene molto più di rado. Al contrario, con questi ultimi, l'esplorazione del processo parallelo è fatta in genere con frequenza e cura assai maggiore, ma non per questo con gli allievi nella fase iniziale esso non viene considerato: al contrario è sempre necessaria un'attenta consapevolezza del fenomeno, benché spesso sia preferibile scegliere strategie di intervento centrate su altri aspetti.

Conclusione
La supervisione analitico-transazionale ha le sue peculiarità. Benché, com'è tradizione nel nostro sistema di riferimento, ci sia una notevole apertura verso i contributi che giungono da altre teorie (è il caso del processo parallelo), gli analisti transazionali sanno dare letture originali dei fenomeni.
Dei sette punti presi in considerazione da questo modello, alcuni sono squisitamente analitico-transazionali: la contrattualità, l'Okness. Altri possono apparire aspecifici, ma gli strumenti e i riferimenti dell'Analisi Transazionale ne danno una colorazione specifica: la profonda attenzione all'etica dà significati particolari ai punti-chiave o alle necessità di protezione; il sistema di riferimento delle svalutazioni orienta in modo specifico la ricerca dei punti-chiave, e così via.
È legittimo pensare, quindi, a una teoria analitico-transazionale della supervisione. Una teoria sempre strettamente collegata con la prassi, perché così l'AT è nata con Eric Berne, e così piace che sia ai suoi successori.
L'Analisi Transazionale per Eric Berne serviva a curare le persone, non aveva nessun'altra giustificazione, era una teoria per la prassi, perché egli si è sempre sentito profondamente "medico", uno che cura le persone per farle guarire, non per interpretare, conoscere, esplorare o fare eleganti teorie. In quella sorta di testamento spirituale che è stato il suo ultimo lavoro, una relazione che tenne il 20 giugno del 1970 (una settimana prima dell'infarto: morirà il 15 luglio successivo) al congresso della Golden Gate Group Psychotherapy Society, egli sottolineò con forza e con fermezza la missione curativa degli psicoterapeuti, e disse che «c'è un solo articolo degno di essere scritto, e si intitola "Come curare i pazienti"» (Berne, 1971).
Claude Steiner, nelle pagine dedicate a Eric Berne del suo Copioni di vita, ci racconta che l'orientamento era lo stesso anche durante i seminari supervisivi: «Durante le riunioni, ma anche al di fuori, Eric Berne non permetteva nessuna mistificazione, né pomposità gerarchica o professionale ("tutte frottole", diceva). Se gli capitava di assistere a un tale comportamento mistificatorio, dapprima ascoltava pazientemente, poi, mordendo la pipa e inarcando le sopracciglia, diceva: "Tutto questo va benissimo, ma quello che ho capito è che il paziente non viene curato"». (Steiner, 1974).
A me questo orientamento è sempre piaciuto: è una delle ragioni per cui ho scelto di diventare analista transazionale e, a distanza di anni, sono felice della mia decisione. Mi piacciono le teorie concrete, orientate alla prassi. Mi piacciono le teorie che hanno lo scopo di curare le persone. Penso che l'Analisi Transazionale possa essere anche una specifica teoria della supervisione, fondata per curare i pazienti, e per prendersi cura di chi li cura.


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