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C.P.A.T. --> HOME PAGE --> N. 41/2004

QUADERNI DI PSICOLOGIA,
ANALISI TRANSAZIONALE
E SCIENZE UMANE

Dal n° 41 - 2004


La memoria implicita: luogo del cambiamento

Evita Cassoni




Riassunto
In questo scritto parlerò della memoria implicita, funzione della mente che contiene e rappresenta le tracce dei primi schemi di interazione con l’ambiente e ci accompagna tutta la vita. Parlerò delle scoperte in campo neuroscientifico che contribuiscono a chiarire i luoghi e i meccanismi del cambiamento, in una logica di integrazione tra le discipline che si occupano della mente.

Abstract
IMPLICIT MEMORY: CHANGE SITE
This article considers implicit memory, a mind function who contains and presents the first models of interaction with behaviour and who follow us during the life. The discoveries in neurological sciences explain the change’s sites and mechanisms, with integration of different disciplines interested to mind.


L’Età delle neuroscienze
Siamo fortunati, come professionisti, a vivere questo tempo.
Le neuroscienze, ovvero la neuroanatomia, la neurobiologia, la neurofisiologia, la neuropsicologia, tutte le discipline che hanno come specifico oggetto di studio il sistema nervoso, hanno creato una rete di connessione tra scienze filosofiche, scienze psicologiche e scienze bio-mediche.
Questa rete è solida e in continuo ampliamento, e leggere quello che si sta producendo nel campo dello studio della mente è un’esperienza affascinante che apre continue connessioni e nuovi scenari. L’integrazione delle conoscenze su cui ci siamo formati e che un tempo coesistevano come dualismi – mente e cervello, natura e ambiente, struttura e funzione, cognitivismo e psicoanalisi e così via – e oggi si connettono nella complessità di teorie più ampie che li comprendono, è di per sé un’esperienza affascinante.
Ancora, se insieme al piacere intellettuale di esplorare scenari aperti e interconnessi, ci concentriamo a considerare il significato delle scoperte neuroscientifiche per il nostro lavoro terapeutico e più in generale pensando al lavoro con le persone, possiamo vedere i molti e sofisticati strumenti che possediamo e le continue aperture e trasformazioni delle matrici teoriche dei vari indirizzi concettuali della comunità terapeutica.
Le neuroscienze cambiano la prospettiva sul formarsi dell’esperienza umana in modo così incisivo da imporre una rivisitazione delle teorie e dei modi che fanno da supporto al nostro lavoro, rivoluzionano gli schemi della psicologia evolutiva e di conseguenza quelli della psicopedagogia e della psicopatologia, e aprono una via di riflessione piena di opportunità.
Per esempio, lo studio e la conoscenza della memoria implicita allarga il concetto di inconscio da luogo del rimosso a luogo del biologicamente non consapevole. Questo ci porta a ragionare in termini di lavoro con strutture e reti neurali che sono e resteranno al di fuori della consapevolezza indipendentemente dall’azione di meccanismi difensivi.

Come è chiaro, mi appassionano le riflessioni che questi studi ci sollecitano e sono grata alle neuroscienze per la possibilità di connettere le mie conoscenze e per dare fondamento scientifico ad alcune intuizioni e ad alcune speranze che, come persona e come medico, ho nutrito sull’idea di cura. Oggi possiamo dire, ancor meglio di ieri, che è la relazione che cura. È una verità potente, che ci chiama a una riflessione costante e responsabile sul nostro stare con l’altro, oltre che, certamente, con noi stessi.
Le neuroscienze hanno accompagnato il mondo scientifico nell’era delle connessioni: un’età nella quale possiamo procedere parallelamente e integrare pensieri particolari per arricchire una visione comune. Una rete complessa e interconnessa di discipline che si dedicano a un oggetto di studio altrettanto complesso e frutto di connessioni.
Questi sono i motivi di fondo per i quali mi piacerebbe poter dare un’idea al lettore su alcuni degli scenari che questo tempo ci offre.
Del territorio vasto e complesso delle scoperte neuroscientifiche, scelgo di percorrere la strada della memoria, avendo in particolare come oggetto di riflessione la memoria implicita, funzione preziosa che custodisce le prime tracce della nostra storia e quindi del nostro essere, individuale e collettivo.
Certamente anche per questa scelta, desidero cominciare con una breve premessa sulla memoria delle neuroscienze.


Le radici
Comincio dall’inizio per condividere l’avvio del farsi della teoria della mente cercando di offrire una visione prospettica e insieme lieve delle radici storiche delle neuroscienze.
Se immaginassimo di guardare dall’alto la cartina dell’Europa della seconda metà dell’Ottocento e di segnalare i laboratori di ricerca come punti luminosi, assisteremmo a un progressivo accendersi di punti in più paesi; punti che si collegano tra loro fino al formarsi di una rete luminosa.
Un primo punto luminoso è quello del laboratorio di Camillo Golgi, biologo e medico italiano, rettore dell’Università di Pavia, che nel 1873 mette a punto un sistema di colorazione specifico per le cellule nervose, la tecnica della reazione nera. Questa scoperta permette di osservare per la prima volta al microscopio ottico le cellule nervose. Contemporaneamente, in Spagna, l’anatomista Santiago Ramon y Cajal andava verificando l’intuizione che alla base della struttura del cervello esistesse un tipo di cellula altamente specializzata. E, grazie alla tecnica della reazione nera di Golgi, può finalmente vedere la cellula nervosa, che gli appare in tutti i suoi dettagli: un corpo cellulare, dai cui poli partono filamenti corti e sottili da un lato – i dendriti – e un filamento unico più grosso e più lungo dall’altro – l’assone –.
Nasce la teoria del neurone: Golgi e Ramon y Cajal ne sono i padri e, per questa teoria, ottengono, insieme, nel 1906 il Nobel per la medicina e la fisiologia. È la teoria fondante dello studio della mente, e la sua importanza sta anche nell’aver creato una prima connessione tra gli scienziati che sostenevano la teoria globulare del cervello e quelli che si opponevano con la teoria reticolare.
La storia delle neuroscienze, spesso, sembra procedere tra contrapposizioni e sintesi, una traccia mnesica che pare continuare anche più avanti.
Proseguono gli studi più strutturali di neuroanatomia e parallelamente inizia la neuropsicologia sperimentale.
Se tornassimo a osservare la nostra cartina, vedremmo accendersi a Praga il laboratorio di Jan Evangelista Purkinje, istofisiologo che osserva per primo le cellule piramidali dello strato intermedio della corteccia cerebrale, cellule che tutt’oggi portano il suo nome.
E ancora, sul finire del secolo, vedremmo illuminarsi in Russia lo studio di Anton Pavlov che studia la fisiologia del sistema digerente e, con tecniche di indagine originali, motivo dell’assegnazione del premio Nobel nel 1904, osserva il fenomeno della salivazione psichica, embrione della teoria dei riflessi condizionati maturata poi nel 1927.
Tornando alla teoria del neurone, dovranno passare alcuni decenni perché la ricerca sulla trasmissione nervosa arrivi a definire il concetto di sinapsi, con il neurofisiologo inglese Charles Scott Sherrington, premio Nobel nel 1936. Un’altra scoperta che crea connessioni. L’idea della sinapsi fa da ponte, oltre che tra i neuroni, anche tra i due filoni di pensiero sulla trasmissione nervosa, quello dei sostenitori dell’impulso elettrico e quello dei sostenitori della teoria biochimica. Da lì in avanti, seguono a cascata gli studi sulla componente chimica dell’impulso nervoso, e quindi sui neurotrasmettitori e sui neuromodulatori, con fisiologi come Langley, Elliott, Cannon e Dale e neurofarmacologi come Erspamer e Rapport.
Infine, sempre negli ultimi decenni dell’Ottocento e parallelamente a questi studi più “cellulari”, cominciano le ricerche a un livello più “macroscopico”, con Paul Broca, neuroanatomista francese che scopre l’area della funzione motoria del linguaggio e con il neuropsichiatria tedesco Karl Wernicke che definisce l’area del cervello deputata alla componente sensoriale. Si creava, così, ancora, una connessione: quella tra le diverse interpretazioni delle funzioni superiori della mente, come il pensiero e il linguaggio, fino ad allora contese tra i sostenitori di concezioni filosofiche più animistiche da un lato e i sostenitori di una posizione più empirica e positivista dall’altro.
In questo clima culturale nasce la psicoanalisi.
Lo studio sulla memoria attraversa tutto il pensiero di Freud, a partire dal suo Progetto di una psicologia del 1895, in cui descrive la memoria come facoltà di subire un’alterazione permanente nel tempo in seguito a un evento. Più tardi, scriverà al suo amico Wilhem Fleiss, in una lettera del 6 dicembre 1896, dell’ipotesi che l’apparato psichico si formi attraverso un processo di stratificazione in epoche di sviluppo successive, delimitate da fasi di trascrizione dei contenuti psichici.
Siamo nella prima metà del Novecento: un secolo che si apre con la nascita della psicoanalisi, che vede la scoperta della struttura del DNA, con Watson e Crick, nel 1953 e che si conclude con l’esplosione degli studi neuroscientifici.
Da questo punto la mia digressione sulle radici storiche delle neuroscienze, doveroso omaggio ai primi studiosi, prende la strada particolare della ricerca sulla memoria, sia per non appesantire la lettura, sia perché sarebbe un’ardua impresa tenere le fila di tutto quello che, parallelamente e in diversi campi di studio, si andava scoprendo sul cervello.


La memoria implicita
È una funzione e nello stesso tempo una parte della mente. Una parte affascinante, da avvicinare con rispetto.
Seguono alcune premesse, utili a creare un linguaggio condiviso.
I dati che oggi abbiamo a disposizione ci dicono che la memoria implicita è:
– la prima forma di registrazione dell’esperienza;
– l’unica memoria possibile alla nascita e per i primi 24 mesi della vita, dato che avviene nelle strutture sottocorticali del cervello – amigdala, nuclei della base, sistema limbico – già mature a quel tempo dello sviluppo;
– si attiva con l’esperienza sensoriale dell’ambiente e non è accompagnata dalla coscienza di ricordare;
– si struttura come memoria a lungo termine e contiene le basi di diversi apprendimenti; nel caso di quelli relativi alle esperienze motorie di base viene chiamata procedurale;
– è sempre memoria affettiva, nel senso che è determinata e determina la qualità emotiva dell’esperienza;
– è una funzione della mente che ci accompagna per tutta la vita ed è plastica, cioè capace di trasformazioni.
A partire dagli esperimenti di Penfield – prime esplorazioni della funzione della mnesica e radici neurobiologiche dell’opera di Eric Berne (1961) – fino agli studi di Antonio Damasio (1994), lo studio della memoria è collegato allo sviluppo emotivo della mente.
Le ricerche di Squire (1992), Schacter (1995) e Le Doux (1996) ci hanno mostrato le qualità e i luoghi della memoria implicita, in particolare l’amigdala, sede anatomica delle reti neurali della memoria implicita.
L’amigdala è il cuore, il centro emotivo del nostro cervello.
È una piccolissima mandorla che si trova nelle profondità della parte filogeneticamente più antica del nostro cervello. Se ci immaginiamo i due emisferi e ci immaginiamo di sollevare dolcemente il lobo temporale, e di infilarci sotto, senza fare danno, solo a guardare, come fanno i bambini sotto le coperte, vediamo questo cuore che si illumina a ogni esperienza, sempre. A differenza delle aree corticali superiori che si illuminano in zone, l’amigdala è tutta, costantemente, illuminata, con maggiore o minore intensità a seconda della maggiore o minore intensità emotiva dell’esperienza.

Un centro emotivo che si attiva nell’arco di millisecondi attraverso lo stimolo che arriva dai canali di senso. Millisecondi, un tempo brevissimo per la parola, improbabile per un farmaco, sufficiente, anzi specifico, per i messaggi non verbali come lo sguardo o il tono di una voce, il ritmo di un movimento o un profumo nell’aria. Siamo nel regno del preverbale e presimbolico, certamente del non consapevole, siamo nel regno della sopravvivenza. Lo abbiamo raggiunto con l’immaginazione, in un tempo altrettanto breve.
L’immaginazione, strumento delicato e potente, sul quale torneremo.

Desidero innanzitutto riprendere alcuni presupposti teorici che possono aiutarci a vedere più profondamente questa funzione della mente.
Il primo presupposto a cui penso è l’assioma di Donald Hebb (1949): – neuroni che vengono eccitati insieme una prima volta saranno predisposti a rifarlo insieme anche in seguito.
“Predisposti”, mi sembra una parola chiave nell’enunciato di Hebb: ci dice che la memoria implicita, fatta di neuroni che si collegano in reti neurali, può essere conservata in reti neurali che tenderanno a riattivarsi – “illuminarsi” – insieme. Una possibilità dunque, che segue i criteri evoluzionistici di sopravvivenza ed economia.
Facciamo l’esempio di un bambino di poco più di un anno: sa camminare da poco ed entrando in una stanza sente un rumore improvviso, molto forte, magari per la corrente d’aria che aprendo la porta ha fatto sbattere la finestra, che è aperta perché siamo in estate, questo bambino si spaventerà e, in un tempo di millisecondi, il suo organismo sarà pronto a reagire a un eventuale pericolo, sarà cioè in allarme, o in gergo tecnico, il suo arousal si sarà elevato. In millisecondi, cioè molto prima che il bambino stesso senta di essere agitato. Secondo l’assioma di Hebb, le reti neurali che si sono attivate nella sua memoria implicita hanno vagliato lo stimolo: rumore improvviso e forte uguale a possibile pericolo, e tenderanno in futuro a riattivarsi insieme.
E per quanto tempo questo continuerà ad accadere? O meglio, cosa determina la probabilità che neuroni che tendono ad attivarsi insieme lo facciano realmente?

Per riflettere su questo, introduco un secondo presupposto derivato dal lavoro di Eric Kandel, premio Nobel nel 2000, per lo studio sulla memoria cellulare dell’Aplysia californiana, una lumaca marina con una struttura nervosa molto elementare e quindi facilmente osservabile. Kandel e collaboratori osservarono che, colpendo ripetutamente con un sottile getto d’acqua la lumaca, questa reagisce ritraendo, protettivamente, la branchia. La scoperta verificata dimostra che stimoli ripetuti vengono memorizzati stabilmente e modificano la struttura nervosa, e dimostra anche che la rete neurale modificata, a sua volta, può modificare stabilmente l’espressività di un gene.

Tutto questo in base all’interazione con l’ambiente, in relazione all’esperienza.
Ora la domanda potrebbe essere, esistono dei criteri che regolano l’attivazione delle reti neurali?
Ci è utile riprendere il pensiero di un altro ricercatore, Gerald M. Edelman, premio Nobel per la medicina nel 1972 grazie agli studi sulla struttura degli anticorpi, direttore del Neurosciences Institute in California, che si è dedicato a costruire una teoria della mente fondata sui criteri evoluzionistici, descritta in una trilogia che comprende: Darwinismo neurale (1987), Topobiologia (1988), Il presente ricordato (1989).
Del vasto contributo neuroscientifico di Edelman, consideriamo qui il concetto evoluzionistico di selezione applicato all’attivazione delle reti neurali, idea che testimonia come le funzioni si sviluppano e si attivano secondo una gerarchia regolata dai criteri di sopravvivenza ed economia.
Per il nostro discorso, questo significa che stimoli ripetuti potenzialmente pericolosi possono rendere stabili reti neurali nella memoria implicita e che questa attivazione – potenzialmente reversibile – esclude altre attivazioni meno utili alla sopravvivenza.
Inoltre, ciò significa che ripetute attivazioni della memoria implicita, più avanti nello sviluppo, tenderanno a escludere l’attivazioni di reti neurali di secondo livello, come per esempio quelle dell’ippocampo per la memoria esplicita (Schacter, 1996).
In termini correnti, questo ci dice che per la nostra neurobiologia non è importante sapere che stiamo per essere aggrediti e pensare che siamo spaventati e ricordare le altre volte in cui questo è accaduto: prima è essenziale scappare o lottare e poi, una volta sopravvissuti, potremo ricategorizzare l’esperienza in modelli consapevoli e rintracciabili.
Potenza e delicatezza della funzione della memoria implicita, sentinella che protegge i nostri confini e regola gli scambi con l’esterno, molto prima che noi siamo in grado di modularli. Una funzione di sopravvivenza individuale e di specie, quindi preziosa e, a sua volta, difficilmente raggiungibile. Un luogo che contiene già alla nascita informazioni di base per la sopravvivenza, probabilmente codificate in modo molto elementare, in categorie grossolane con le quali vagliare gli stimoli sensoriali (per esempio “conosciuto/sconosciuto”, “più grande/più piccolo”), categorie primarie con le quali rileviamo eventuali segnali di pericolo nell’ambiente.
Diciamo che veniamo al mondo con un corredo genetico di specie che ci protegge e che corrisponde a tracce mnesiche primordiali di sopravvivenza.

Tornando al nostro bambino che entra nella stanza e sente un rumore forte e improvviso, se ripete questa esperienza più volte, è possibile che l’estate successiva, in condizioni di luce e temperatura simili, lo stesso bambino entrando in quella stanza reagisca con una reazione di all’erta, inconsapevolmente, anche senza che si verifichi il rumore (la mamma o il papà hanno sistemato un fermafinestra per la corrente d’aria).
Il bambino si attiverà comunque, pronto ad affrontare un probabile pericolo.

Facendo un passaggio ancora, possiamo riflettere su come questo processo neurobiologico cambi a seconda che un bambino abbia avuto un attaccamento sicuro o insicuro; riflettiamo cioè su quali altri fattori influenzano le prime registrazioni della memoria. Per questo è utile richiamare brevemente gli studi sullo stress e sull’influenza degli ormoni glucocorticoidi sulla qualità dell’attivazione delle reti neurali, in termini di velocità e durata nel tempo.
Più in particolare, già Hans Seylie (1936) aveva osservato come sono diverse le modificazioni dell’organismo, per esempio nelle ghiandole surrenali e nel cuore, indotte da stressor occasionali piuttosto che da stressor ripetuti e frequenti. Da allora, in particolare gli studi della PNEI (psico-neuro-immuno-endocrinologia), hanno prodotto materiale prezioso per lo studio delle connessioni tra la produzione ormonale, la produzione di anticorpi e l’attività dell’amigdala. Più precisamente, di nuovo secondo un criterio evoluzionistico, la gerarchia di attivazione dei processi privilegia la preparazione a reagire al pericolo.
Le informazioni dall’ambiente raggiungono il cervello attraverso i canali sensoriali – organi di senso, fibra nervosa, strutture sottocorticali – e raggiungono il talamo, stazione di smistamento dell’impulso. La funzione del talamo è trasmettere l’informazione in due direzioni: da un lato verso la corteccia, per la decodifica consapevole e l’integrazione delle informazioni contenute in più aree; dall’altro il talamo invia l’informazione sensoriale verso il basso, cioè verso l’amigdala, per la valutazione più ancestrale che risponde alla domanda: “È pericoloso?”. Nel caso la risposta dell’amigdala sia di pericolo, parte immediatamente una reazione di attivazione dell’organismo che scavalca qualsiasi processo decisionale.
È il meccanismo per cui ritraiamo la mano dal fuoco senza doverlo decidere.
È anche il fondamento biologico delle fobie, che, come sappiamo, beneficia poco delle considerazioni razionali. Per una persona che ha il terrore dei gatti, vederne entrare uno in una stanza corrisponde in termini neurofisiologici al veder entrare un leone, poco serve ricordarle che i gatti non sono leoni. Possiamo lavorare poi sullo scarico della tensione muscolare che ha accumulato in questa esperienza, rinforzare l’Adulto con informazioni, ma ci sarà un attimo iniziale che resterà di terrore, per la traccia nell’amigdala.
Le Doux, nei suoi studi sulle vie di attivazione della reazione al pericolo (1996), ha definito la via talamo-corteccia associativa “via alta” e la via talamo-amigdala “via bassa” e ha verificato che la via bassa ha sempre la precedenza ed è, ovviamente, molto più veloce.
In termini semplici possiamo pensare che il nostro organismo è programmato per sopravvivere, idea rassicurante se pensiamo al grado di esposizione al pericolo di una creatura alla nascita e nei primi mesi e anni di vita. Questa creatura “scannerizza” l’ambiente, in termini neuroscientifici “processa” gli stimoli sensoriali che gli arrivano dall’esterno, per verificare che esiste una condizione di sicurezza e solo dopo questa operazione attiva altre reti neurali deputate al godere di quegli stessi stimoli sensoriali che ha verificato non essere pericolosi.
Cioè, prima la vita, poi la sua qualità.
In questa logica, un bambino che ha la fortuna di crescere in un ambiente sufficientemente sicuro, tenderà comunque a processare gli stimoli sensoriali prima di goderne, ma non andrà alla ricerca del pericolo; parallelamente, un bambino meno fortunato si aspetterà con quasi certezza di trovare il pericolo.
Una differenza sottile che crea qualità di vita distanti anni luce.
Il bambino con una base sicura vaglierà gli stimoli con più tranquillità; il bambino che ha avuto accudimenti intermittenti, imprevedibili o peggio terrorizzanti saprà, nella sua memoria implicita, che il pericolo esiste e scannerizzerà l’ambiente cercando di trovarlo.
Siamo alle basi neurobiologiche dello stile di attaccamento; siamo al formarsi degli schemi relazionali, alle radici delle posizioni esistenziali, al protocollo primario di copione.

In altri termini, ci sono bambini che vivono una giornata di sole godendone in parte, perché il loro piacere è disturbato dal livello di allarme che, inconsapevolmente, stanno vivendo.
Così un adulto sottoposto a stress emotivi forti e ripetuti potrà vivere in un costante pomeriggio di temporale, con tuoni e lampi improvvisi, pur vedendo e ricordando, nella memoria esplicita, che è primavera e che i temporali finiscono.
Come raggiungere questo adulto o quel bambino spaventato?
Che siamo terapeuti, genitori, councellor, educatori, amici o innamorati, la domanda è la stessa.


La relazione che cura
Le caratteristiche di base della memoria implicita che abbiamo esplorato aprono immediate connessioni fondanti con gli assunti di base del lavoro clinico, in particolare danno centralità all’esperienza relazionale.
Se le prime tracce di memoria dell’interazione tendono a costituire gli schemi iniziali di orientamento nel mondo, in un tempo della vita in cui funzioniamo in risposta a stimoli sensoriali, e se queste tracce sono plastiche, cioè trasformabili, sappiamo che possono essere raggiunte e trasformate e che questa trasformazione è possibile con la stessa modalità con la quale le tracce si sono formate, cioè col nostro modo di stare al mondo, col nostro modo di essere, certamente molto prima che con la nostra tecnica.
Quindi, la memoria implicita può cambiare. Ogni volta che si attiva può cambiare, anzi, dalle riflessioni fatte fin qui, è il luogo elettivo del cambiamento.
Qui stanno gli schemi relazionali primari, le rappresentazioni inconsapevoli che ci portiamo nelle relazioni. Qui sta la radice dell’operazione di transfert che altera i nostri incontri quotidiani, terapeutici e non.
Allora le domande da farci potrebbero essere, quale schema relazionale sta proponendo questa persona? E anche, come posso interagire per non rinforzare uno schema che la costringe?
Abbiamo parlato molto di sintonizzazione, di empatia, e spesso questi termini sono stati letti come segnali di un atteggiamento romantico. Per quello che sappiamo oggi, la sintonizzazione è la matrice di ogni relazione terapeutica. Oggi ne conosciamo le basi neurobiologiche, quando parliamo di intersoggettività parliamo di “allineamento” di stati della mente (Trevarthen, 1993). Un fenomeno tanto affascinante proprio perché biologico. L’interazione tra un bambino e la prima figura di attaccamento avviene attraverso continui fenomeni di “allineamento” di stati della mente. E ogni interazione significativa avviene attraverso fenomeni di allineamento di stati della mente.
Di nuovo un concetto che apre lo sguardo a scenari vastissimi.
Per esempio, rispetto al modo in cui cambiano i concetti di transfert e controtransfert.
Prendiamo un brano dal bellissimo testo La mente relazionale di Daniel Siegel:
«Una donna di trent’anni siede silenziosa nello studio del suo terapeuta. Quando quest’ultimo le chiede per la seconda volta “Come è andata la visita a sua madre, lo scorso weekend?”, sembra confusa, si morde le labbra, distoglie lo sguardo e fissa il pavimento senza dire niente. Poi si copre gli occhi con un braccio e incomincia a muovere nervosamente un piede, mentre il suo respiro si fa sempre più rapido. Silenzio. A questo punto, il terapeuta si rende conto che il suo battito cardiaco inizia ad accelerare¸ guarda per terra e si accorge che anche lui sta battendo ritmicamente un piede contro il pavimento. Il suo stato della mente si manifesta con segnali non verbali: espressioni del viso, sguardi, gesti. A voce bassa, lentamente dice “Capisco, è stato un fine settimana difficile” e intanto gli sembra che la sua testa stia per scoppiare. Improvvisamente la paziente esclama “ORRIBILE!”. Il terapeuta prova immediatamente una sensazione di sollievo, i suoi muscoli si rilassano, la pressione nella testa scompare. Anche la donna sembra meno tesa: “Orribile…”, ripete gemendo e comincia a piangere. […] Comunicare non significa unicamente comprendere o percepire i segnali – verbali e non – che ci vengono trasmessi dagli altri; perché tra due individui si instauri una comunicazione emotiva piena ed efficace è necessario che ciascuna delle persone coinvolte lasci che il suo stato della mente sia influenzato da quello dell’altra.»
In un incontro terapeutico dunque, sono molti gli stati della mente attivati; usando i riferimenti teorici analitico transazionali, molti stati dell’Io sono attivi contemporaneamente a più livelli. Rimando il lettore agli scritti di James Allen per una connessione approfondita tra le neuroscienze e i concetti base dell’Analisi Transazionale (Allen, 2003).
In un incontro terapeutico, dicevo, è possibile ricreare un “allineamento” di stati della mente. Ogni incontro umano può rappresentare un’esperienza riparativa: in terapia abbiamo più occasioni, semplicemente.
I contenuti e i modi del colloquio, il ritmo e la cadenza delle sedute, la sicurezza creata dal setting, il tempo, la stanza attivano tutti i livelli di memoria. Sono elementi che “arrivano” alla memoria esplicita e consapevole: “Incontro il mio terapeuta il giovedì alle cinque in quel luogo da quel giorno di marzo e sarò io a decidere quando concludere i nostri incontri”. Arrivano anche alla memoria implicita, magari non subito, ci vuole qualche verifica (che il terapeuta risponda al citofono per un numero sufficiente di volte, numero ovviamente variabile per ognuno da due volte all’infinito, che il terapeuta ci sorrida o abbia uno sguardo benevolo, che la stanza sia la stessa, che non cambi troppo spesso l’orario, che sia onesto nei costi) insieme alle altre migliaia di informazioni che hanno a che fare col suo “esserci” per noi.
Allora, cominciamo a esserci anche noi, tutti interi e, man mano che ci siamo, si integrano altri stati della mente, in continui scambi e integrazioni con gli stati della mente del terapeuta e in continui scambi e integrazioni tra stati della mente interni.
Cioè, un giorno accade qualcosa, che sentiamo profondamente forte, che forse racconteremo domani o alla prossima seduta. Sicuramente in quel momento sappiamo di sentirci bene, sentiamo come un ordine interno. Qualcosa è cambiato nella nostra memoria implicita.
Sono quei momenti che Stern definisce “moments of meaning”, sono il superamento di un test nella control-mastery theory (Weiss, 1993) sono un pezzo di “deconfusione” del Bambino per l’Analisi Transazionale.
Certamente, sono un pezzo di transfert che si scioglie.
Non c’è più l’incontro sbilanciato con l’Altro, più potente, più forte, più grande, più buono o più cattivo, in ogni caso più, e di conseguenza traumatizzante. È successo qualcosa che ha ricategorizzato le tracce della nostra memoria implicita e ha spento l’allarme: siamo al sicuro, e al sicuro vuol dire alla pari.
Poi questo può accadere in una seduta psicoanalitica, gestaltica, costruttivista o analitico-transazionale; questo attiene ai modi ed è un altro discorso.
Francamente non credo che possiamo teorizzare intorno all’allineamento, possiamo sapere che esiste, che è un fenomeno misurabile, biologico, potente e affascinante. Il realizzarlo sta nel cuore e nella mente, oltre che nell’arte di ciascuno.
Personalmente amo molto il linguaggio metaforico e credo che le tecniche immaginative parlino direttamente agli stati della mente creati dalla memoria implicita. Mi piace creare metafore e credo che questo sia un invito alle persone con cui lavoro a fare altrettanto, soprattutto ascolto le metafore che arrivano da chi mi parla, metafore verbali, metafore dei sogni, metafore dei sintomi.
Lo studio della memoria implicita è il fondamento neurobiologico che connette la teoria dell’attaccamento, il lavoro di Daniel Stern, i sistemi motivazionali di Lichtenberg e i modelli operativi interni di Bowlby, il cognitivismo evoluzionistico di Giovanni Liotti, la control-mastery theory di Weiss e Sampson, le nuove idee psicoanalitiche di Mauro Mancia, la teoria analitico trasazionale sul copione.
Una connessione interessante che permette di sviluppare il pensiero scientifico in direzioni diverse, unificate da una base comune che le giustifica.
Pensare in termini di neuroscienze ci invita a ristrutturare i nostri modelli teorici e questa operazione produce integrazione e coerenza. Come in un processo parallelo con lo sviluppo degli organismi viventi, che tendono alla complessità e a procedere per integrazioni in modo da mantenere una coerenza interna, così le teorie della mente, man mano che si specializzano si fanno più complesse e, anche, si avvicinano e si integrano.


Bibliografia

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DA I FIUMI

[...]

Ho ripassato
le epoche
della mia vita

Questi sono
i miei fiumi

Questo è il Serchio
al quale hanno attinto
duemil’anni forse
di gente mia campagnola
e mio padre e mia madre

Questo è il Nilo
che mi ha visto
nascere e crescere
e ardere d’inconsapevolezza
nelle estese pianure

Questa è la Senna
e in quel suo torbido
mi sono rimescolato
e mi sono conosciuto

Questi sono i miei fiumi
contati nell’Isonzo

Questa è la mia nostalgia
che in ognuno
mi traspare
ora ch’è notte
che la mia vita mi pare
una corolla
di tenebre


Giuseppe Ungaretti, da I fiumi, in Poeti italiani del Novecento, Mondadori, Milano 1978.



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