PSYCHOMEDIA --> HOME PAGE
C.P.A.T. --> HOME PAGE --> N. 39/2003

QUADERNI DI PSICOLOGIA,
ANALISI TRANSAZIONALE
E SCIENZE UMANE

Dal n° 39 - 2003


Il nomade provvisorio




Con amore aneli alla luce di primavera, al suo sole,
per riscaldarti cerchi la giovinezza del mondo...
(F. Hoelderlin, A Diotima)

«L’Analisi Transazionale» scriveva Berne in Principi di terapia di gruppo «è una forma di trattamento attiva, mentre la Psicoanalisi è in misura maggiore una forma contemplativa.»
Davvero in difficoltà, questa forma più contemplativa, a occuparsi delle perturbazioni atmosferiche della Terra del Fuoco. Ma neppure la formulazione che riporterò qui di seguito, con l’accento sulla “disciplinata consapevolezza”, sembra rispondere alle velocissime variazioni umorali dell’adolescente.

L’Analisi Transazionale cerca di ricreare nel paziente quella chiara consapevolezza e quella candida capacità di intimità dell’infanzia, quali si hanno per esempio nei primi rapporti tra il bambino e sua madre. Il paziente impara a esercitare un insight e un controllo Adulti di modo che queste qualità infantili emergano solo nei momenti opportuni, e nella compagnia appropriata. Insieme a queste esperienze di disciplinata consapevolezza e disciplinati rapporti sopravviene una disciplinata creatività.
(Ibidem)

Occorrono invece una particolare sensibilità emotiva, non troppo disciplinata, e una bella curiosità per poter vivere nelle variazioni “climatiche” offerte da un adolescente.
Da questo punto di vista Berne è rassicurante: «Coloro che non si spaventano di sapere anche quando non capiscono come facciano a sapere, ottengono dei buoni risultati, mentre chi si spaventa della conoscenza senza insight, non ottiene granché.»
«È camminando che si fa il cammino» direbbe Machado. «Al andar se hace el camino, se hace el camino al andar» (cit. in Sepulveda, 1995)
Berne ci fornisce anche un preciso elenco delle caratteristiche che dovrebbero accompagnare il mestiere di terapeuta.
Pensate per il terapeuta di gruppo, esse si adattano di fatto a ogni relazione di cura, e specificamente, mi pare, al lavoro con gli adolescenti, sempre diverso e, per certi versi, di frontiera.
Berne considera che, se il terapeuta conduce i suoi incontri così come li conduceva l’anno prima, significa che nel frattempo “non ha imparato un bel nulla”, ed è semplicemente un tecnico (condizione notoriamente mal tollerata dai ragazzi). Potrà dunque fissarsi come obiettivo quello di imparare qualcosa di nuovo ogni settimana, non qualcosa di nuovo dai libri, non qualche ipotesi interpretativa, quanto piuttosto qualche nuova verità generale che accresca la sua percettività. Dovrà essere fresco, e scacciare dalla propria mente tutto ciò che ha imparato sulla psichiatria e sulla psicoterapia, come se entrasse in un mondo che non ha mai conosciuto.
Cosa assolutamente reale per ciascun adolescente.
Soprattutto, il terapeuta deve saper riconoscere le varie possibilità di far del male ai propri pazienti ferendoli, portandoli fuori strada (il che è particolarmente scorretto e malvagio nei confronti dei giovani), schiudendo delle aree patologiche senza adeguata preparazione oppure perdendoli in modo tale che successivamente essi non saranno in grado di avvalersi dei servizi di altri terapeuti.
Senza attese miracolistiche, ma con piena fiducia, il terapeuta dovrebbe invece, in primo luogo, individuare le aree sane nella personalità di ciascun paziente, in modo da sostenerle e rafforzare il loro potenziale.
Questo è necessario per tutti: indispensabile e ineludibile con un adolescente che molto teme per sé e davvero poco si conosce, proprio perché è adolescente.
Ma la domanda chiave, alla quale ogni terapeuta dovrebbe rispondere, è: “Perché sono seduto qui in questa stanza?”, e “Perché lui, questo adolescente, sta qui in questa stanza?”.
Due domande molto sensate, da formularsi di seguito come vicini sono i due interlocutori nella stanza delle parole.
Ma vicini come?

Tante volte vado dalla dottoressa per descriverle i miei sintomi gravi. Lì, davanti a quella scrivania, seduta su una sedia, una donna che sembra ti voglia accusare di chissà quale reato. Mi fa questa impressione perché, quando stai lì a descrivere il tuo solito mal di pancia e la solita brutta voglia, non fa altro che ridere e dire: eh, è tutto un problema di ormoni, è la crescita, non ti devi preoccupare... Sorrido, saluto, esco. Ed eccomi lì a contorcermi, pensando che non è una vera dottoressa, che non capisce niente degli adolescenti, che non capisce che sono malata e non è una cosa da poco.
(Lettera a U. Galimberti, in «La Repubblica», Inserto Donna, 18 aprile 2000)

Forse la dottoressa ha dimenticato quanto (anche) fa male crescere, e la sofferenza non è mai cosa da poco. È vero che gli adulti scordano che

l’adolescenza non è solo una stagione della vita, ma una modalità ricorsiva della psiche dove i tratti dell’incertezza, l’ansia per il futuro, l’irruzione delle istanze pulsionali, il bisogno di rassicurazione e insieme di libertà si danno talvolta convegno per celebrare, in una stagione, tutte le possibili espressioni in cui può cadenzarsi la vita.
(Risposta di U. Galimberti, Ibidem).

Torna in mente Sylvia Plath, la poetessa statunitense, e il suo unico bellissimo romanzo La campana di vetro:

Il dottor Gordon giocherellava con una matita d’argento.
«Sua madre mi dice che lei è sconvolta.»
Mi raggomitolai nella poltrona di pelle che mi sembrava una caverna, guardai in faccia il dottor Gordon attraverso un chilometro di pulitissima scrivania. Egli attese. Batteva la matita – toc toc toc – sul tampone verde e pulito della cartasciugante. Le sue ciglia erano così lunghe e folte da sembrare finte: giunchi di plastica nera che orlavano come frange due verdi e gelidi stagni. I lineamenti erano tanto perfetti da essere quasi belli. Lo odiai nell’attimo in cui passai la soglia del suo studio. Mi ero immaginata di essere ricevuta da un uomo gentile, brutto, ma dallo sguardo comprensivo e che guardando in su mi avrebbe detto: «Ah!» in modo incoraggiante come se fosse capace di vedere qualcosa che io non ero assolutamente in grado di afferrare: allora sì che avrei trovato le parole per dirgli quanto fossi atterrita, e come sentivo ogni giorno di essere ricacciata sempre più in fondo a un abisso nero e senz’aria, senza nessuna via di scampo.
Poi egli si sarebbe appoggiato allo schienale della poltrona congiungendo assieme le punte delle dita in una piccola guglia e mi avrebbe spiegato perché non riuscivo più a dormire a leggere e a mangiare e perché tutte le azioni degli altri mi sembravano tanto stupide e inutili dato che alla fine tutti sarebbero comunque morti. E poi, pensavo, mi avrebbe aiutato passo per passo a ritrovare me stessa.
Ma il dottor Gordon non era così. Era giovane e di bell’aspetto, e mi accorsi subito che era un presuntuoso.
Sullo scrittoio c’era una fotografia in un cornice d’argento collocata per metà verso di lui e per metà verso la mia poltrona di pelle. Era una fotografia di famiglia: una donna bella e dai capelli scuri, che avrebbe anche potuto essere la sorella del dottore, sorrideva tra le teste di due bambini biondi.
Uno dei bambini, credo, era un maschietto e l’altro una femminuccia, ma forse erano tutti e due maschi oppure tutte e due femmine. È difficile capirlo quando i bambini sono tanto piccini.
Ci doveva essere anche un cane nella fotografia, verso il basso, una specie di airedale o un cane da presa focato – ma forse era solo un disegno sulla gonna della signora. Non so perché, la fotografia mi rese furibonda. Non capivo perché dovesse essere voltata a mezzo verso di me a meno che il dottor Gordon non cercasse di farmi sapere subito che era sposato con una splendida donna ed era bene quindi che non mi facessi illusioni.
Poi pensai: possibile che questo dottore mi possa in qualche modo aiutare, lui, che ha una bellissima moglie e due bellissimi bambini e un bellissimo cane, che lo cingono di un’aureola come gli angeli di una cartolina natalizia?
«Vuole tentare di dirmi che cosa non va secondo lei?»
Rivoltai con sospetto le parole, come sassolini rotondi e levigati dal mare, ma che potevano di punto in bianco cacciare fuori una chela e mutarsi in qualcosa d’altro. Che cosa non andava SECONDO ME?
Allora in realtà, secondo lui, tutto andava bene ed ero solo io a pensare che le cose NON andassero.

Torna in mente anche Anne-Sophie Brasme, autrice a diciannove anni di La mia migliore amica, titolo innocuo che ricorda gli antichi compiti in classe ed è invece la narrazione cruda di una adolescente che ripercorre, in carcere, le ragioni della sua giovane vita offesa e tormentata:

Imploravo che mi considerassero semplicemente una figlia, questo poteva bastare ... A quel punto i miei genitori si sono preoccupati. Un giorno, mi sono ritrovata davanti alla macabra scrivania di uno psicologo. Rivedo la stanza immersa nella penombra, io sola davanti a quest’uomo inaccessibile che mi guardava dall’alto e che sfidavo a mia volta con lo sguardo. Nel corso di due o tre sedute, mi ha fatto qualche domanda stupida alla quale ho risposto freddamente. Alla fine ha concluso che non avevo che una crisi passeggera e che non c’era motivo di allarmarsi. Se avesse saputo quel che mi aspettava meno di dieci anni dopo, certo non sarebbe stato così rassicurante.

I grandi sembrano non conservare memoria di quel tempo del mondo alla fine del mondo, quando le parole o sono infinite per cercare di descrivere tutto o sono nessuna perché “tanto non servono per spiegarsi” se l’altro, il dottore, sta seduto (o barricato?) dietro la scrivania.
Dimenticano, i grandi, che io, adolescente, sono

testimone disperato delle mie metamorfosi,
senza poter appropriarmi dell’essere che fui...
(Yourcenar, 1986)

Il terapeuta, talvolta, si esprime come certe mamme, sfoggia banalità e luoghi comuni, è falsamente rassicurante, tacita la sua ansia, resiste goffamente al vento della Patagonia.

Di fronte agli adolescenti noi adulti siamo ansiosi. Essi ci testimoniano tutto il possibile che in noi non è divenuto reale. Di fronte a noi l’adolescente racconta già la nostra morte, la sequenza, neppure tanto sepolta nella nostra memoria, di tutti i nostri NO alla vita. Gesti che non sono diventati stili di vita, azioni che si sono esaurite nei gesti, progetti che si sono dileguati tra i sogni, passioni di un giorno cancellate da una notte, incertezza di un corpo che si faceva e disfaceva a seconda delle ore del giorno, infedeltà ai modelli che si assumevano per darsi un contegno, trasgressioni...
(U. Galimberti, in «La Repubblica», Inserto Donna, 18 aprile 2000)

La Patagonia non perdona.
Scrive Hudson:

A giudicare dal mio caso personale, credo che qui stia il segreto del perdurare delle immagini patagoniche e del loro continuo tornare alla mente di molti che hanno visitato quella regione grigia ... Non è effetto dell’ignoto, non è la fantasia; è che in questo scenario desolato la natura ... ci commuove più profondamente che altrove ... Un giorno, mentre ascoltavo il silenzio, mi venne da chiedermi quale sarebbe stato l’effetto se avessi lanciato un grido. L’idea mi parve, allora, un’orribile fantasticheria, un pensiero illecito e confuso che mi fece quasi rabbrividire, e volli subito scacciarlo dalla mente.
Nell’inconsueto stato mentale in cui mi trovavo, pensare era diventato impossibile. La mia mente si era d’improvviso trasformata da macchina pensante in macchina per un diverso e ignoto scopo. Pensare era come avviare nel mio cervello un motore rumoroso; vi era qualcosa lì, che mi ordinava di rimanere immobile, ed io ero costretto a obbedire.
Era uno stato di sospensione e di vigilanza.
(W.H. Hudson, Idle Days in Patagonia, London, 1893, cit. in Chatwin, Theroux, 1991)

Anche questo vuol dire essere adolescenti.


PSYCHOMEDIA --> HOME PAGE
C.P.A.T. --> HOME PAGE --> N. 39/2003