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QUADERNI DI PSICOLOGIA,
ANALISI TRANSAZIONALE
E SCIENZE UMANE

Dal n° 39 - 2003


Anatomia dell'irrequietezza



Il miele inalterabile al fondo di ogni cosa
è fatto dei nostri dolori, dei nostri desideri,
dei nostri rimorsi...
(M. Yourcenar, I doni di Alcippe)

Un pomeriggio dei primi anni Settanta, a Parigi, andai a fare visita a Eileen Gray, architetto e designer, che a novantatré anni lavorava come niente fosse quattordici ore al giorno. Abitava in Rue Bonaparte, e nel suo salotto era appesa una carta della Patagonia, da lei dipinta a tempera.
«Ho sempre desiderato andarci» dissi.
«Anch’io» fece lei. «Ci vada per me.»
Andai.
Sono andato in Patagonia.
(Chatwin, 1996)

Patagonia: terra del fumo, Terra del Fuoco.
«Perché queste aride terre si impossessano della mia mente?» si chiedeva Darwin.
«Non c’è niente in Patagonia» affermava Borges.
Eppure patagonico è usato da Melville in Moby Dick per indicare l’esotico, il “mostruoso” che esercita un richiamo fatale (Chatwin-Theroux, Ritorno in Patagonia, Adelphi, 1991).
La Patagonia inizia a Puerto Montt, mille chilometri sotto Santiago, dove finisce la Carretera Panamericana e si interrompe la ferrovia. Qui termina il “continente” e il Cile sprofonda sotto il livello del mare, trasformandosi in un labirinto di fiordi e canali imprigionati tra montagne ricoperte di vegetazione lussureggiante.
Barriere di ghiaccio, piscine termali, foreste pietrificate, lagune, canali, colori intensissimi, orizzonti azzurri, terre piatte, Cerro Torre, vento, gente con l’anima in fuga, silenzi, bizzarria, luccichio di polvere d’oro, musica, il mondo alla fine del mondo o all’alba del mondo: l’adolescenza.
Ogni adolescente è a suo modo la Patagonia: un po’ sopra e un po’ sotto il livello del mare. Una terra dai mille volti.

In Patagonia, nell’arco di una qualsiasi giornata, il viaggiatore può aspettarsi di incontrare un gallese, un gentiluomo di campagna inglese, un figlio dei fiori di San Francisco, un nazionalista montenegrino, un africander, un missionario persiano della religione Bahai, o l’arcidiacono anglicano di Buenos Aires nel suo giro di battesimi.
(Chatwin, Theroux, 1991)

Il terapeuta di adolescenti attraversa più e più volte la Patagonia, si avvicina ai mille personaggi che l’adolescente vive, chi è, chi era, chi vorrebbe essere, chi forse sarà.
Potrebbe davvero tenere in studio una carta della Patagonia, a suo conforto.
Si avvicina ai nativi perché, come dice Sepulveda, «li considera suoi simili, compagni del suo stesso altrove».

Fu mio zio Pepe a regalarmi Moby Dick – ricorda Sepulveda –. Avevo quattordici anni quando lo lessi e da allora il richiamo dei grandi mari si fece fortissimo. Sapevo che sulle coste preantartiche del Cile gettavano l’ancora piccole flotte di navi baleniere e volevo a tutti i costi andarci, per vivere fra gli eredi del capitano Achab. I miei non volevano saperne di darmi il permesso, ma fu lo zio Pepe a convincerli a pagarmi il biglietto del treno fino a Puerto Montt. Così approfittai delle vacanze estive, che in Cile duravano da metà dicembre a metà marzo, e partii. Sempre grazie allo zio Pepe, mi accettarono nell’equipaggio di un battello che teneva i collegamenti con Punta Arenas e mi imbarcai.
Avevo sedici anni. Da allora quelle coste frastagliate, quel cielo lattiginoso, quelle distese infinite sono diventati parte di me stesso. La Patagonia mi manca, anche se è difficile capirlo: laggiù non c’è nulla, eppure quei luoghi mi legano, mi incatenano terribilmente. È difficile da spiegare: quella sensazione di libertà che ti danno i grandi spazi aperti, il sapere che se ti muovi in qualunque direzione non ti mancherà mai la terra sotto i piedi... Una volta ho visto un film western in cui c’erano dei pionieri che andavano verso ovest: quando il West finiva, finiva anche il loro sogno. In Patagonia, invece, non so perché, hai la sensazione che lo spazio non finisca mai.
Non c’è nessun’altra regione del mondo in cui sento che la mia immaginazione vola così alto.
(Sepulveda, 2002)

Non c’è nessun’altra terapia, nessun altro incontro dove si viva la sensazione che lo spazio non finisca mai, nessuna altra regione dello spirito dove la nostra immaginazione voli naturalmente così alto, seguendo un “vaporoso errabondare”, its own vaporous wayfarings, come dice Sylvia Plath (2002).

La Patagonia prometteva un clima diverso, un cambiamento di umore e la possibilità di girovagare in tutta libertà. È lo stato d’animo migliore per iniziare un viaggio. Ero pieno di slancio; solo più tardi, nei viaggi, si capisce che le distanze più grandi ispirano le più grandi illusioni.
(Chatwin, Theroux, 1991)

Una delle più grandi illusioni psicoterapeutiche è considerare l’incontro con l’adolescente un incontro “come gli altri”.
Esso è, non di rado, accecante.


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