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C.P.A.T. --> HOME PAGE --> N. 41/2004

QUADERNI DI PSICOLOGIA,
ANALISI TRANSAZIONALE
E SCIENZE UMANE

Dal n° 41 - 2004


Modi della relazione. Stati dell'Io, copione, corpo

Susanna Ligabue




Riassunto
L’autrice introduce in questo articolo alcune considerazioni sul tema sviluppo umano e relazionalità, alla luce delle recenti acquisizioni teoriche. Si mettono a confronto i comportamenti relazionali, i modelli operativi interiorizzati e gli stati dell’Io (Berne e Bowlby). Ci si sofferma infine sul rapporto tra corpo e copione, particolarmente nelle prime fasi dello sviluppo evolutivo. Il filo rosso è la significatività della relazione come elemento organizzatore e regolatore di mente, corpo, affetti.

Abstract
RELATION’S WAYS. EGO STATES, SCRIPT, BODY
The author proposes some theoretical considerations about human development and relationship, following recent theoretical debate. Relational behaviors, internal working models and Ego states (Berne and Bowlby) are analyzed and compared. The relationships between body and script are discussed, with particular reference to the early phases of development. “Fil rouge” is the meaningfulness of relation in organizing and regulating mind, body, affectiveness.

Comprendere lo sviluppo umano: motivazioni allo sviluppo
Diversi sono oggi i punti di vista che contribuiscono alla comprensione dello sviluppo umano. Ai modelli elaborati nel secolo scorso dalla psicologia evolutiva e a quelli mutuati dalla psicologia clinica si sono aggiunte le acquisizioni più recenti della biologia, dell’etologia, dell’evoluzionismo e delle neuroscienze. Punti di vista che, particolarmente dagli anni ’80 in poi, si muovono in una direzione di confronto e ricerca di convergenze entro una stessa disciplina e tra discipline diverse.
In particolare l’attenzione alla normalità dello sviluppo anziché alla patologia e l’utilizzo di più raffinate tecniche di ricerca – con il miglioramento delle tecnologie di registrazione audiovisiva e l’informatizzazione dei dati – hanno reso possibile l’analisi puntuale dei processi relazionali tra il bambino e i suoi care-takers.
L’infant-observation e l’infant-research hanno consentito infatti sia l’elaborazione di nuove ipotesi, sia la validazione e la messa in discussione di teorie elaborate in precedenza, per lo più su base ipotetico-deduttiva.
Sappiamo oggi che fin dalle origini, dal suo apparire nel mondo, il bambino è “attrezzato” per mettersi in relazione con il suo ambiente e per imparare a “padroneggiarlo” attraverso specifici compiti evolutivi, come ci dice Katarina Gildebrand (2003), particolarmente attenta agli apporti delle neuroscienze.
Non mi riferisco a compiti evolutivi né a fasi sequenziali rigidamente predefinite, bensì a un rapporto tra il bambino e il suo ambiente di tipo attivo e interattivo, reciprocamente “modellante”, che si sviluppa a partire da spinte motivazionali che regolano lo sviluppo a livello filogenetico e permettono l’organizzazione del sé, della persona nella sua specificità individuale.
Si parla oggi di determinanti motivazionali dello sviluppo che “guidano” il rapporto dell’uomo con il suo ambiente, traducendosi e sostanziandosi in concrete esperienze di relazione con i suoi simili.
In questa direzione Giovanni Liotti ci ricorda che:

«[...] la vita evolve ed evolvendo lungo molteplici, intricate linee di sviluppo produce nuove specie di viventi. All’interno di una di queste linee di sviluppo – quella che ha condotto, nell’arco di milioni di anni, alcuni rettili antichi a differenziarsi negli uccelli e nei mammiferi e alcuni mammiferi a differenziarsi fino a produrre la specie dei primati – compare la capacità di riconoscimento durevole e reciproco, in quanto individui distinti da tutti gli altri del gruppo, fra membri della stessa specie (conspecifici)» (Liotti, 1994, p. 27).

«L’uomo ha una vita di relazione fondata su alcune forme basilari, cui è predisposto per via innata; queste forme di relazione appaiono come condotte soggette a regole, ogni sistema di regolazione di una data forma di relazione corrisponde a un valore evoluzionistico di sopravvivenza e di successo riproduttivo per tutti i contraenti della relazione. Ogni forma di relazione dunque può essere considerato come un insieme o sistema di regole di condotta sociale che è comodo chiamare per brevità, “sistema comportamentale” o “sistema motivazionale interpersonale”» (ibidem, p. 38-39).

Liotti indica cinque sistemi motivazionali interpersonali (SMI) di base cui corrispondono precisi comportamenti relazionali:
– il sistema dell’attaccamento;
– il sistema dell’accudimento, complementare al precedente;
– il sistema agonistico;
– il sistema sessuale;
– il sistema cooperativo paritetico.
«Il pentagramma dei SMI (si noti) consente di produrre infinite ‘musiche relazionali’, attraverso la più varia successione e combinazione delle sue ‘note’ proprio come le note musicali consentono una infinita gamma di composizioni.» (ibidem, p. 40)
Anche Joseph Lichtenberg (1989) parla di “sistemi motivazionali di base”, con diversa accezione, concepiti cioè per promuovere l’appagamento e la regolazione delle funzioni e dei bisogni di base. Ne sottolinea principalmente la funzione di sviluppo, organizzazione e integrazione del sé. Per Lichtenberg il sé si sviluppa come centro indipendente che avvia, organizza e integra la motivazione.
«Nel corso dell’infanzia ogni sistema contribuisce alla regolazione del sé in interazioni mutuamente regolate con le persone che si prendono cura del bambino. [...] Momento per momento l’attività di ognuno dei sistemi può intensificarsi tanto da costituire l’aspetto prevalente del sé» (ibidem, p. 8).
«Ciascun sistema comprende aspetti motivazionali e funzionali distinti. Ciascun sistema è un’entità psicologica, con probabili correlati neuropsicologici, costruita intorno a un bisogno fondamentale. Ciascun sistema si basa su comportamenti chiaramente osservabili che hanno inizio nel periodo neonatale.» (ibidem, p. 7)
Lichtenberg e i suoi collaboratori riconoscono cinque sistemi motivazionali: – il bisogno di regolazione psichica delle esigenze fisiologiche; – il bisogno di attaccamento e successivamente di affiliazione (in età adulta); – il bisogno di esplorare e di essere assertivi; – il bisogno di reagire avversivamente attraverso l’antagonismo o il ritiro (o ambedue); – il bisogno di piacere e di eccitazione sessuale.

Ho inteso sottolineare, attraverso voci autorevoli, come le direttrici dello sviluppo umano possano essere connesse a spinte motivazionali che rispondono e attualizzano i bisogni dell’individuo, divenendone processo costitutivo. La relazionalità è intrinseca a questo processo costitutivo evolutivo. Non esiste un bambino teorico separato dalle relazioni e dal suo contesto. C’è sempre un bambino “soggetto in relazione con”. La relazionalità e la socialità sono primarie e costitutive della persona stessa, del suo sé; con Eric Berne diremmo del suo Io, meglio ancora dei suoi stati dell’Io, strettamente connessi alle esperienze relazionali, alla fenomenologia del soggetto.

Intendo tracciare alcune analogie tra Analisi Transazionale e modelli teorici diversi non tanto per segnalare concetti sovrapponibili o identici, bensì per sottolineare direzioni simili e alcune interessanti convergenze, nell’ambito dell’esplorazione dell’esperienza umana e della clinica.
Berne negli anni ’60 riconosceva nella “fame di stimoli” e nella “fame di struttura” due spinte fondamentali dello sviluppo (Berne, 1961). Il bisogno di “carezze”, ovvero di riconoscimento e di legame sociale, sono infatti il perno intorno a cui egli struttura la sua visione dello sviluppo umano e conseguentemente la sua visione del trattamento terapeutico e l’ambito di quella che chiama “psichiatria sociale”. I modi e le implicazioni delle relazioni interpersonali sono al centro della sua attenzione, come testimonia il titolo del suo ultimo libro What do you say after you say hello? (1972), trad. it. Ciao… e poi?, (1979).
In questo testo, con un linguaggio volutamente semplice, a volte persino colloquiale, quasi un work in progress (non dimentichiamo che è uscito postumo), Berne presenta la sua storia dello sviluppo umano. Ci presenta lo sviluppo della persona attraverso le configurazioni relazionali stabilite con i care-takers primari e ne descrive le tracce nella costruzione dell’Io. Ne derivano i concetti di stati dell’Io e di copione inteso, quest’ultimo, come fenomeno transferenziale, piano di vita e traccia di destino, frutto di decisioni di sopravvivenza e strategie relazionali della persona, struttura e vincolo dell’esistenza umana.

Comportamenti relazionali, modelli operativi interiorizzati e stati dell’Io (Bowlby e Berne)
Il rapporto tra le relazioni esterne e le rappresentazioni interne, tra l’intrapsichico e il relazionale, è da sempre oggetto di ipotesi e di studio nell’ambito della psicologia e della clinica. Traccio qui alcuni paralleli tra la ricerca e la posizione di Eric Berne e quella di John Bowlby, guidati, in epoche diverse, da analoga tensione nel costruire ponti tra l’intrapsichico e il relazionale, come ho già avuto modo di sottolineare nell’editoriale di Attaccamento e copione (Ligabue, 2001 e Rotondo, 2001).
Per John Bowlby, teorico e ricercatore dell’attaccamento, i bisogni e le motivazioni primarie si esplicano nella relazione tra il bambino e i suoi care-takers attraverso specifici comportamenti relazionali, sui quali, a partire dalla sua opera pionieristica si sono sviluppati fecondi filoni di ricerca e nuove teorizzazioni riferite:
– ai tipi e ai modi dell’attaccamento (particolarmente tramite il lavoro di Mary Main e di Mary Ainsworth, e la messa a punto dello strumento d’indagine della Strange situation);
– alla costruzione delle rappresentazioni interne, seguendo l’idea di Bowlby della trasposizione dei comportamenti di attaccamento in modelli operativi interni (internal working models).

Bowlby fra gli anni ’70 e ’80 ha delineato, a partire dai comportamenti relazionali, una propria teoria dell’interiorizzazione di cui riportiamo alcuni passi chiaramente esplicativi (Bowlby, 1988, cap. 7)
«Il modello operante che un bambino si costruisce riguardo a sua madre e al suo modo di comunicare e di comportarsi nei confronti del figlio, o riguardo a un modello analogo del padre, insieme ai modelli complementari di sé nell’interazione con ciascun genitore, vengono costruiti da un bambino durante i primissimi anni di vita e, si postula, presto si stabiliscono come potenti strutture cognitive» (Main, Kaplan, Cassidy, 1985, cit. in Bowlby, 1988, p. 125).
«La forma che prendono, la documentazione lo suggerisce con forza, si basa sull’esperienza di vita reale di un bambino nelle interazioni quotidiane con i genitori. Poi il modello che il bambino si costruisce riflette anche l’immagine che i suoi genitori hanno di lui, immagini che vengono comunicate, non solo da come ciascuno lo tratta, ma da ciò che ciascuno gli dice. Questi modelli dunque governano i suoi sentimenti verso se stesso e verso i propri genitori, come si aspetta che ciascuno di loro lo tratti e come progetta il proprio comportamento nei loro confronti. [...] Una volta costruiti, i dati lo suggeriscono, questi modelli del genitore e del sé in interazione tendono a persistere e vengono dati così per scontati che arrivano a operare a livello inconscio. Man mano che un bambino con un attaccamento sicuro cresce e i suoi genitori lo trattano in modo diverso si verifica un graduale aggiornamento del modello.
Questo significa che sebbene esista sempre un certo divario di tempo, i suoi modelli operanti attuali continuano a essere delle simulazioni sufficientemente buone di se stesso e dei propri genitori in interazione. Invece, nel caso di un bambino con un attaccamento angoscioso, questo graduale aggiornamento del modello è in certo grado impedito dall’esclusione difensiva di esperienze e informazioni discrepanti. Ciò significa che gli schemi di interazione cui questo modello conduce essendo divenuti abituali, generalizzati e largamente inconsci persistono in uno stato più o meno scorretto e immutato anche quando l’individuo più avanti nella vita ha a che fare con persone che lo trattano in modo assolutamente diverso da come lo trattarono i suoi genitori quando era bambino.» (ibidem)

Bowlby parla dunque di esperienze relazionali interiorizzate. Similmente, si può dire, Berne parla di stati dell’Io (Genitore, Adulto e Bambino) come esperienze relazionali interiorizzate.
In Analisi Transazionale e psicoterapia, Berne ci ricorda che:
«Uno degli aspetti più difficili dell’analisi strutturale è quello di mostrare al paziente (e allo studioso) che Bambino, Adulto e Genitore non sono utili idee o interessanti neologismi, ma che si riferiscono a fenomeni basati su una realtà effettiva» (Berne, 1961, p. 23).
In questo senso possiamo pensare agli stati dell’Io come a porzioni di esperienza interiorizzata. La “realtà effettiva” viene interiorizzata e resa patrimonio del bambino a partire dalle relazioni interpersonali.
Berne, nel suo ultimo libro (1972), disegna la mappa delle relazioni familiari del suo paziente Jeder all’epoca dell’inserimento delle attribuzioni e dei messaggi dei genitori nello stato dell’Io Bambino di Jeder, anzi nella parte G1 del Bambino (B2).
Berne parla di “inserimento” e di elettrodo, idea che ricorda da vicino la posizione dei MOI (modelli operanti interiorizzati) di Bowlby.
Sembra dunque che sia Berne sia Bowlby descrivano principalmente l’interiorizzazione come il “metter dentro” pezzi dell’esperienza diretta col care-taker, da parte del bambino.
L’origine e l’assunzione delle ingiunzioni del copione diagrammate da Berne (1972) mostrano questo processo.

L’idea del “mettere dentro” pezzi dell’esperienza, per quanto interessante e verosimile, appare tuttavia un po’ grezza, desunta forse dalla clinica, più che dalla ricerca.
A proposito di Bowlby e delle modalità da lui descritte circa il processo di interiorizzazione riportiamo alcuni rilievi critici, in questa stessa direzione, da parte di Andrea Seganti (1995), il quale riferisce l’imprecisione di questa posizione di Bowlby alla scarsa disponibilità iniziale dei dati della ricerca. L’infant research ci propone infatti oggi l’immagine di un bambino interattivo capace di elaborare risposte con funzioni di autoregolazione della propria esperienza, come emerge dai passi che seguono.
«La scoperta della funzione biologica dell’attaccamento veniva tradotta da Bowlby in spiegazione di comportamenti, prima ancora che venisse presa in considerazione la mediazione tra individuo e ambiente svolta dalle funzioni rappresentazionali di tipo cognitivo-affettivo. Secondo il suo ragionamento forti emozioni andavano comunque collegate con la prossimità di colui che accudisce il bambino in quanto dispensatore di sollievo agli stati di bisogno. [...] La concezione di Bowlby dell’esperienza soggettiva del bambino nella relazione di attaccamento dava scarso rilievo alla simmetricità dell’esperienza del bambino con quella dell’adulto, che invece come si vedrà dai recenti dati sperimentali, sembra già caratterizzare le prime fasi» (Seganti, 1995, p. 51).
Dai dati sperimentali (Stern, 1985; Tronick, 1989) emerge un bambino che si autoregola continuamente ed è reattivo a dispetto dei numerosi fallimenti di sintonizzazione e che sembra in grado di dare per scontata la relativa disponibilità materna e predisposto a fronteggiarla, entro certi limiti, senza conseguenze negative. «Inoltre, quando non riesce ad anticipare quei comportamenti degli oggetti che sono per lui imprevedibili, dopo alcuni tentativi di segnalazione di disagio, egli semplicemente si ritira dalla relazione.
Il bambino è cioè attivo, è predisposto a esserlo, e non ha bisogno della spinta di retrostanti emozioni negative per esserlo. È anche predisposto a starsene con soddisfazione per proprio conto nel momento in cui cessano le condizioni della sua attività, perché è predisposto a navigare in una sequenza di stimoli, mantenendo la coerenza del suo stato di attivazione interna a seconda delle necessità. Per cui impara a far funzionare i suoi programmi geneticamente predisposti, e tale attività basta a se stessa ed è autoremunerativa prima della sua associazione con eventuali emozioni positive» (Seganti, 1995, p. 52).
Questo ci aiuta a capire le differenti risposte individuali agli stress e il fenomeno della resilienza.
Dunque «l’esperienza dell’attaccamento si caratterizza per una continua oscillazione tra esperienza relazionale ed evitamento difensivo della carenza della relazione. Si presuppone in questo modo la centralità di un sistema cognitivo-affettivo dell’attaccamento, capace di monitorare l’ambiente in modo continuativo, sistema che fornisce una conoscenza innata, non tanto del “pericolo” nel senso in cui lo intendiamo comunemente, ma di alcune procedure di organizzazione e disorganizzazione dei propri stati interni in connessione con eventi relazionali» (ibidem, p. 53).
Mi pare che questo contributo sottolinei in modo chiaro la capacità di mediazione cognitiva del bambino: soggetto che legge, valuta gli stimoli che riceve ed elabora risposte, organizzando le esperienze esterne e i loro significati, in funzione del bisogno di mantenere un proprio equilibrio e una coerenza interna.
Il MOI dunque non si forma a partire da categorie emotive di pericolo-sicurezza, bensì da esperienze di mantenimento della coerenza (o dalla prevenzione dell’incoerenza). Potremmo descrivere così i diversi passaggi: valutazione dello stimolo, diffusione percettiva trasmodale (es. passando dall’attivazione del canale visivo a un altro: olfattivo o cenestesico, o viceversa), formazione delle proto-astrazioni. Queste ultime stanno a indicare il formarsi di una valutazione globale, anticipatoria, ancora approssimativa degli eventi che vengono generalizzati.
Daniel Stern (1985) parlando similmente di “proto-astrazioni” le chiama RIGs (regular interactions generalized).

Questo modo di vedere il bambino e la sua organizzazione dell’esperienza interna mi riporta al dibattito in Analisi Transazionale sulla nascita e sulla funzione degli stati dell’Io e particolarmente dello stato dell’Io adulto. Mi riferisco all’A2, ma soprattutto all’A1, al “piccolo professore”, quella parte cognitivo-emotiva che tanta parte ha nelle decisioni copionali e nella “scelta” delle strategie di sopravvivenza, nucleo del copione. Strategie, decisioni, o conclusioni di sopravvivenza, come le chiama Fanita English (1977), che potremmo considerare, tenendo conto di quanto detto in precedenza, in funzione del mantenimento di un equilibrio nella regolazione tra ambiente e stati interni (ovvero la miglior decisione possibile nel momento dato e con le risorse disponibili).
In questo senso il modello che Holtby (1976) propone circa il formarsi dell’ingiunzione interiorizzata tiene conto della funzione di mediazione cognitiva dell’A1, molto di più del modello di Berne proposto in precedenza. Tale modello sembra descrivere e sottolineare la funzione della “scelta” legata all’individuazione di una propria strategia di sopravvivenza, come adattamento e mediazione attiva con i vincoli del contesto ambientale.

Circa i modi dell’interiorizzazione e la costituzione degli stati dell’Io, strettamente legati al processo di interiorizzazione, vi è da sempre in Analisi Transazionale un largo dibattito, testimoniato dall’abbondanza di articoli comparsi su questo tema sul «T.A.J.» («Transactional Analysis Journal»), dibattito che dagli anni ’90 ha visto una rivisitazione del modello berniano, alla luce delle più recenti ricerche nel campo dell’infant-research e delle neuroscienze (cfr. Sills e Hargaden, 2003), che si allineano con alcune idee e intuizioni originarie di Berne.
Vorrei riprendere a questo proposito la definizione data da Berne di stati dell’Io, basandosi sugli studi sulla memoria di Penfield degli anni ’50, e sull’approccio psicoanalitico di Federn e di Edoardo Weiss, coerenti con le osservazioni e le esperienze che egli stesso fece nel lavoro con i suoi pazienti.
Uno stato dell’Io si può descrivere fenomenologicamente come un sistema compatto di sentimenti riferito a un determinato soggetto, e operativamente come un insieme di compatti modelli di comportamento; o pragmaticamente come un sistema di sentimenti che motivano il corrispondente insieme di modelli di comportamento.
[...] È un fenomeno noto agli psicologi, cioè agli studiosi della mente, qualunque sia il loro titolo di studio, che completi stati dell’Io possono essere conservati in maniera permanente. Federn è colui che ha per primo sottolineato su basi psichiatriche ciò che Penfield doveva dimostrare più tardi nei suoi straordinari esperimenti neurochirurgici: che la realtà psicologica si basa su stati dell’Io completi e distinti» (Berne, 1961).

Da Penfield a oggi sono stati fatti passi da gigante nello studio della mente e del suo funzionamento, dall’idea dell’homuncolus e di localizzazione centrale si è passati a quella di reti neurali interconnesse e alcune intuizioni e ipotesi teoriche di allora possono essere ampliate e illuminate da diverse prospettive.
Qualche anno fa Jenny Hine (1997) ha descritto il processo di organizzazione in stati dell’Io riprendendo il concetto di rappresentazioni generalizzate dell’esperienza (RGs), similmente ad altri autori contemporanei, che li correlavano anche ai diversi tipi di memoria e alle diverse aree del cervello (Allen, 2000, 2003).
Per la Hine «le rappresentazioni generalizzate (RGs) sono pezzi di memoria che si attivano per esempio alla vista di un volto, riconoscendo una immagine, o nella elaborazione di uno stimolo; le caratterizza il fatto che le parti che le compongono, come naso, bocca, occhi, interagiscono tra loro fino a produrre un esito stabile e predicabile. Il concetto di rappresentazioni generalizzate, che nella letteratura psicoanalitica viene anche chiamato schema o schemata, ci permette di comprendere natura e sviluppo degli stati dell’Io.
Si propone che gli stati dell’Io si formano progressivamente a partire da GRs che si sviluppano man mano che l’individuo interagisce con l’ambiente e con le sue percezioni di sé e degli altri, nel periodo dell’infanzia e della fanciullezza. [...] Gli stati dell’Io, una volta formati, continuano a esistere giocando un ruolo importante nella regolazione e modulazione delle risposte individuali alle sfide e alle condizioni esterne. In altre parole gli stati dell’Io, come sistemi, sono da considerare meccanismi adattivi che aiutano la sopravvivenza individuale» (Hine, 1997).
Potremmo pensare che la configurazione degli stati dell’Io, come sistemi adattivi di mediazione individuo-ambiente, sia “canalizzata” (cfr. Waddington, cit. in Schaffer, 1996) dai determinanti motivazionali dello sviluppo, traducendosi in specifici comportamenti relazionali . Una sorta di protostruttura intorno cui si configurano gli stati dell’Io man mano che si traducono in esperienze di relazione e ricevono un feedback “modellante” dall’ambiente.
«Non dovremmo aspettarci di localizzare reti Genitore, Adulto e Bambino in alcuna area definita», ci avverte Allen (2003): «Il cervello è un organo del corpo che media le interazioni sociali, ma funziona anche come depositario degli adattamenti, sia filogenetico, sia individuali. Di tutti gli organi del corpo è quello maggiormente influenzato dai fattori sociali. A sua volta struttura e determina le esperienze sociali e personali di un individuo». (ibidem)

Studi ormai consolidati di Daniel Stern (1995, 1998) sottolineano come le interiorizzazioni riguardino sequenze di esperienze relazionali di “essere-con” l’altro, che si traducono in “schemi-dell’essere-con”, desunti da esperienze relazionali complesse, vissute come spettatore-attore.
Su questa base sono nate le osservazioni e le ricerche del gruppo di Losanna sul gioco triadico della famiglia, dove si evidenziano le strategie relazionali del bambino, la sua capacità di orientarsi e “posizionarsi” precocemente in un contesto di esperienze intersoggettive molto articolato. La ricerca si focalizza sui comportamenti del bambino in presenza di madre e padre (cfr. Il triangolo primario di Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warnery, 1999). Interessante come alcune sequenze relazionali, lì descritte possano essere rilette, dal mio punto di vista, con la matrice di copione, quasi fossero scene prototipiche.

Come già detto in precedenza, ipotizziamo che sia la “valutazione” che il soggetto fa di queste esperienze, attraverso processi transmodali, e una loro rielaborazione cognitiva in funzione di un’autoregolazione del sé, che portano alla strutturazione di risposte adattive e di specifiche strategie di sopravvivenza (configurabili nel copione), le quali a loro volta modellano i comportamenti relazionali della persona nelle transazioni con il suo ambiente.
Se l’apprendimento dei modelli relazionali avviene tramite la sintonizzazione con le modalità dell’altro (particolarmente con il care-taker nel primo periodo di vita), possiamo parlare di una vera e propria impregnazione sensoriale: visiva, uditiva, cenestesica. Come “esito” (nel senso processuale del termine) di esperienze vissute e rivissute con particolari coloriture emozionali (quotidiane e/o occasionali traumatiche), il soggetto “sceglie” una propria personale configurazione di comportamenti, un proprio modo di viversi, vedersi e proporsi nelle relazioni (cfr. la fase precoce di protocollo del copione e il suo strutturarsi nei palinsesti successivi, Romanini, 1985).
Tale “configurazione” è riconoscibile e distintiva del soggetto, del suo modo di essere nel mondo. L’Analisi Transazionale si avvale degli stati dell’Io sia per definire la configurazione delle relazioni interne (livello strutturale degli stati dell’Io), sia per leggere e denominare gli stili relazionali del soggetto. Mi riferisco in questo caso agli stati dell’Io come comportamenti comunicativi, nelle loro articolazioni di Genitore affettivo/critico; Bambino naturale/adattato e Adulto.
Con le diverse “musiche” relazionali, esperite come possibili nel rapporo con i care-takers e il contesto, il soggetto compone il proprio leitmotiv e “organizza” gli elementi di una propria sinfonia esistenziale.
È dunque chiaro come stati dell’Io, transazioni e copione siano elementi legati tra loro dal filo rosso della relazione: tre interfacce inscindibili, attraverso cui possiamo leggere la specificità del costruirsi e dell’esplicarsi dell’esperienza umana.
È un codice interpretativo possibile: quello della comunità interpretativa dell’Analisi Transazionale, come direbbe Allen (2003).

Corpo e copione e relazionalità
Prendo ora in considerazione alcuni degli elementi fin qui esposti da un altro angolo visuale, sottolineando il ruolo del corpo e della corporeità nelle concrete esperienze di relazione e quindi nello strutturarsi dello script-copione di vita.
Intendo ancora sottolineare che il corpo è il tramite relazionale nelle relazioni primarie e in quelle successive, inclusa la relazione terapeutica. Nel rapporto con il mondo il corpo è tramite e “deposito” relazionale; è la storia incarnata del soggetto e ne porta le tracce.
In Analisi Transazionale Cassius (1977) ha coniato il termine bodyscript che ben sottolinea questo legame e Lenhardt (1984) quello di bioscript, coniugando Analisi Transazionale e bioenergetica, prospettiva da me approfondita in contributi precedenti e a cui rimando (Ligabue, 1985, 1991).
Cornell, nel suo recente contributo Babies brains and bodies, sottolinea provocatoriamente «Ciò che accomuna bambini e cervello è che sono saldamente e permanentemente riferiti a un corpo, sebbene nel panorama della clinica le azioni e l’organizzazione del corpo ricevano scarsa attenzione. [...] Per il bambino infatti il corpo dà significato e veicola tutto il mondo esterno. La disattenzione nella teoria clinica per i processi senso-motori riflette una lunga storia di pregiudizio e cecità verso il corpo, da parte della psicologia e della psicoanalisi e di molte tradizioni filosofiche e religiose che, pur associando mente e cervello, contrappongono mente e corpo» (Cornell, 2003).
Liotti, attento al contributo delle neuroscienze, ci ricorda che «Il cervello e la memoria passano nel corpo, sono nel corpo. Il sé e la coscienza sono inscindibili dal corpo e dalla nostra percezione, cognizione, emozione con/nel corpo. Il corpo è nella relazione e la relazione è emotivamente connotata» (Liotti, 1994, p.54).

La relazione è il ponte che ci consente di saldare il corpo materia-funzionalità e il corpo soggetto emozionale.
Infatti il termine “corpo” contiene in sé più significati, riferiti prevalentemente al corpo-materia, come testimonia una rapida scorsa al vocabolario d’italiano. Ci è d’aiuto la lingua tedesca, che distingue tra un corpo Korper (un corpo oggetto), quello dei manuali di medicina, e un corpo Leib (un corpo vissuto, o vivente) investito di affetti e collocato nella storia del soggetto, come ci ricorda Eugenio Borgna nel bellissimo saggio “Le metamorfosi del corpo”, riconnettendoci alla filosofia di Husserl e alla psicopatologia del corpo (Borgna, 1983).
Su questa linea di divaricazione possiamo infatti rileggere gran parte della psicopatologia e dare quindi una direzione all’intervento clinico.
Prendo a prestito le parole di Binswanger, che in una sua conferenza del 1934 diceva ai suoi interlocutori: «Loro devono non solo sapere che l’uomo possiede un corpo, e come questo corpo è fatto, ma anche che egli è sempre, in qualche maniera, corpo. Questo non significa solo che l’uomo sempre vive corporalmente, ma anche che egli permanentemente con il corpo parla o si esprime» (cit. in Borgna, 1983).
Tale elemento è di particolare rilevanza nell’incontro terapeutico e particolarmente nel primo incontro tra terapeuta e cliente, come sottolinea Berne nel capitolo 17 di What do you say after you say hello? (1972), a proposito dei “segni” del copione.
Movimento e sensomotricità organizzatori di affetti e cognizioni:

Processi mentali, processi motori, tonicità e affetti sono strettamente legati, nascono, crescono e si esplicano nelle relazioni.
Ajuriaguerra, riferimento autorevole per la terapia infantile e per l’attenzione al corpo, ci ricorda che da tempo «in Francia Wallon e Piaget hanno riconosciuto che il tono e la motricità contengono nel loro sviluppo i primi lineamenti delle reazioni emozionali e affettive, contribuendo all’organizzazione progressiva della conoscenza. È comunemente ammesso che l’attività motoria abbia due orientamenti: l’attività cinetica, rivolta verso il mondo esterno, riguarda i movimenti propriamente detti; l’attività tonica, corrispondente alla tensione muscolare, contiene la “trama” degli atteggiamenti delle posture e della mimica. Senza misconoscere il fattore cinetico della motilità, H. Wallon attribuisce un ruolo importante alla sua componente tonica, per quanto concerne l’organizzazione della personalità e dice: “alle modificazioni del tono e degli atteggiamenti sono legate modificazioni della sensibilità affettiva. Tra loro esiste una reciprocità di azione immediata”. Secondo Piaget, il motore e l’energia, in ogni azione, sono di natura affettiva (bisogni, soddisfazioni), mentre la struttura è di natura cognitiva (gli schemi in quanto organizzazione sensomotoria). Assimilare un oggetto a uno schema, secondo Piaget, significa dunque cercare contemporaneamente di soddisfare un bisogno e dare una struttura cognitiva all’azione» (Ajuriaguerra, 1984).
Voglio ricordare che da queste concezioni prendeva avvio, in Francia negli anni ’70, l’importante filone della pratica psicomotoria in ambito pedagogico e della terapia psicomotoria in ambito clinico, con le successive evoluzioni (Cartacci, 2002).

I movimenti del corpo dunque organizzano e riorganizzano il cervello: «oggi sappiamo da un certo numero di ricerche sul corpo, raggruppabili nella “teoria della dinamica motoria”, che molti fenomeni psicologici che si pensano originati dai processi mentali cerebrali possono in effetti evolversi fondamentalmente tramite le attività dei muscoli e di altre parti del corpo». (Cornell, 2003). Nella relazione dunque, si organizzano e riorganizzano le funzioni mentali, motorie, affettive.

Se ripercorriamo la storia di ciascun individuo vediamo che la relazione madre bambino si connota, sin da subito, come un “corpo a corpo” nella danza attaccamento-accudimento. Il corpo e la sensomotricità sono infatti in primo piano nell’esperienza endouterina, in quella della nascita e nei primi contatti con il corpo del care-taker. Winnicot parlava di handling e holding empatico.
Il contatto e lo scambio tra il corpo del bambino e il corpo del care-taker costituiscono l’esperienza relazionale primaria, la relazione e il bisogno di relazione sono connaturati all’esperienza umana e organizzatori dello sviluppo.
La disponibilità di contatto, la sua qualità, i modi, l’intensità, affidabilità e variabilità del contatto sono i pilastri dell’esperienza relazionale, il terreno su cui si esplica quel ricco universo di stimoli vitali alla crescita dell’essere umano.
Berne, con il termine “fame di stimoli”, sottolinea la necessità di nutrire questo bisogno primario, colpito dagli esiti patologici evidenziati dalle ricerche di Spitz, nei bambini deprivati di stimoli affettivi e cure materne. Con il termine “fame di riconoscimento” e l’individuazione della “carezza” (stroke) come unità di riconoscimento, Berne e ancor più chiaramente Steiner (1974) sottolineano l’importanza del contatto e dello scambio nella costruzione e nel mantenimento del senso del sé. Nella favola dei “Caldo-Morbidi” (trasposizione metaforica dell’“economia di carezze”) Steiner ci dice che l’assenza o la penuria di carezze fanno “appassire la spina dorsale” e propone come antidoto il permesso al contatto e il “libero scambio” delle risorse affettive, base necessaria di una buona alfabetizzazione emozionale.
Se la salute e il buon funzionamento, così come la disfunzionalità e la patologia trovano il loro terreno di sviluppo nel rapporto corpo a corpo tra il bambino e i suoi care-takers, e nel processo di scambio e negoziazione continua tra il soggetto e i suoi partner relazionali, allora possiamo pensare al copione come a un’impronta lasciata da questo processo di negoziazione nel suo svolgersi. Impronta che contraddistingue il soggetto ed è insieme segno distintivo della sua storia.

Corpo come regolatore delle relazioni: autoregolazione e reciprocità interattiva
Come ho detto in precedenza, il bambino è attrezzato fin dalla nascita alla reciprocità interattiva. L’infant-research e l’uso della videoregistrazione hanno permesso raffinate microanalisi sulle interazioni madre-bambino che evidenziano come vi sia, fin da subito, un buon coordinamento muscolare tra rotazione degli occhi e del capo che sostiene sotto il profilo fisico e motorio l’interazione dello sguardo. Il neonato comunica, si acciglia, si dimena e s’irrigidisce, guarda o distoglie lo sguardo; assistiamo a una danza di sguardi tra il bambino e il suo care-taker. Possiamo parlare di un vero e proprio ping-pong relazionale (cfr. Brazelton e Cramer, 1990).
Il bambino ha schemi di connessione e differenziazione: cioè sa come fare per stare in contatto e sa come fare per interrompere il contatto, in funzione autoregolante. L’interazione arricchisce gli schemi affettivo-motori di base in un’alchimia di abilità muscolari, posturali, locomotorie, cognitive e affettive. Downing (1995) sottolinea come gli schemi affettivo motori di connessione e di differenziazione siano operanti immediatamente dopo la nascita e siano scolpiti e foggiati inconsciamente da chi accudisce il bambino.
A partire dalle prime esperienze di relazione il bambino scolpisce i propri schemi relazionali e le proprie reti neurali. Siegel (1999) parla di mente relazionale.
La disponibilità del care-taker all’accudimento, i suoi modi di relazione e particolarmente la sua capacità di regolare il suo mondo emozionale sono importanti nello svolgere il ruolo di contenimento e supporto necessari alla crescita.
Riva Crugnola (2002) ci parla del care-giver come di un “regolatore psicobiologico” della crescita del sistema nervoso del bambino, oltre che delle sue esperienze socio-emozionali.

Ritmicità e reazione del genitore: il corpo come campo emozionale
La reazione ritmica del genitore alle emozioni del bambino assume nel tempo forme e modi più articolati, rispetto a quella dei primi giorni e mesi di vita. Possiamo domandarci: quali emozioni sente e manifesta il genitore nel rapporto con il bambino? Come reagisce quando il bambino dà segno di gioia, tristezza, rabbia o paura? Come si regola il bambino di conseguenza?
L’alfabeto delle emozioni si modella nella relazione con il care-taker, come capacità di comprendere, sentire, differenziare e nominare l’emozione propria e dell’altro.
Diversi sono gli schemi interattivi che una madre utilizza con il figlio: si sintonizza con i suoi stati emotivi, li rispecchia, li imita, cerca di comprenderli; ovvero ne abbassa il tono, va a marcia lenta, li smorza; o ancora li amplifica, alza il ritmo, l’energia, l’eccitazione. Li modifica più o meno intenzionalmente.
Nella coppia si sperimentano diverse musiche relazionali, come può avvenire tra due suonatori di jazz. È qui che s’imparano e si mettono a punto i motivi preferiti, i refrain della relazione che consentono sia consonanza, idillio e comunanza sia spazi di differenziazione. Ai contrappunti, alle contrapposizioni nette si alternano gli a solo, nel ritmo convergenza e divergenza, incontro e separazione.
Sempre nella specificità di una relazione, s’imparano le “regole implicite”, ovvero come sottintendere o evitare i motivi sgraditi o proibiti nella relazione. È intorno alle aree di evitamento del care-taker, alle sue fragilità e difficoltà, ai vuoti o alle ombre nell’esperienza di relazione con gli adulti per lui importanti che il bambino impara a trovare modi e spazi consentiti (elabora cioè le strategie di sopravvivenza possibili). Impara per esempio che alcune reazioni ed emozioni “naturali” debbono essere evitate e le reprime o ne utilizza altre in sostituzione (quelle che English chiama “parassite”, o “non genuine”) con cui il bambino apprende a soddisfare almeno in parte i propri bisogni e a proteggersi, quando la frustrazione che viene dal mondo dei grandi, sia per lui eccessiva. Potrebbe imparare per esempio a smorzare le sue richieste e la sua rabbia trasformandola in tristezza o in pianto, chiedendo attenzione con comportamenti passivi e malesseri fisici; oppure potrebbe rifuggire dal dolore e dalla tristezza con iperattivazione o agiti aggressivi.
Il corpo si adatta. Inibisce per esempio alcune sensazioni ed emozioni e ne accentua altre. Il bambino, a partire da situazioni di vulnerabilità e plasticità emotiva costruisce stereotipie motorie e posturali al servizio di queste inibizioni; per esempio contrae il respiro e limita il movimento direzionato a una soddisfazione dei bisogni e a una presenza attiva nella relazione. Impara pattern relazionali che nel tempo possono diventare abituali e portare a ripetizioni relazionali con partner diversi, innescando un loop di conferma di comportamenti disfunzionali. Cornell ci parlava, in un suo recente seminario a Milano, di schemi affettivo-motori a sviluppo incompleto: “il gesto interrotto”.
Il corpo impara e ricorda.

Effettualità e impotenza, le regole della contrattazione interattiva
Nel rapporto con il care-taker il bambino impara che i suoi gesti e le sue azioni hanno effetto sull’altro o non ne hanno. Tronick parla di effettualità, efficacia (agisco, ritento, “se provo ottengo”) ovvero d’impotenza (non ottengo, mi fermo, “tanto muovermi non serve”).
Il bambino impara schemi di connessione e di legame che mette in prova, e sviluppa un repertorio di schemi motori che strutturano il suo campo intersoggettivo.
Nella prima infanzia vi sono molte occasioni in cui la coppia si misura nel definire la disponibilità e i limiti del reciproco coinvolgimento: le regole vengono definite dalla coppia. Per esempio circa i ritmi di suzione, o l’educazione sfinterica, o il rapporto con gli estranei, o nell’addormentamento, o durante le “lezioni di lingua”.
Seganti ci ricorda: «In queste circostanze madre e bambino vanno incontro a un periodo di negoziazione dove la difficoltà di accordare i propri stati interni porta all’individuazione di un punto di non ritorno nel quale uno o entrambi gli attori dell’interazione decidono di ritirarsi dalla relazione. Il ritiro che consegue alla caduta di disponibilità dell’uno o dell’altro si manifesta con comportamenti adattivi che mirano a proseguire l’interazione [...] su un terreno più disimpegnato sul quale potranno sentire di avere maggiori garanzie di essere seguiti dall’altro senza arrivare prematuramente al punto di rottura della fase di contrattazione» (Seganti, 1995, p. 66).
Normalmente la madre è in grado di dosare il suo ritiro o l’eccesso di assertività che potrebbero far ritrarre il bambino, ed è in grado di tollerare le richieste o la non partecipazione del suo bambino non sempre disponibile, tenendo comunque aperta una contrattazione con il bambino. Tuttavia anche la madre deve riorganizzarsi internamente per tollerare la frustrazione e la non disponibilità del figlio, vissuta come temporaneo fallimento, potendo contare su altre relazioni per lei importanti. Se tali supporti le vengono a mancare rischierà di cercare la propria sicurezza a spese di quella del bambino, interrompendo la contrattazione e spingendolo alla compiacenza (per il bambino è più difficile trovare partner alternativi ed è probabile che resti fedele a una madre che lo tradisce).
Ricordo, a proposito di disturbi relazionali della madre e delle reazioni di “adattamento” del bambino, le riflessioni di Daniel Stern (1985) sul concetto della dead mother di cui parla Andrè Green (di cui troviamo rilevanti considerazioni riferite alla relazione terapeutica in Kohon, 1999).
A una madre emotivamente non disponibile, in questo senso “morta”, depressa, il bambino tenta di adeguarsi cercando, per esempio, di rianimarla, di consolarla, per evitare, fin che possibile di precipitare nel vuoto e nell’assenza dell’oggetto d’amore, pietrificato nel distacco emozionale.
Nella negoziazione dei propri bisogni col corpo dell’altro e con i modi di relazione di cui il corpo è investito, il bambino apprende molto su di sé (come agente e come recettore) e sull’altro (come agente e recettore). Il bambino sente, sperimenta e impara un proprio “potere” nel recepire e direzionare eventi che riguardano sé e l’altro. Sperimenta, potremmo dire, potenza, piacere e vitalità nel tono energetico del corpo.
Effettualità e potenza, o viceversa inefficacia e impotenza, diventano elementi centrali nel riconoscimento di sé. Elementi che orientano l’assunzione delle posizioni esistenziali di base, dell’Okness propria e dell’altro, nel rapporto col mondo e che sono a fondamento delle opinioni nucleari di copione.

Il corpo come memoria e identità
Attraverso la relazione il bambino delinea una prima mappa di attribuzioni che sono alla base del riconoscimento identitario proprio e dell’altro: chi sono io e chi è l’altro. Mappa che verrà via via rivisitata nel crescere, nell’impatto con gli eventi significativi della vita e con i fisiologici cicli di passaggio e crisi evolutive.
Ripensando alle prime esperienze di contatto del bambino e alla loro “impronta” possiamo chiederci: com’è l’altro con cui il bambino viene in contatto? È rispettoso e aspetta la sua iniziativa, è capace di coglierla, oppure è invadente, lo ignora o lo manipola per i propri scopi? Quali spazi di libertà e di “reciprocità” sono possibili?
E quale immagine il bambino può costruire di sé a partire da ciò che avviene nel rapporto con l’altro, con il mondo? Può sentirsi importante, adeguato, fattivo e capace di incidere nel rapporto con l’altro o viceversa impotente, inadeguato, poco considerato e considerabile, o ancora sentirsi “cattivo”, capace di far del male e danneggiare l’altro. Nel protocollo di copione e nei palinsesti successivi si mettono a punto le “opinioni nucleari di copione” che riguardano sé, gli altri e il contesto e che sono le colonne portanti del “sistema copione” (Erskine, Moursund 1988).
Vari sono i modi attraverso cui si declina la relazione e i modi in cui il corpo la ricorda. Ad esempio quando il genitore è rigido, alza la voce, impone e pretende, il bambino può trattenere il respiro, accettare, compiacere, rendersi permeabile (sensazioni che possono riattivarsi, in situazioni diverse nel tempo). Oppure quando il genitore seduce, sta sopra le righe con il tono, i modi e le blandizie, il bambino può agitarsi, confondersi, divenire fatuo. Potrebbe imparare a proporsi, per poi ritirarsi (come capita nel gioco psicologico di “violenza carnale”). Molti sono gli esempi che si potrebbero fare.
Nella danza di gesti, movimenti, sensazioni e parole, “passano” messaggi e attribuzioni, permessi e ingiunzioni che orientano e “costruiscono” in modo unico e creativo le scelte copionali del bambino.Scelte che vengono ripetute e rimesse alla prova più e più volte nel tempo; in seguito lungo il corso della vita.

Rottura, fallimento relazionale e processo di riadattamento: trame del copione
Quando avviene un’esperienza di fallimento relazionale il bambino si riadatta e “impara”: memorizza il ritiro come strategia e lo utilizza quando si ripresentano situazioni simili, o vissute come tali.
A questo proposito ricordo l’esperimento, ormai famoso, del volto immobile (still face) di Tronick (Cohn, Tronick, 1883).
La reazione più consueta di un bambino di tre mesi al volto della madre che si immobilizza per alcuni minuti (“surgelandosi”, secondo le indicazioni degli sperimentatori), è quella di reagire, protestare, cercare di rianimare la madre con sguardi, gorgheggi e seduzioni o col pianto, prima di ritirarsi e “surgelarsi” a sua volta. Oppure, in alcuni casi, disorganizzandosi con reazioni di panico.
Nella stessa esperienza ripetuta a sei mesi, quando vi sia una relazione con una madre depressa, il bambino si ritira subito, rinuncia ad attivarsi e rinuncia al tentativo di attivare il care-taker; diviene immobile a sua volta. Il volto del bambino si sintonizza su una fissità paralizzante, si surgela fin da subito. Possiamo pensare che il corpo ricordi l’esperienza dell’inefficacia, del fallimento relazionale che l’abbia fatta propria interiorizzandola e ripeta il ritiro in funzione protettiva, anche in un’esperienza nuova, dove forse potrebbero esservi esiti diversi.
Con un altro linguaggio potremmo dire che ha imparato precocemente una strategia che costruisce una prima trama dell’intreccio copionale. Il corpo ricorda e “apprende”. Waldekranz Piselli (1999) descrive con chiarezza come gli schemi affettivo-motori precoci, interiorizzati, costituiscano i mattoni di costruzione del copione.
Secondo Beebe e Lackmann (2002, p. 140) i circuiti della memoria rispondono alle leggi dell’individuazione di regolarità (familiarità, ripetizione e attesa sono il principio neurale più importante).
Sappiamo anche tuttavia dalle storie di vita, dalla pedagogia e dalla clinica che nuove esperienze e particolarmente nuove esperienze relazionali, introducono nuove possibilità, possono aprire nuove vie.
Sappiamo anche di poter contare su una certa plasticità neuronale, per “rivisitare” le tracce lasciate da esperienze traumatiche e per “riaggiornare” alcune delle vecchie esperienze, introducendovi nuovi significati. A proposito di ripetizione e cambiamento voglio ricordare che con Joseph Weiss (1993) potremmo dire che le ripetizioni che la persona mette in atto in relazioni successive si possono configurare come test relazionali, orientati alla ricerca di una via d’uscita che sia finalmente soddisfacente e onorevole per la persona; una nuova esperienza correttiva, un ampliamento e un rinnovamento di significati che allarga la trama copionale introducendovi apertura e flessibilità (cfr. Joseph Weiss a Milano, Rotondo, 2000).
La relazione dunque è anche il luogo della cura.

Per concludere
Abbiamo detto fin qui che le relazioni, vissute nell’unicità dell’esperienza soggettiva sono fondanti nella crescita e nello strutturarsi della persona, lasciano una traccia visibile nella configurazione delle relazioni interne ed esterne. Sono significative nel delineare modi e stili di vita personali, linee di forza e di debolezza, equilibri e possibili disequilibri, salute e patologia.
Allo stesso modo la relazione e i modi della relazione sono centrali nell’esperienza della cura. Non intendo ora addentrarmi in questo aspetto, che tocca un nodo centrale nella relazione d’aiuto e un pilastro della teoria e della tecnica terapeutica in psicoterapia e che merita ben altro spazio. Farò solo qualche riflessione conclusiva.
L’esperienza della relazione di cura, del prendersi cura dell’altro e di sé attraverso l’altro, apre nuove possibilità, permette la ri-sintonizzazione di circuiti emozionali con esperienze vitali; permette di ricontestualizzare le esperienze passate alla luce di quelle presenti.
Modell (1996), riprendendo il pensiero profondo di Freud, ci parla della possibilità di «ritrascrivere le memorie di vecchi traumi alla luce delle successive esperienze», riorganizzando le esperienze temporali e rimarginando le ferite. Obiettivo del terapeuta è di «permettere ai propri pazienti di ristabilire la tridimensionalità del tempo».
Le attuali teorie sulla memoria che evidenziano come essa sia data da processi interattivi, circolari e contesto-dipendenti portano nuova luce, nuove possibilità di comprensione su quanto avviene nella relazione terapeutica e nei paradigmi della tecnica analitica in ambito psicoterapeutico (Siegel, 1999; Beebe, Lachmann, 2002; Fissi, 2003).
Nel campo intersoggettivo creato dalla coppia analitica, nella stanza della terapia, così come nello spazio gruppale, l’esperienza relazionale permette di dare alla corporeità e alle esperienze vissute nella relazione un diverso senso e un altro tempo, aprendo nuove configurazioni di esperienze attuali.
Il corpo diviene risorsa, spazio intermedio dove giocare e ri-giocare l’esperienza relazionale. Penso qui al corpo-leib, esperienza vivente, gesto, parola e suono, dei soggetti in relazione nello spazio analitico. Luogo dove “risignificare” l’esperienza del soggetto e trarne nuove alchimie.
Voglio infine sottolineare che nel mio rapido excursus ho inteso costruire ponti tra esperienze e universi teorici diversi. In questo processo sono inevitabili le imprecisioni, i salti e le “rotture”. Insieme a ciò si aprono varchi di esplorazione e prospettive inconsuete, linguaggi che connettono saperi ed esperienze e alimentano, lo spero, la sete di conoscenza e progresso.


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