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C.P.A.T. --> HOME PAGE --> N. 40/2003

QUADERNI DI PSICOLOGIA,
ANALISI TRANSAZIONALE
E SCIENZE UMANE

Dal n° 40 - 2003


Il primo colloquio con ragazzi in crisi
Conversazione con G.


Anna Fabbrini



Riassunto
Il tema del primo colloquio con gli adolescenti viene affrontato in modo discorsivo attraverso una intervista. Viene messa in evidenza la necessità di un ascolto aperto e creativo della domanda dell’adolescente che spesso è imprevedibile e diversa da quella dei genitori. L’articolo sottolinea la necessità prioritaria di “creare contatto” attraverso un linguaggio personale, capace di mobilitare emozioni; tocca il tema della diagnosi, del rapporto con la famiglia e della costruzione sociale del concetto di crisi adolescenziale.


Abstract
THE FIRST INTERVIEW WITH ADOLESCENTS IN DISTRESS.
CONVERSATION WITH G.
The first interview with adolescents is presented in a conversational style through an interview. The need is emphasized for listening openly and creatively to the adolescent’s demand, often unpredictable and different from the parents’. The article stresses the priority of “making contact” through the use of a personal language that can elicit emotions. It addresses the issues of diagnosis of the relationship with the family and of the idea of adolescent’s crisis as a social artifact.


- Se sei pronta cominciamo.
- Cominciamo.

- La prima domanda non può che essere questa. Perché hai pensato a una conversazione per scrivere questo testo?
- Semplicemente perché sento l’esigenza di procedere in modo impressionistico e non formale. Conversare è diverso che pensare una scrittura. Mi sembra che questo modo di procedere sia più aderente alla materia che devo trattare.

- “Più aderente” in che senso?
- Molto più che con gli adulti, ogni primo colloquio con un adolescente rappresenta una incognita. È un percorso in larga parte imprevedibile. Spesso è necessario uscire dallo schema, abbandonare il filo che si ha in mente. È necessario dare fiducia alla intuizione e avere un ascolto aperto.

- Eppure il primo colloquio dovrebbe seguire una griglia precisa e dovrebbe anche avere la precisa funzione di informare. Vuoi dire che non segui una griglia predeterminata, che non hai una pista?
- La griglia c’è ed è anche rigorosa: ho una teoria di riferimento e anche delle regole per il primo colloquio, ma se davvero vuoi stabilire un contatto con un adolescente devi momentaneamente dimenticartene, lasciarla lavorare sullo sfondo e agire creativamente, essere lì, sentire quello che sta succedendo in quel preciso momento, con quella precisa persona che hai di fronte. Questo è, alla lettera, un atteggiamento clinico, che nel suo significato etimologico significa “al letto del paziente”. Vale anche per gli adulti, naturalmente, ma nel primo incontro con un adolescente, davvero, può succedere di tutto!

- Mi viene voglia di chiederti un esempio... una storia...
- Di esempi ne avrei molti. Mi viene subito in mente un ragazzo di diciassette anni con cui ho lavorato anni fa. La prima volta è arrivato mezz’ora prima dell’ora concordata; occhiali neri, bavero alzato... mi dice: «Io sono quello che aspettava per le cinque, posso entrare subito?». Di solito faccio aspettare l’ora giusta anche se sono libera... Ecco, per esempio, questo è una regola: rispettare l’orario fa parte del setting. In quel caso senza troppo riflettere gli dico: «Accomodati!». Perché l’ho fatto? Sul momento ho sentito che era giusto così e solo a posteriori ho avuto la conferma di uno stato d’allarme. Lui si siede. Non dice una parola. Tiene su il cappotto. Immobile. Silenzio. Di solito quando incontro un ragazzo o una ragazza per la prima volta, si fa una presentazione, c’è un rituale di saluto, una fase di precontatto che si dipana, come in tutti i rapporti umani, con una presentazione reciproca e qualche preliminare che permette di collegare la situazione presente a quello che è accaduto prima: la telefonata per fissare l’appuntamento oppure il colloquio preliminare con i genitori se sono stati loro a chiedere la consultazione... Questo è il rito. Poi si entra nel vivo della questione o perché loro iniziano a parlare o perché comincio di mia iniziativa a fare delle domande, partendo dai motivi espressi nella richiesta del colloquio. Per tornare a quel caso, qui c’è un silenzio particolare, sento che c’è un processo in atto e che quel silenzio non va interrotto. Non aspettavo che parlasse, non aspettavo niente. Stavo lì e basta... Ecco a che cosa mi riferisco quando dico che una griglia c’è, ma che poi bisogna agire creativamente.

- Sono curiosa di sapere in questo caso come è andata avanti la cosa.
- È stato così per tutta l’ora... non una parola e io non ero per niente preoccupata di dire qualcosa. Avevo la sensazione che non stesse in silenzio perché non ce la facesse a parlare, ma che quel silenzio fosse, per così dire, il suo discorso. Allo scadere del tempo mi dice: «Penserà che sono matto!». Gli dico: «Lo sei?». Lui: «No». Io: «Ti credo!». Lui: «Posso tornare presto?». Fissiamo un altro incontro di lì a tre giorni. Torna che è in uno stato diverso. Si siede e: «La ringrazio per non aver detto niente... non avrei sopportato!». E poi abbiamo proseguito il colloquio. Non entro nel merito di questa storia che non ho mai dimenticato per quanto profondo era il dolore di quel ragazzo... Mi viene in mente un altro caso. Ricevo una ragazza di sedici anni dopo una telefonata allarmata della madre che mi segnala che la figlia sta molto male. Descrive sommariamente i disturbi e dice anche che hanno parlato e che la ragazza è d’accordo per una psicoterapia. Le dico di farmi chiamare e che le fisserò un appuntamento al più presto. La vedo dopo una settimana circa. Ha il volto privo di espressione, entra decisa e prima ancora che io possa aprire bocca: «Sono venuta perché vorrei diventare neuropsichiatra e allora vorrei... mi hanno detto che per uno che vuol curare gli altri è bene fare l’esperienza dall’altra parte... naturalmente prima farò medicina... ma se poi non mi piace... ho pensato che è meglio che mi informi...». «Beh, le dico, io faccio la psicoterapeuta... in che modo hai pensato che io possa esserti d’aiuto?» E lei: «Io pensavo a degli incontri... pensavo di farle una specie di intervista... non voglio fare una psicoterapia, voglio soddisfare la mia curiosità... non voglio parlare dei miei problemi». Le chiedo: «Allora ci sono dei problemi?». «Sì sono stata male, ho rischiato di impazzire... ma adesso è tutto risolto.» Dico: «Bene, se è tutto risolto... e come hai fatto a risolvere un problema che ha rischiato di farti impazzire?». «Non ci penso, faccio finta che non esista... non voglio parlare di questo...» Qui la faccenda era piuttosto seria, ma il primo colloquio è andato così e si è concluso, dopo un breve negoziato, con l’accordo di quattro incontri. Io ho accettato l’intervista perché non sono riuscita a fare nessuna breccia nel suo discorso, ma, dato che “anch’io sono curiosa”, mi sono riservata la possibilità di farle a mia volta delle domande. Così ho cercato solamente di definire con lei quali erano gli argomenti della sua vita che avrei potuto toccare, con il suo permesso. Tornando al primo colloquio: ecco che cosa intendo quando dico che può succedere di tutto. Avrei molti altri esempi dello stesso tenore anche se, per fortuna, meno drammatici di questi.
- Prima dicevi che questa imprevedibilità si presenta più spesso con gli adolescenti che con gli adulti...
- Lo confermo. Anche se sofferenti, gli adulti sono più “addomesticati” e di solito il primo colloquio si sviluppa più facilmente secondo un certo protocollo. I contenuti cambiano di volta in volta, ogni persona è una singolarità, ma dal punto di vista del processo di contatto che si sviluppa nel primo o nei primi colloqui, con gli adulti c’è maggiore prevedibilità. Questa è la mia esperienza.

- Il primo colloquio con un adolescente si presenta, dunque, come un campo aperto. Di che cosa vai alla ricerca, che cosa deve succedere nel primo incontro?
- Deve succedere la cosa fondamentale: deve avvenire il contatto.

- Puoi dirmi qualcosa di più, farmi capire bene questo concetto?
- “Contatto” è un concetto centrale in psicoterapia della Gestalt e viene usato in un senso tecnico, anche se contatto è una parola di senso comune di cui tutti possono intendere il significato. In parole semplici, dobbiamo agganciarci, sentire, intuire che può esserci fiducia tra noi. Quando faccio lezione per spiegare il significato di “contatto” cito spesso Il piccolo principe e il suo incontro con la volpe, quando lui le chiede: «Che cosa vuol dire creare un legame?». Lei risponde che è una cosa da molto tempo dimenticata e per spiegare di che cosa si tratta dice: «Fino a ora eravamo come tanti altri... adesso cambia tutto: tu esisti per me e io esisto per te». Quando ci incontriamo usciamo dallo sfondo, smettiamo di essere solo parte del genere umano ed emergiamo l’uno per l’altro come soggetti particolari, unici, diventiamo “proprio noi” io e tu, per il semplice fatto di esserci incontrati e di avere bisogno l’uno dell’altro. In termini più tecnici fare contatto è creare un campo comune, emergere come figure e sintonizzarsi. Il contatto si fa se c’è questa convergenza e questa sintonizzazione. Bisogna volerlo in due se no non avviene. Non c’è contatto quando insegui qualcuno, quando c’è un gioco di potere. Ecco il tema del primo colloquio: esplorare la possibilità di costruire un legame. Il paradosso è che ciò può avvenire solo attraverso un contatto.

- Come dire che ci vuole un legame per costruire un legame!
- Vedo che ho reso l’idea!

- Tutto sommato, però questa idea del contatto mi sembra semplice, mi pare che lo facciamo tutti i giorni con molte persone... perché è un punto così delicato e, mi sembra, anche molto problematico nel primo colloquio?
- Torno al Piccolo principe: «Non è affatto semplice... bisogna essere molto pazienti», dice la volpe... e poi dice anche: «Ogni giorno ti potrai sedere un po’ più vicino... ci vogliono i riti». Tutti i contatti sono difficili quando passano la soglia della superficialità, del semplice fare conoscenza. Ci vuole rispetto e tempo. In particolare il contatto terapeutico e ogni contatto di aiuto è reso più difficile dalla intimità che richiede e dalla asimmetria che lo caratterizza. Parliamo di cose difficili e abbiamo compiti diversi, ci sono dei ruoli. In un colloquio clinico il rapporto non è simmetrico. Per gli adolescenti questo è un fatto molto difficile da accettare. Sanno che hanno bisogno di aiuto ma resistono. Vorrebbero essere capaci di togliersi dai pasticci da soli. Il rapporto con il terapeuta li fa precipitare in una condizione di dipendenza dalla quale rifuggono.

- Come succede che accettano, quando accettano... come si ottiene la loro fiducia?
- Prima di tutto con la lealtà. Essere leali vuol dire in questo caso giocare a carte scoperte, non barare su come stanno le cose. Le cose stanno così: tu sei più grande e loro sono più piccoli, il terapeuta non è né l’amico del cuore, né il confidente, né il confessore, né l’alleato, né il genitore buono che li comprende e li giustifica... tu non sei lì per dargli ragione, sei uno che li mette in questione, e potrà anche succedere che gli fai un po’ male. Questo è un gioco che non si può truccare. Questa è la prima lealtà. Poi, rompi anche ogni complicità con i genitori... e questo, di solito fa un po’ male ai genitori. Spesso il primo colloquio con un adolescente è preceduto da un contatto della famiglia. Il più delle volte è la madre che telefona o chiede addirittura di venire a parlare. Capita anche che non desideri che il figlio o la figlia sappia di questo incontro. So di deluderli quando rifiuto delle condizioni che loro pongono: ogni complicità può pregiudicare la possibilità di lavoro. Se i genitori sono venuti a parlare io ne parlo con il ragazzo anche se loro non lo hanno fatto. Dico che sono preoccupati per lui o per lei, ma che adesso che è qui, vorrei sentire che cosa ha da dire con le sue parole... E questo è un altro punto importante per il colloquio: esprimersi con parole proprie.

- Nel caso della ragazza che hai raccontato prima, la differenza era molto vistosa: c’erano due discorsi e due domande.
- Spesso è così. Ma quando dico “parole proprie”, non mi riferisco solo a questa eventuale differenza della domanda. Penso in senso stretto al linguaggio. Cerco di arrivare a un modo di parlare personale, intimo, cerco di uscire dal linguaggio costruito e generico.

- E questo è complicato?
- Lo è. Prima di essere un adolescente, quello che ti sta di fronte è una persona che vive in un contesto che gli fornisce il linguaggio con cui si esprime. I pensieri, le parole, i sentimenti sono sociali. Ogni rappresentazione è sociale, cioè costruita dentro relazioni che permettono di dare forma simbolica all’esperienza. Dobbiamo raggiungere qualcosa di sentito, non dobbiamo accontentarci di stereotipi. Questo riguarda anche noi terapeuti.

- Gli stereotipi non risparmiano nessun linguaggio, né quello quotidiano, né quello esperto che, se farcito di termini gergali, rende sempre più difficile quello che tu chiami contatto. Ma... parlavi dei terapeuti, in che senso ci riguarda?
- Per cominciare rifletterei sul termine stesso di “adolescenza”. Quando pensiamo a un adolescente tendiamo a dare già tutto per scontato. Questo termine, carico di tutto il nostro sapere, rischia di essere un’etichetta, un attributo che ci inchioda, che ci limita invece che farci comprendere, che chiude, invece che aprire. Ogni sapere a priori può costruire pre-giudizi che allontanano dall’esperienza. Ciò vale per noi e per i ragazzi. L’altro giorno in un colloquio, una signora mi dice «sa, mio figlio, nel bel mezzo di una litigata mi urla sbattendo la porta: ma insomma, mamma che cosa vuoi da me... lasciami in pace, io ho l’adolescenza!»

- Davvero divertente! Insomma, l’adolescenza è diventata una specie di malattia, una sindrome...
- Già. E sebbene l’adolescenza sia sempre esistita da quando c’è il mondo, è solo di recente che i ragazzi parlano di se stessi, si definiscono e si pensano come “adolescenti”. Noi non dicevamo: “sono adolescente”, questa parola non era ancora socialmente disponibile, pertanto la nostra esperienza era diversa. Può sembrare una banalità ma non lo è affatto... Anche se non era nostra intenzione, con tutta la produzione psicologica e sociologica sull’argomento abbiamo fornito ai ragazzi una parola, una autodefinizione così densa che riempie tutti i loro vuoti. Abbiamo fornito loro l’identità dell’essere in cerca di identità!

- Abbiamo riempito la loro “mancanza” con le nostre parole. È una specie di furto della loro esperienza.
- Esatto. Come ben sai, quando parliamo di qualunque cosa, e dunque anche quando parliamo di adolescenza, non descriviamo da fuori un fenomeno, non descriviamo le caratteristiche di un periodo particolare della vita ma, inevitabilmente creiamo cultura, contribuiamo a costruire ciò che descriviamo, la realtà stessa che stiamo osservando. Con ogni definizione disegniamo la forma dell’esperienza di cui parliamo. Lo facciamo anche per l’adolescenza: mettiamo in evidenza certe cose, ne escludiamo altre, ignoriamo cose che riteniamo non attinenti o laterali, definiamo ciò che è psichico e lo separiamo da ciò che è sociale. Distinguiamo ciò che è interno da ciò che è esterno. Mettiamo l’accento su rischi e scompensi, sull’isolamento, sulla confusione, sull’instabilità e parliamo poco della ricchezza di questo tempo, delle risorse e della creatività... costruiamo una idea di normalità e di patologia e tutta la nostra ricerca, macinata dai mass-media e ridotta in pillole di divulgazione scientifica, diventa sistema di autorappresentazione per gli adolescenti stessi che, definendosi tali, di fatto si danno una identità... Da un lato capiamo meglio la loro crisi, ma la loro crisi ora coincide con nostre aspettative. Ci sono dei genitori che sui nove dieci anni del figlio cominciano a leggere i libri per documentarsi e chiedono consultazioni preventive, per essere sicuri di non fare sbagli: muoversi in tempo per evitare la crisi! Tutti ormai si aspettano che un figlio a quattordici anni abbia una “crisi” e che ce l’abbia così, con quella forma... Ebbene ce l’ha e se la vive e se la racconta esattamente secondo protocollo, usando le parole che noi stessi gli abbiamo fornito.

- Facciamo un passo indietro, a quando hai detto che è necessario esprimersi con parole proprie... Intendi dire che esiste un modo per uscire da tutto questo?
- Mi viene in mente una ragazza che proprio durante il primo colloquio mi stordisce con una valanga di dettagli sulla sua crisi di identità. C’è qualcosa di innaturale nelle sue parole... sono studiate. Il problema non è tanto che “ha” le difficoltà che dice di avere, il problema, prima ancora, è che dice in quel modo le cose che le succedono! Non è in contatto con se stessa. Paradossalmente la sua grande introspezione sembra allontanarla sempre più da quello che vive veramente, dalle sue sensazioni, dal suo stesso corpo. Sembra che le parole che usa per parlare di sé non esprimano il suo stato ma lo determinino. Io mi sento a mia volta estraniata... irritata...

- E allora che cosa le dici?
- Be’, non ci crederai... Ti ricordi l’avvocato del film Philadelphia? «Bene, le dico, spiegamelo come se avessi sei anni». Lei rimane sorpresa, mi sorride ci pensa un attimo e dice: «Io ho paura di tutto!». E io: «Lo hai mai detto a qualcuno... insomma, qualcuno lo sa?». «Adesso lei lo sa!» Ecco, il contatto è fatto. Lei entra nei suoi panni e di lì mi vede, mi colloca come interlocutore. Mentre le sue parole prendono senso per lei e per me, io prendo senso per lei e per me. Il potere delle parole è enorme. Ricordo un’altra ragazza... quindici anni, problemi alimentari gravi. Ha letto tutti i libri sull’anoressia, ha sentito alla televisione che cosa succede e come si sta in questi casi e non parla di sé, recita un copione. Questo è già parte del problema... Insiste sul tema: «Non so chi sono veramente...». In un certo senso ha ragione... e dovrebbe bastarmi, ma avverto il vuoto di quelle parole non sue e le dico: «Ma tu, che persona vorresti diventare?». Questa ammutolisce, mi guarda fisso negli occhi, non esagero, forse per cinque minuti, poi mi dice: «Questa domanda non me la sono mai fatta, nessuno me l’ha mai fatta!».

- Sono curiosa di conoscere il seguito...
- Sul momento la cosa è finita lì perché era scaduto il tempo del colloquio. Nell’incontro successivo mi dice: «Ci ho pensato, sa?». «Ah si? E ti è venuto in mente qualcosa a riguardo?» «Certo, mi è venuto in mente che voglio diventare una persona giusta.» E comincia a raccontare, e nel raccontare fa degli esempi, si riferisce alle persone che la circondano, ne cita alcune come modelli possibili, dice cosa le piace e cosa no nelle persone, parla dei problemi che ha in famiglia, con la madre... Io l’ascolto, comincio finalmente a interessarmi a lei, voglio dire, ora mi sento davanti a una persona più vera... Mi dimentico che è una “adolescente”... non è più lì a contemplare il suo ombelico e a dire quanto i suoi genitori la stressano e quanto sono ingiusti i prof, non parla più da vittima del suo mondo... Sta diventando davvero interessante... Semplicemente, una parola nuova le permette di alzare la testa, guardare avanti e parlare con parole del suo cuore. Si è aperto uno spiraglio, si avverte una traccia di curiosità verso la vita e anche se non ha certezze né risposte, è come se in lei si fosse coagulato un centro che gira attorno al sentimento di potersi orientare secondo delle intenzioni...

- Vuoi dire che l’adolescenza sarebbe diversa se ne parlassimo diversamente?
- È un po’ paradossale, ma è così.

- Capisco perfettamente. Riflettere su questo paradosso è molto importante dal punto di vista epistemologico: come studiosi contribuiamo a costruire la realtà che osserviamo. Le nostre mappe non sono fotografie obiettive dell’esistente ma costruzioni; Bateson direbbe che poi finiamo per confondere le mappe con il territorio... Ciò detto, però, non abbiamo scampo, non possiamo non-parlare!
- Già non abbiamo scampo però dobbiamo restare consapevoli e critici e tirare le dovute conseguenze. Quando poi si tratta di tradurre le conoscenze in pratica clinica, dobbiamo restare in guardia altrimenti i ragazzi ci raccontano quello che vogliamo sentirci dire e noi ci sentiamo bene perché pensiamo di capirli. In fondo ci rassicurano usando il linguaggio che abbiamo loro fornito... So che in certe scuole gli psicologi vanno nelle classi e “spiegano” ai ragazzi che cosa è l’adolescenza... Lo trovo quanto meno discutibile!

- Certo è molto ambiguo... e forse serve più a noi adulti che a loro. A me sembra che siamo tutti molto smarriti, spaventati... noi adulti, intendo! Parliamo un po’ dei genitori. Che contatti hai con i genitori? Ti capita di fare dei primi colloqui con i genitori presenti?
- Può succedere che vengano insieme, genitori e ragazzo, e che vogliano parlare insieme, però è piuttosto raro, mentre succede spesso che chiedano un colloquio prima di mandare il figlio o la figlia. Spesso il primo colloquio avviene con loro o con uno di loro. Se chiedono di parlare, prima acconsento, specie se il figlio è minorenne. Di solito sono preoccupati, tesi, hanno bisogno di aiuto, non capiscono più che cosa sta succedendo, non ce la fanno anche se hanno tentato di farcela da soli, magari leggendo qualche libro consigliato dall’amico psicologo da cui in genere si sono fatti la convinzione che «molto, se non tutto, dipende dalla famiglia». I genitori ragionano perlopiù in termini di colpa. Se le cose non vanno, si sentono loro la causa e questo non vuol dire necessariamente che si mettono in causa. Sono mortificati, oppure si pongono fuori dai giochi, come osservatori... Sono arrabbiati. Non vorrebbero essere lì. Sono rassegnati...

- Come si svolge un colloquio con i genitori?
- A volte si preparano all’incontro e hanno turni di parola preordinati «Parla tu!». «Hai detto che parlavi tu.» «Ho cambiato idea... tu lo conosci meglio dopo tutto!» «Come sarebbe lo conosco meglio!» «Tu sei sempre a casa!» «Perché non dici piuttosto che tu non ci sei mai?... Non è certo colpa mia se sono a casa...» Spesso il clima è teso e fin da subito si aprono brecce sulle controversie della coppia. C’è del dolore nell’aria. È bene che ci sia del dolore, che circoli qualche forma di sentire. Parlare del figlio di fronte a qualcuno è un’occasione che si presta a esplorare un malessere più largo, è una occasione per prendere coscienza di qualcosa. Avere un figlio adolescente vuol dire per un genitore avere almeno quindici anni di matrimonio o di convivenza, vuol dire avere all’incirca quarant’anni, vuol dire stare facendo i conti con la propria storia, con la propria riuscita. Non è tanto un problema di cause, o non ancora e non sempre. Il fatto è che l’adolescenza dei figli è di certo un nodo, uno svincolo esistenziale anche per gli adulti di cui i ragazzi non sono che i catalizzatori. L’adolescenza di un figlio cade per necessità biografiche sul tempo del bilancio di vita. Mentre un figlio sbanda, l’adulto si interpella sul proprio cambiamento, sulla propria identità, sulla vita che sognava, sull’amore, sul tempo che passa. Difficile distinguere effetto e causa del malessere. Spesso la crisi dei ragazzi viene usata come paravento per evitare di prendere in considerazione la propria vita... A volte, entrambi o uno solo dei due genitori intraprende un percorso di terapia personale. A volte, e per lo più, hanno fretta di rimettere le cose a posto, hanno bisogno di essere rassicurati che questo periodo difficile, questa età ingrata passerà naturalmente... che però, se si può fare qualcosa...

- Che cosa chiedono i genitori?
- Spesso c’è una domanda di normalizzazione. Quando chiedo che cosa c’è che non va, le risposte sono che non studia più, che va male a scuola, che è aggressivo o che torna tardi e non vuole dire dove va, che hanno scoperto che beve, che fuma, che non rispetta nessuna regola, protesta, sbatte le porte, che sta tutto il giorno chiuso in camera e non vuole che si entri, che non mangia più, che ha alzato le mani su di loro... che li maltratta e non riescono più a imporsi, a dare delle regole... Le domande riguardano perlopiù i comportamenti. Il rapporto con i genitori è molto delicato quando si escludono dal gioco, quando non hanno una domanda personale o non si mettono in questione perché non si può rispondere semplicemente: «Va bene, mandatelo», sottintendendo: «Che ci penso io...». In un modo o nell’altro la famiglia va considerata, ma non banalmente in termini di colpa. La famiglia va tenuta presente in termini di campo relazionale in cui i problemi si manifestano. Gli adolescenti, per il salto di sensibilità che vivono, diventano delle antenne, dei recettori di campo: avvertono ciò che succede in famiglia ed è anche possibile che assumano su di sé il problema di un adulto o le tensione della coppia. Questi legami sono molto difficili da sciogliere e allora la crescita non può avvenire se non si riesce a bonificare il sistema.
- D’altra parte se i genitori non chiedono niente per sé, è anche difficile implicarli!
- I genitori vanno rispettati così come sono. La cosa più difficile è non essere giudicanti. Un mio maestro diceva: «Comunque siano, sono i migliori genitori al mondo di quel figlio lì!». Mi sono sempre ricordata queste parole e ne ho fatto una regola morale e psicologica. Non giudicarli non vuol dire essere neutrali o non vedere le cose, che a volte sono anche molto gravi. Ricordo un ragazzo che incontrai dopo il colloquio con la madre. Lei lamenta le solite questioni: aggressività, problemi con la scuola... Una crisi evolutiva in piena regola! Poi incontro lui. È immerso in una grande tristezza e mi racconta che la madre beve, che a casa non trova da mangiare e che la sera lui la raccoglie e la mette a letto. Lei è depressa da quando si è separata e lui, è vero, a scuola è un disastro, è arrabbiato e si è chiuso in se stesso. È in pena per lei. Il padre se ne disinteressa. È l’adulto di casa. Non può crescere, non può occuparsi della sua vita, non può fare il distacco. Per “separarsi” dalla famiglia i ragazzi devono sentire che gli adulti sono in buono stato, che sopravviveranno.

- E in un caso come questo, come ti sei regolata?
- È difficile fare la mossa giusta quando le cose stanno così, come in questo caso; ci penso: cerco il padre? Richiamo la madre? Le dico di curarsi? Perché non mi ha detto che era alcolista? Forse mi consegna il figlio per salvarlo da se stessa... Esploro un po’ la situazione, nessuno risponde. Lui, il figlio, è l’unico a volere, forse a potere far qualcosa... Allora: «Bene, ragazzo» gli dico, «dovrai farcela con una madre che beve!». Abbiamo lavorato duramente e dopo un anno ho saputo che la madre si è rivolta agli alcolisti anonimi e che ha cominciato a farsi curare... dopo quel primo colloquio non avevo avuto mai più contatti con lei.

- Mi ha molto colpito quello che hai detto e sentirei l’esigenza di approfondire ancora questo punto... Ma torniamo agli stereotipi e alle voci che circolano. Degli adolescenti si dice che sono utenti o pazienti inaffidabili e che spesso dopo poco spariscono. È vero? Tieni conto di questa eventualità nel primo colloquio?
- È vero. Li incontri, poi dicono che vogliono pensarci su e li rivedi dopo un anno oppure fissano il secondo incontro e non si presentano. Altre volte vengono per un po’ poi dicono che tutto sta andando meglio, che i problemi sono risolti e che vogliono farcela da soli. È un dato fisiologico. Per questo il primo colloquio è molto importante... perché potrebbe anche essere l’unico!

- Dunque non si tratta di uno stereotipo, ma, come tu dici, di un dato fisiologico che li caratterizza. Dunque, non parlerei di inaffidabilità. Comunque, questo dato di certo rende difficile fare un contratto di terapia...
- Ritorno sul tema dell’intuizione, del saper annusare la situazione anche se a volte gli adolescenti ti spiazzano con le loro improvvise decisioni. Io tendo a fare contratti a breve temine concordando un periodo di lavoro rinnovabile. Questo li rassicura molto. Hanno bisogno di non sentirsi vincolati, di controllare la situazione. Paradossalmente, quanto più il problema è grave, come nei casi di anoressia, di depressione, di eventi traumatici, tanto più è difficile per loro reggere la durata. Può essere indicato proporre delle interruzioni e poi rivedersi per proseguire... Una delle questioni che pongono quasi sempre nel primo colloquio riguarda la durata della cura... anche se raramente la chiamano cura. Preferiscono parlare genericamente di incontri, di colloqui.

- Immagino che sia difficile trattare un problema grave sapendo che ogni incontro può essere l’ultimo.
- Questo tocca due punti. Uno riguarda gli strumenti a disposizione, il modo come si lavora. Con l’esperienza del centralino telefonico Prontogiovani, che abbiamo realizzato anni fa per il Comune di Milano, abbiamo messo a punto una metodologia che ci permetteva di fare un buon lavoro nel tempo di una telefonata. Naturalmente più il tempo è breve, più difficile è l’intervento e più rigorosa deve essere la conversazione. Il secondo punto riguarda la frustrazione di noi terapeuti. Dobbiamo elaborare il nostro senso di onnipotenza e fare i conti con il possibile. Non conta solo quanto lavoriamo, ma come. Non è importante solo quante cose ci diciamo ma tutto diventa importante: come ci mettiamo in relazione e che cosa facciamo succedere subito tra noi... il fatto di presentarsi come persone reali, anche con i nostri limiti. Questo è molto importante. Possono succedere cose importanti o utili anche in un’ora.

- Il primo colloquio può avere una finalità diagnostica?
- Fare una diagnosi è un obiettivo ma non può avvenire in modo rigido e spesso non si esaurisce nel primo o in qualche colloquio. Direi che una serie di incontri iniziali ha lo scopo di farsi un’idea del profilo del problema e in particolare di capire se siamo in presenza di un disagio evolutivo o se la situazione presenta una certa criticità. Ci sono dei segnali. Ormai li conosciamo, c’è una vasta letteratura sull’argomento. Il modo per definire il crinale è di fare attenzione da un lato ai segnali allarmanti e dall’altro, verificare la presenza delle risorse. La presenza di risorse per crescere la possiamo leggere direttamente nel comportamento: il rispetto del setting, l’uso del linguaggio, la capacità di nominare le emozioni, il modo di fare riferimento al corpo, alle sensazioni che si provano, l’organizzazione della vita personale che spesso si rispecchia nella parola e nella capacità di articolare il proprio discorso, di porre domande, di ascoltare oltre che nel modo di parlare di sé. Anche il rapporto con la propria biografia è importante, benché gli adolescenti non amino parlare del passato...

- E quali sono invece i segnali della crisi?
- Per quanto riguarda i segnali di breakdown evolutivo, li ricaviamo dalla narrazione, proponendo una intervista allo scopo di fare conoscenza... ma non tutto in una volta. È un lavoro progressivo... tutta la terapia è anche un continuo processo diagnostico. I campanelli di allarme sono per esempio i tentativi di suicidio, l’uso di droghe pesanti, di alcool, gli abbandoni scolastici apparentemente immotivati, la violenza agita su cose, animali o persone, l’isolamento protratto, i disturbi psicosomatici, i comportamenti sessuali a rischio, i problemi alimentari, le crisi di panico... Questi sono segnali, per l’appunto... poi ci orientiamo a indagare il dolore sottostante... L’atteggiamento è fenomenologico... come diceva Perls: «pelare la cipolla»... andare in profondità partendo sempre da quello che si vede. È importante arrivare all’assetto che regge il sintomo, alla natura della sofferenza. Queste cose vengono fuori strada facendo, a mano a mano che l’adolescente si fida. Non ci vuole fretta.

- Ti succede di avere delle informazioni dai genitori ma che poi, in seguito, l’adolescente non parli di queste difficoltà?
- Se ci sono questioni gravi rivelate dai genitori, credo sia meglio scoprire subito il gioco. Torno al tema della fiducia di cui parlavo prima. Se vedo dei genitori angosciati da un tentativo di suicidio, non posso ricevere il ragazzo o la ragazza al primo colloquio facendo finta di non saperlo, simulando poi la sorpresa quando lui deciderà di parlarne o stando sulle spine perché non ha nessuna intenzione di farlo. Le persone sensibili e sofferenti hanno spesso la facoltà di connettersi molto profondamente nel campo dei pensieri circolanti. Un ragazzo che sta male sa che cosa so di lui; io preferisco correre il rischio di parlare. Dopo i saluti e le presentazioni, dico: «Ho visto i tuoi genitori e mi hanno detto che hai cercato di farti fuori. Vuoi raccontarmi tu come sono andate le cose?». Il più delle volte sono sollevati dal fatto di non dover essere loro ad aprire l’argomento; in ogni caso è un gesto di lealtà. Lo apprezzano, smettono di essere sospettosi. Con questo non voglio proporre una regola. È una questione di sensibilità personale.
- Come regoli la questione del denaro? I ragazzi, immagino, non possono pagare il colloquio e le sedute. A loro, che cosa costa venire in terapia? Che tipo di responsabilità si prendono?
- La questione del denaro è uno dei temi del primo colloquio. Nei servizi pubblici i colloqui sono apparentemente gratuiti, cioè sono pagati dai cittadini, nel privato la famiglia deve impegnarsi a sostenere il costo della terapia. Dico ai ragazzi quanto costa la seduta. Chiedo anche se hanno delle disponibilità personali e se possono pagare una parte con il loro denaro. Nel caso in cui non possano farlo, a volte chiedo un pagamento simbolico che concordo con loro. Una ragazza che sto seguendo ora, per esempio, a ogni seduta mi porta un breve testo che scrive durante la settimana. Mette la data, lo firma e me lo consegna staccando il foglietto dal suo bloc notes come se fosse un assegno, altri portano dei disegni o scrivono dei sogni... diventa una cosa molto creativa, utile per la terapia. Per loro è un impegno che li responsabilizza materialmente e che contribuisce a dare il senso del lavoro a quello che stiamo facendo. Anche questa, però, non è una regola fissa. In ogni caso credo che sia bene non rimuovere questo aspetto della relazione.

- La nostra conversazione sta per terminare... C’è una domanda che non ti ho fatto?
- Qualche tempo fa ho fatto il primo colloquio con una ragazzina di quindici anni. Si siede, si guarda intorno e mi dice: «Questa stanza non è male... Lei, perché fa questo lavoro con i ragazzi?»... Forse è questa la domanda che manca.

- Allora: perché lavori con gli adolescenti?
- Ecco... io ero lì con il mio blocchetto in mano, pronta a fare domande, a prendere appunti, a dispormi all’ascolto centrandomi nel mio ruolo di adulta responsabile e in un attimo lei prende in mano la situazione e mi chiama da un’altra parte, mi obbliga a fare un salto... non posso risponderle una banalità come per esempio “perché mi piace” o cose simili... La verità è che non so cosa dire... però subito lei mi interessa e io devo interessarmi a me per poterle rispondere una cosa vera, che abbia senso... Le dico: «Ecco, io sono qui pronta a farti delle domande, a conoscerti e tu arrivi e rompi il gioco, mi fai tu delle domande... e io non so che cosa rispondere... dovrei pensarci un po’. È interessante la tua domanda e anche quello che sta succedendo!... Forse lavoro con gli adolescenti proprio perché rompono!». Abbiamo riso insieme. La sua pelle resa trasparente dal digiuno per un attimo ha preso luce. Della sua anoressia abbiamo parlato nel secondo colloquio.


Bibliografia

AMMANITI M. (a cura di), Manuale di psicopatologia dell’adolescente, Cortina, Milano 2002.
FABBRINI A., MELUCCI A., Prontogiovani. Centralino di aiuto per adolescenti. Cronaca di un’esperienza, Guerini, Milano 1993.
FABBRINI A., MELUCCI A., L’età dell’oro. Adolescenti tra sogno ed esperienza, Feltrinelli, Milano 2000.
MC CONVILLE M., Approche de l’adolescence par la gestalt-thérapie, in «Gestalt», n. 4, 1993.
MC CONVILLE M., Adolescence. Psychotherapy and the Emergent Self. Gestalt Institute of Cliveland Publication, Jossey-Bass Publishers, San Francisco 1995.
PIETROPOLLI CHARMET G., I nuovi adolescenti, Cortina, Milano 2000.


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