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C.P.A.T. --> HOME PAGE --> N. 38/2003

QUADERNI DI PSICOLOGIA,
ANALISI TRANSAZIONALE
E SCIENZE UMANE

Dal n° 38 - 2003


Vicinanza terapeutica in analisi transazionale: La verità dell'amore o l'amore per la verità (1)

William F. Cornell e Frances Bonds-White (2)

Traduzione di Claudia Chiaperotti



Riassunto
Berne era scettico ed alquanto critico nei confronti di quelle forme di terapia che incoraggiano il sentimento a scapito del pensiero e parlava di giochi “della serra” (“Greenhouse” games: Berne, 1964) in cui i pazienti finiscono per sovrastimare e spesso idealizzare il sentimento rispetto al pensiero. Nell’ultimo decennio, invece, l’Analisi Transazionale sembra evolvere in un diverso genere di “serra,” dove c’è enfasi sul calore, i rapporti sono idealizzati, le strategie cliniche si basano sull’attaccamento e sull’empatia. Ai tempi in cui gli Autori facevano la loro formazione, negli anni ’70, si riteneva che i terapeuti transazionali dovessero “confrontare” i pazienti per avviarli alla guarigione. Ora sembra invece che si debbano guarire i pazienti con l’attaccamento, l’empatia, cercando di entrare in sintonia. Eppure, il trattamento di gruppo di Berne non era un ambiente che offrisse un abbraccio empatico; era piuttosto matrice di studio interpersonale. L’articolo offre un’analisi critica delle applicazioni cliniche delle teorie dell’attaccamento, della sintonizzazione (attunement) e dell’empatia nell’ambito dell’Analisi Transazionale e dei modelli clinici di relatedness (= vicinanza) terapeutica; presenta inoltre un modello clinico di spazio terapeutico che offre a paziente e terapeuta un ambiente dove possono trovano spazio la curiosità, l’incertezza e il conflitto.

Abstract
THERAPEUTIC RELATEDNESS IN TRANSACTIONAL ANALYSIS: THE TRUTH OF LOVE OR THE LOVE OF TRUTH.
Berne was quite critical and skeptical of those forms of therapy that encouraged feeling over thinking, referring to “Greenhouse” games (Berne, 1964, pp. 141-43 (3) in which clients escalate feelings and often idealize feeling over thinking. For the past decade, however, transactional analysis seems to be developing in a different sort of “Greenhouse,” one of enforced warmth, idealized relationships, and attachment/empathy-based clinical strategies. When the authors were originally trained in the 1970s, transactional analysis therapists were supposed to confront people into health. Now it seems they are to attach, attune, and empathize clients into health. Yet Berne’s treatment group was not an empathic holding environment; it was an interpersonal study matrix. This article offers a critical review of clinical applications within transactional analysis of theories of attachment, attunement, and empathy. It critiques the clinical models of therapeutic relatedness and presents a clinical model of therapeutic space, which provides client and therapist with the room and opportunity for curiosity, uncertainty, and conflict.

Nell’ultimo decennio si è assistito ad un cambiamento di accento nelle teorie psicodinamiche centrate sull’Io, compresa l’Analisi Transazionale. Interpretazione e insight non sono più considerati i principali mezzi di cambiamento terapeutico. Terapeuti di diversi orientamenti teorici si concentrano attualmente sulle componenti relazionali, transferali e controtransferali del processo terapeutico. La letteratura clinica abbonda di modelli e linguaggio relazionale: reciprocità, empatia, sintonia (attunement), attaccamento, relazioni oggettuali, intersoggettività, una conoscenza relazionale implicita, un ambiente che accoglie e sostiene (holding), la sincronia emotiva, l’essere in contatto, il momento dell’incontro, la risonanza. Lo zeitgeist relazionale ha avuto una spinta ulteriore dalla diffusione di modelli di stampo femminista, come il modello relazionale elaborato allo Stone Center del Wellesley College o le teorie centrate sul trauma che sottolineano il ruolo attivo, relazionale del terapeuta in senso materno/correttivo. In passato, le prospettive di tipo materno/relazionale hanno contribuito ad ammorbidire lo stile unidirezionale, paternalistico e autoritario che guidava i classici orientamenti psicoanalitici e cognitivo/comportamentali; ora invece vediamo applicati acriticamente nell’Analisi Transazionale vari modelli relazionali che secondo noi meritano una seria discussione.
In Analisi terminabile e interminabile, un saggio clinico di profonda riflessione scritto da Freud poco prima della sua morte, egli si poneva ancora delle domande sulla natura del processo terapeutico. Per Freud, al centro del processo terapeutico stava l’amore per la verità, la volontà di riconoscere le realtà psichiche, di confrontarsi con se stessi nella maniera più onesta possibile. Da parte nostra, consideriamo che impegnarsi nella terapia significhi impegnarsi ad una totale onestà, sia da parte del paziente sia da parte del terapeuta. Pare invece che in molte terapie, di questi tempi, il campo relazionale tra terapeuta e paziente sia mutato, passando dall’amore per la verità alla verità dell’amore, dove per il paziente l’esperienza di sentirsi amato e “rispecchiato” sostituisce quella di affrontare e capire le realtà emozionali e caratterologiche. A nostro parere, nel lungo, spesso arduo, processo della psicoterapia, ad essere curativo è, in ultima analisi, l’amore per la verità che si esplicita nell’affrontarla.
Nella psicoterapia transazionale vi è sempre stata la tendenza a porre l’accento sul cambiamento personale e sulla gestione delle emozioni anziché cercare di approfondire le ambivalenze dell’amore e dell’odio che sottendono a tutte le relazioni umane. Il presupposto di questo articolo è che, se l’Analisi Transazionale non cerca di affrontare e di trattare gli aspetti più oscuri e più conflittuali del funzionamento della persona, finiremo per essere limitati rispetto a ciò che possiamo offrire ai pazienti e a quali pazienti siamo realmente in grado di curare.
Questo articolo prende in esame le applicazioni nel campo dell’Analisi Transazionale di quelle teorie che pongono l’accento sull’empatia, la sintonizzazione e l’attaccamento, considerandoli gli strumenti principali del repertorio terapeutico. Secondo noi, questo approccio rischia di mettere in atto una velata forma di rigenitorizzazione (reparenting), che è però una notevole deviazione rispetto al risalto che Berne dava alla responsabilità personale, al conflitto intrapsichico, alla “manipolazione” interpersonale e alla “costruzione” del proprio copione di vita. L’utilizzo troppo marcato dei concetti relazionali nell’Analisi Transazionale di questi ultimi tempi può portare, a nostro parere, ad una eccessiva semplificazione del processo terapeutico, a dare troppo rilievo all’attività del terapeuta e a non considerare i conflitti intrapsichici ed interpersonali come elementi fondamentali della psicoterapia.

Lo stato dell’Io Genitore e il ruolo del terapeuta
Sin dalle sue origini l’Analisi Transazionale ha sottolineato con forza l’uso da parte del terapeuta, in varie forme, dei suoi stati dell’Io Genitore. Delineando la struttura e la funzione dello stato dell’Io Genitore, Berne ha contribuito in modo determinante a riformare la posizione psicoanalitica classica dell’osservatore neutrale e l’uso meccanicistico dei modelli comportamentali, che ha combattuto per tutta la vita. Tuttavia da tempo, ormai, nella teoria e nella tecnica dell’Analisi Transazionale vi è una tendenza che suscita perplessità: quella di proiettare tutto il “male” sulle incapacità dei genitori, dell’ambiente e della società in generale. Questo approccio proiettivo è entrato nel linguaggio e nella teoria dell’Analisi Transazionale già dall’inizio, come si intuisce dai concetti di Berne (1972) di “padre orco” e “madre strega,” o dall’uso che fa Steiner (1974) del termine “Genitore Porco,” o ancora dal modello di rigenitorizzazione (reparenting) (Schiff, 1977; Schiff et al., 1975). Troppo spesso il terapeuta transazionale è visto come colui che fornisce il “bene” anziché colui che cerca di chiarire come il paziente porti avanti i suoi modelli di difesa inefficaci e distruttivi di sé e degli altri. Questa distorsione nella teoria transazionale fa sì che il terapeuta si senta in dovere di assumere la posizione di genitore buono/oggetto buono nei confronti del paziente. Quando aiutiamo il paziente “a fare un’esperienza emotiva adeguata”, per portare ad esempio uno slogan molto usato per la genitorizzazione (parenting) in Analisi Transazionale, spesso tutto ciò che riusciamo ad ottenere è una temporanea fusione narcisistica che gratifica entrambi. Siamo convinti che, immergendo il paziente in un rispecchiamento (mirroring) empatico e sintonico, in realtà otteniamo poco e non riusciamo a cambiare nulla nella struttura psicologica del paziente. Lenendo la sofferenza – sia del terapeuta che del paziente – possiamo solo eliminare o ritardare il faticoso lavoro che è necessario per arrivare ad un cambiamento caratterologico ed alla padronanza psicologica. Peggio ancora, c’è il rischio di favorire, con una fantasia infantile/materna nostalgica ed idealizzata, il distacco dalle difficoltà e dai problemi della vita presente, senza parlare del lato più gretto della natura umana.
Lo scostamento di Berne dalla psicoanalisi dei suoi tempi ha rappresentato una revisione radicale della tradizionale analisi della psiche individuale fatta attraverso le libere associazioni, l’interpretazione dei sogni e le altre tecniche classiche. Berne, è chiaro, ha creato un’analisi transazionale, non una psicoterapia relazionale. Non si troverà nulla nei suoi scritti che asserisca che sia l’introiezione della relazione terapeutica stessa ciò che cura il paziente. Piuttosto, il compito dell’analista transazionale è quello di aiutare il paziente a riflettere sui modi, sulle ragioni e sui convincimenti sui cui basa le sue relazioni, in modo che egli stesso possa scegliere di cambiare il suo modo di porsi in relazione con gli altri. Il terapeuta è un osservatore attento e imparziale degli schemi relazionali e delle convinzioni (beliefs) relative agli stessi, come si capisce dalle concettualizzazioni che Berne fa dei giochi, dei ricatti, dei copioni. Berne osservava, ascoltava, rifletteva, descriveva, interpretava, analizzava e finiva per impartire una svolta al modo in cui le persone intrattenevano le loro relazioni, su come trans-agivano.
In definitiva, Berne effettuava una psicoterapia della persona singola, dato che queste interazioni venivano analizzate alla luce dei vantaggi sociali e psicologici che la persona credeva di poterne trarre. Berne offriva l’opportunità di vedere, ripensare e cambiare il modo in cui la persona pensa e si comporta. La sua Analisi Transazionale si prefiggeva di mettere in discussione l’usuale quadro di riferimento difensivo del paziente attraverso la descrizione, il confronto, l’interpretazione e l’umorismo. Pare chiaro, quindi, che il suo intento fosse quello di modificare la struttura intrapsichica e il funzionamento del paziente per mezzo di interventi chiarificatori e non offrendo una relazione correttiva.
«L’introspezione, d’altra parte, apre la scatola nera, e permette all’Adulto dell’individuo di guardare nella sua mente e comprenderne il funzionamento: come mette insieme i giudizi, da quale direzione provengono le sue immagini, quali voci dirigono il suo comportamento.» (Berne, 1972)
Vediamo quindi che il gruppo terapeutico di Berne non era un ambiente di sostegno (holding) empatico, bensì una matrice di studio interpersonale. Per esempio, in Principi di Trattamento di Gruppo sono descritte otto operazioni terapeutiche che «formano la tecnica dell’Analisi Transazionale» (Berne, 1966) e cioè: interrogazione, specificazione, confrontazione, spiegazione, illustrazione (umorismo e simili), conferma, interpretazione e cristallizzazione. Queste operazioni terapeutiche sono descritte dettagliatamente, illustrate e chiarite, indicando anche come utilizzarle, quando utilizzarle e quando no. Come si noterà, empatia, holding e attaccamento non fanno parte dell’elenco. Gli interventi terapeutici di Berne miravano a sollecitare l’auto-osservazione e la curiosità, in modo da decontaminare e stabilizzare il funzionamento dello stato dell’Io Adulto.
Berne procede poi indicando «altri tipi di intervento» nei quali «il terapeuta può dover assumere deliberatamente il ruolo di Genitore per un periodo più o meno lungo, persino per anni» (Ibidem). Questi interventi Genitoriali sono il sostegno, la rassicurazione, la persuasione e l’esortazione, che secondo Berne sono particolarmente appropriati nella cura della schizofrenia in atto.
Purtroppo qui si nota una certa confusione da parte di Berne nell’uso dei termini, a volte vaghi, e questa confusione torna spesso nei suoi scritti e nella sua pratica dell’Analisi Transazionale. Il fatto che in questa parte del suo lavoro usi le iniziali maiuscole per Genitore e Adulto ci fa pensare che egli intenda descrivere il passaggio che il terapeuta deve fare dal lavorare nello stato dell’Io Adulto Esecutivo a lavorare nello stato dell’Io Genitore Esecutivo. Dubitiamo che Berne intendesse indicare che il terapeuta deve diventare una figura genitoriale, ma in realtà questo è diventato usuale nella pratica dell’Analisi Transazionale.
Secondo Berne (1972), il terapeuta talvolta fa un uso esplicito del suo stato dell’Io Genitore, come si desume dalla sua descrizione delle funzioni del Genitore dell’analista transazionale che usa il permesso, la protezione e la potenza:
«Ora possiamo parlare, con una qualche certezza, delle “tre P” della terapia, che determinano l’efficacia del terapeuta, e che sono potenza, permesso e protezione. Il terapeuta deve dare al Bambino il permesso di disobbedire alle ingiunzioni e alle provocazioni del Genitore. Per poterlo fare efficacemente, il terapeuta deve essere e sentirsi potente: non onnipotente, ma potente a sufficienza per poter fronteggiare il Genitore del paziente. Successivamente egli deve essere potente a sufficienza, e il Bambino del paziente deve esserne convinto, per poter offrire protezione dall’ira del Genitore.
Qui le transazioni sono: (1) Agganciare l’Adulto, o attendere fino a che sia attivo. (2) Formare un’alleanza con l’Adulto. (3) Illustrare il proprio piano e vedere se l’Adulto è d’accordo. (4) Se è tutto chiaro, dare al Bambino il permesso di disobbedire al Genitore. Questo deve essere fatto in modo chiaro e usando imperativi semplici, senza se o ma. (5) Offrire al Bambino protezione dalle conseguenze. (6) Come rinforzo, assicurare l’Adulto che tutto ciò è giusto.»
È chiaro che Berne pone l’accento sull’individuazione e la gestione del conflitto intrapsichico: sostiene che il terapeuta deve utilizzare lo stato dell’Io Adulto per rafforzare il funzionamento dell’Adulto del paziente che deve gestire i conflitti nel suo stato dell’Io Bambino. Berne non intende offrire parenting empatico e correttivo; essenzialmente dice al paziente: “Io sono abbastanza forte per fronteggiare le forze psichiche che si agitano dentro di te e tenermene al di fuori. Vedi bene che è possibile tollerare il conflitto interno che accompagna il cambiamento. Tu sei in grado di fare le tue scelte”. Berne offre un modello di contenimento (containment), che non è tanto un ambiente di supporto (holding) quanto un ambiente facilitante (facilitating), per usare il linguaggio di Bion e Winnicott; offre un modello dove il terapeuta è schierato con l’Adulto e regola attentamente gli interventi perché arrivino al momento giusto per far sì che il paziente si senta libero di pensare e di sentire in modo autonomo. Lo spazio del “come se” del processo terapeutico non viene chiuso assumendo una figura genitoriale, ma si sfrutta la forza degli atteggiamenti genitoriali del permesso, della protezione e della potenza per creare uno spazio psicologico nel quale il paziente abbia la possibilità di sviluppare un suo proprio funzionamento autonomo.

Ricerche sul rapporto madre/bambino: implicazioni cliniche
Seppure apprezziamo Berne e il suo punto di vista terapeutico, non possiamo ignorarne i limiti. È chiaro che l’insight cognitivo, l’interpretazione, l’analisi delle transazioni, i diagrammi alla lavagna e le osservazioni argute non sono sempre sufficienti per arrivare a quei livelli profondi della psiche che talvolta temono la consapevolezza psicologica e si oppongono al cambiamento. Così come hanno fatto altre terapie psicodinamiche, anche l’Analisi Transazionale ha cominciato ad avvalersi dei risultati della ricerca sulle prime fasi dello sviluppo per approfondire la conoscenza dei disturbi pre-edipici. In effetti, uno dei punti di forza di quegli approcci che pongono l’accento sull’empatia e sull’attaccamento è l’attenzione prestata alle esperienze formative preverbali, dato che le difficoltà dei primi mesi di vita possono sottendere a successive decisioni di copione.
Berne non aveva approfondito la relazione preverbale madre/bambino. In Ciao!… e poi? (1972) tratta delle influenze prenatali ed infantili sullo sviluppo del copione facendo nulla più che un brillante elenco di “paragrafi sull’allattamento” e di “scene dal bagno.” Sembra aver prestato scarsa attenzione alle osservazioni di Winnicott (1958, 1965) sul rapporto madre/bambino, anche se furono pubblicate al tempo in cui Berne scriveva.
Le ricerche portate avanti in epoca successiva alla morte di Berne – tra cui quelle di Mahler (1968), D.N. Stern (1985), Tronick (1998a), Lachmann e Beebe (1996), Emde (1988), Ainsworth (1969) e Main (1995) – ci hanno aiutato a capire meglio gli aspetti somatici e relazionali del copione; ci hanno rivelato la complessità dello sviluppo della psiche del bambino, con la sua graduale e continua integrazione tra funzioni limbiche, sensomotorie e cognitive (Bucci, 1997; Downing, 1996; Lichtenberg, 1989). Recentemente abbiamo anche assistito alla graduale applicazione delle ricerche sull’infanzia alla psicoterapia degli adulti. Seppure queste ipotesi cliniche siano importanti, è altrettanto importante rendersi conto che la relazione terapeutica con l’adulto non consiste nel riflettere o nel ricreare il rapporto madre/bambino. Alcuni aspetti di questo rapporto emergeranno certamente nel processo terapeutico con molti pazienti, come peraltro emergeranno altri aspetti ed altri periodi dello sviluppo psichico. Green (2000) ha fatto una critica convincente delle applicazioni cliniche dei risultati della ricerca sul rapporto madre/bambino, esortando a non trascurare la complessità delle forze che agiscono nella psicoterapia dell’adulto.
Recentemente l’«Infant Mental Health Journal» ha dedicato un intero numero (Tronick, 1998b) ad una serie di articoli redatti dal Change Process Study Group di Boston sulle applicazioni della ricerca sui bambini alla psicoterapia degli adulti. I primi tentativi sono molto interessanti, affascinanti, sebbene ne emergano i limiti. In una discussione critica di quegli articoli, Modell (1998) ci mette in guardia:
«L’analogia tra la coppia con l’adulto e la coppia con il bambino non regge per diverse ragioni. Innanzitutto, la coppia terapeutica adulta, a differenza della coppia madre/bambino, non è un processo biologicamente determinato; in secondo luogo, nella coppia terapeutica adulta entrambi i partecipanti sono gravati dal peso dei ricordi affettivi del loro passato, mentre nella coppia madre/bambino il passato del bambino è appena all’inizio. Il cambiamento terapeutico nell’adulto richiede una ritrascrizione della memoria affettiva; particolarmente nei casi di trauma, vi è un “programma” implicito, una trascendenza e una trasformazione del passato. Questo non è il “programma” del bambino.»
Ponendo troppo l’accento sul rapporto madre/bambino come modello per la psicoterapia si provoca una regressione nella relazione terapeutica e si svaluta l’esperienza di vita dell’adulto. Ci si preoccupa della sintonizzazione, rispecchiamento, mutua regolazione desunti dall’attenzione al rapporto madre/bambino, ma questo è solo un aspetto dello sviluppo psichico: occorre anche tener presenti le capacità del bambino nel campo della competenza motoria e cognitiva, della comprensione di sé e dell’individuazione. Lichtenberg (1983, 1989; Lichtenberg et al., 1992) ha elaborato un’ampia applicazione della ricerca sull’infanzia alle forze evolutive che agiscono per l’intero corso della vita ed alla psicoterapia dell’adulto. In una sua teoria della motivazione, che è molto simile al concetto di “fame” di Berne, Lichtenberg (1989) descrive cinque sistemi motivazionali, già presenti alla nascita e che agiscono per tutta la vita, e cioè: (1) la regolazione psichica dei bisogni fisiologici, (2) il sistema attaccamento-affiliazione, (3) il sistema esplorativo-assertivo, (4) il sistema ritiro-allontanamento e (5) il sistema sensuale-sessuale.
Il sistema motivazionale di Lichtenberg riguarda, in primo luogo, le capacità che il bambino sviluppa di usare le sue facoltà psicologiche per rispondere ai bisogni e ai disagi fisiologici. Il sistema attaccamento-affiliazione si riferisce a come si formano e si mantengono i legami bambino/genitore, ed è un’elaborazione del lavoro di Bowlby e dei suoi seguaci che molti analisti transazionali conoscono bene. Il sistema esplorativo-assertivo fa riferimento alla capacità di aggressione e di andare nel mondo, sia per proteggersi sia per il desiderio di crescere e di affermarsi. Il sistema ritiro-allontanamento descrive la capacità di ritirarsi dal mondo per riposarsi ed isolarsi o per autoproteggersi. Il sistema sensuale-sessuale riflette l’importanza fondamentale del corpo nel rapporto con sé e con gli altri, per tutta la vita. La fame di relazioni è solo uno degli elementi di questo sistema di motivazioni, che sottolinea tanto la capacità di differenziazione e competenza del bambino quanto il suo bisogno di attaccamento relazionale e di contatto.
Intendiamo quindi sottolineare come un qualsiasi modello esaustivo di psicoterapia debba comprendere tutti questi modelli motivazionali, facendo attenzione a non idealizzarne uno a scapito di un altro.

Bowlby e Winnicott: una posizione terapeutica
La comprensione dei processi psichici infantili ha aperto una nuova consapevolezza agli psicologi dell’Io, dando loro l’opportunità di lavorare in modo più sistematico ed efficace con i disturbi evolutivi precoci. La vita psichica dei bambini è stata studiata da decenni dai seguaci della Klein e dalla British Independent/Middle School. Due allievi di Ferenzci – Melanie Klein, che cominciò ad insegnare in Inghilterra nel 1925, e Michael Balint, che dall’Ungheria emigrò in Inghilterra nel 1939 – studiarono il modo in cui i bambini apprendono, percepiscono e vivono le relazioni con gli oggetti, sia interni che esterni. Fairbairn (1952), Guntrip (1961), Winnicott (1958, 1965), Balint e Balint (1969), Bion (1977) e Bollas (1987, 1989) hanno approfondito questi studi. Decenni prima che negli Stati Uniti iniziassero gli studi sull’osservazione dei bambini, questi studiosi avevano capito che i fondamenti della struttura psichica e dei processi inconsci hanno radici profonde nei primi mesi di vita; avevano visto la relazione madre/bambino come cruciale. In essa si collocano la curiosità come spinta di base e la fantasia come meccanismo fondamentale di tutta l’attività mentale.
Parallelamente al lavoro di questi teorici delle relazioni oggettuali, Bowlby (1969) condusse ricerche sui bambini, addivenendo alle teorie su separazione, attaccamento, perdita e base sicura. Attualmente, nella pratica dell’Analisi Transazionale talune versioni delle idee di Bowlby sugli schemi dell’attaccamento, di quelle di Winnicott sull’ambiente che accoglie e dà sostegno e di Kohut sulla sintonizzazione empatica stanno prendendo il sopravvento sull’originario concetto di Genitore Affettivo. Certo questo arricchimento della pratica dell’Analisi Transazionale è apprezzabile, ma da ciò che abbiamo letto in lavori recenti sull’Analisi Transazionale e dalla nostra partecipazione nella preparazione e nello svolgimento di sessioni di esami, (4) ci deriva una sempre maggiore preoccupazione per l’errata interpretazione e fusione di teorie e tecniche disparate. Si sono mischiate insieme le idee di Bowlby (un modello etologico basato su impulsi istintuali), con quelle di Kohut (un modello relazionale nato per contrastare la tendenza degli psicologi dell’Io americani a trascurare il lavoro con le situazioni pre-edipiche) e di Winnicott (osservatore delle interazioni madre-bambino), senza che si prestasse attenzione alle fondamentali differenze tra questi modelli teorici. Questa accozzaglia teorica crea l’illusione che vi sia convergenza di idee e di tecniche cliniche. Agli occhi di chi non fa parte della comunità dell’Analisi Transazionale, questo miscuglio di idee mina la validità concettuale e la visibilità degli sforzi che si fanno per approfondire la teoria analitica transazionale. Per cercare di contribuire a questo approfondimento, e per un’esigenza di chiarimento, esaminiamo qui i concetti e le tecniche a cui si fa più spesso riferimento nel dibattito attuale: quelli di Bowlby, Winnicott e Kohut.
Esaminando le applicazioni del lavoro di Bowlby e della teoria dell’attaccamento alla psicoterapia degli adulti (Bowlby, 1979; Holmes, 1996; Karen, 1998), si trovano descrizioni di una relazione terapeutica e di un processo terapeutico che sono molto simili a quelli di Berne. I terapeuti che seguono il modello dell’attaccamento usano un concetto di “modelli operativi interni” (internal working models) (Bowlby, 1979) che è praticamente indistinguibile nella sostanza dalla teoria del copione di Berne. Nella sua descrizione dei compiti del terapeuta, Bowlby (1979) si esprime in modo molto simile a Berne. La “base sicura”, concetto fondamentale nel modello di Bowlby, non è un’immersione nell’empatia, bensì una solida base partendo da cui il paziente può esplorare se stesso e il mondo. Bowlby invitava il paziente ad osservare gli schemi relazionali e le convinzioni su cui si basano

«per aiutarlo a considerare come le situazioni nelle quali generalmente si viene a trovare e le sue abituali reazioni ad esse, incluso ciò che si svolge tra lui e il terapeuta, possano essere comprese alla luce delle esperienze vissute con le figure di attaccamento nell’infanzia e nell’adolescenza (e magari ancora attuali) e quali siano state, e forse siano ancora, le sue risposte.» (Bowlby, 1979)

Inoltre, i terapeuti che lavorano sulla base della teoria dell’attaccamento, oggi, pongono l’accento sullo sviluppo nel paziente della funzione riflessiva del sé (Fonagy et al., 1994; Holmes, 1996), che, ancora una volta, è sorprendentemente simile al pensiero di Berne riguardo alla capacità dello stato dell’Io Adulto di osservare la persona totale.
Nel modello di Winnicott delle relazioni oggettuali troviamo una progressione di sviluppo che va dalla dipendenza assoluta alla dipendenza relativa, all’indipendenza relativa, fino all’interdipendenza. Questo si accompagna, di pari passo, allo sviluppo dell’interazione con chi per primo si prende cura del bambino (caretaker). Relazione che va dal fondersi con l’oggetto, al porsi in relazione con l’oggetto, al distruggere l’oggetto, fino alla capacità di usare l’oggetto. Nella visione che Winnicott ha del ruolo del caretaker primario si ritrova una prima fase di “preoccupazione materna primaria” (Winnicott, 1958) che ha inizio durante la gravidanza e dura fino alle prime settimane di vita del bambino. Winnicott dice che la madre si trova in un particolare stato di coscienza in cui ella stessa ed il suo corpo si concentrano quasi esclusivamente sulla vita somatica del bambino. Descrivendo l’atto della madre che tiene in braccio il bambino (holding), Winnicott descrive una fase protettiva e provvisioria di parenting che è profondamente ancorata nel corpo; ed egli descrive la funzione dell’ambiente protettivo (holding environment) come un modo per cui il mondo reale viene offerto al bambino in piccole dosi che lui può gestire. Egli vede anche il bisogno della funzione protettiva di holding riaffiorare nel corso della vita, nei momenti di transizione dell’infanzia e dell’adolescenza e nei momenti difficili della perdita, dello stress e della disorganizzazione nella vita adulta.
Questa funzione di holding (= abbraccio, sostegno) è però molto più complessa e non si limita al semplice fatto di offrire sicurezza e risposta empatica al bambino. Winnicott sottolinea che durante l’infanzia vi sono momenti in cui il genitore stringe il bambino a sé, ma altri in cui gli si oppone, lo contiene, sopportando impulsi aggressivi e spietate richieste. Winnicott attribuisce una fondamentale importanza al fatto che il genitore superi l’aggressione e l’odio del bambino senza indebite punizioni e ritorsioni. È vero che l’errore del genitore è inevitabile e rappresenta una spinta sana nello sviluppo, ma la ritorsione non lo è affatto. La sicurezza che proviene dal genitore che sopporta l’aggressione del bambino fa sì che il bambino impari gradualmente a stare bene da solo un presenza di un altro. Winnicott ipotizza che solo in questo essere soli, sentendosi sicuri, possa emergere il vero sé.
Winnicott (1971) traccia un parallelo tra queste ipotesi e il trattamento di pazienti regressivi e difficili:
«L’analista, la tecnica analitica e il setting analitico entrano in gioco per il modo in cui sopportano, o non sopportano, gli attacchi distruttivi del paziente … Nella pratica psicanalitica, i cambiamenti positivi che si verificano in questo ambito possono essere profondi; e non dipendono dal lavoro interpretativo, dipendono piuttosto dal come l’analista affronta gli attacchi, dal come vi sopravvive, il che comporta e include l’assenza della ritorsione e una alternativa qualificata alla ritorsione stessa.»
Slochower (1992) ha offerto un ottimo spunto di discussione di questo aspetto del concetto di holding di Winnicott, sottolineando come non si tratti tanto di comprensione sintonica del paziente quanto del contenimento delle reazioni emotive del terapeuta e del fatto che “sopravvive” al comportamento del paziente.
Il bambino secondo Winnicott, così come il paziente secondo Winnicott, sono creature complesse e non solo destinatari passivi della generosità del genitore o del terapeuta. Winnicott definisce l’aggressione come il muoversi nel mondo, a cominciare dal primo scalciare del neonato. Nella visione di Winnicott il bambino - un bambino molto simile a quelli che vediamo nella ricerca e nell’osservazione diretta - è una creatura attiva, ambivalente ed aggressiva, che si allontana dal genitore e gli si avvicina. Le osservazioni e gli scritti critici di Winnicott sulla relazione madre/bambino sono pieni di mirabili paradossi. In un articolo sullo sviluppo emotivo primitivo, per esempio, osserva:
«Accennerò ad un’altra ragione per cui il bambino non si soddisfa con la soddisfazione: si sente ingannato. La sua intenzione era di portare quello che potremmo chiamare un attacco cannibalistico, ma è stato messo a tacere con un narcotico, la pappa. Al massimo può rinviare l’attacco.» (Winnicott, 1958)
Quante volte il terapeuta, intenzionalmente o meno, offre empatia e conforto – il narcotico, la pappa – per scongiurare l’ambivalenza o l’aggressività di un paziente?
Il bambino di Winnicott si spazientisce se viene tenuto in braccio o gli si dà da mangiare. C’è una forte pressione evolutiva che tende al conflitto e alla differenziazione. Le attività primarie del genitore vanno, e spesso per iniziativa del bambino, dall’offrire conforto e rispondere a stati psicologici e affettivi, al facilitare, godendole, l’attività motoria, l’indipendenza e la competenza. Secondo Winnicott, la psiche del bambino allora comincia ad abitare il corpo ed egli incomincia a differenziare sé dall’altro. Il bambino procede rapidamente nella sua capacità motoria e psichica:
«L’Io comincia a porsi in relazione con gli oggetti [in corsivo nel testo originale]. Se le cure materne sono state sufficientemente buone all’inizio, il bambino prova una gratificazione istintuale solo se vi è una partecipazione dell’Io. Non si tratta quindi di dare soddisfazione al bambino, quanto di permettere al bambino di trovare e venire a patti con l’oggetto (il seno, il biberon, il latte ecc.).» (Winnicott, 1965)
Il bambino (e il paziente) di Winnicott è un individuo irrequieto, impaziente ed esigente, molto più interessato alla competenza e alla differenziazione che all’avere contatto e cibo in permanenza. Come illustra chiaramente il suo articolo ormai classico L’odio nel controtransfert (Winnicott, 1958), nella visione di Winnicott neppure la madre né il terapeuta sono costantemente in sintonia e in contatto. Egli dice che, se non riesce a tollerare il suo odio per il bambino, la madre non riuscirà a tollerare l’odio del bambino per lei e non potranno mai emergere né una vera affettività né un vero sé. Invece, il falso sé mostrerà sentimentalismo e il vero sé rimarrà nascosto.

Empatia terapeutica: una disamina critica
La centralità di una posizione empatica in psicoterapia deriva in gran parte dal lavoro di Kohut ed altri psicologi del Sé. Nell’esame dettagliato che Moses (1988) fa del ruolo dell’empatia in psicoterapia, egli rileva come Kohut fosse cauto, se non addirittura scettico, nell’uso dell’empatia agli inizi del suo lavoro, mettendo in guardia verso una «sentimentale regressione alla soggettività» (Kohut, citato in Moses, 1988) e verso l’empatia «accompagnata dall’intenzione di curare direttamente fornendo un’amorevole comprensione». Molto più avanti, però, Kohut era giunto a considerare l’empatia e il mirroring come agenti terapeutici, mettendo ora in guardia nei confronti delle conseguenze della mancanza di empatia e consigliando un lungo periodo di verifica della realtà del paziente. In questo periodo è compito del terapeuta dimostrare di capire ciò che prova il paziente. Con questo atteggiamento il terapeuta assume il ruolo dell’oggetto-sé buono, come leggiamo in Teoria e pratica della Psicologia del Sé (White e Weiner, 1986):
«In ultima analisi il terapeuta ha il compito di cercare di diventare l’oggetto-sé buono … [Il terapeuta] dovrà cercare empaticamente di capire dove il paziente adulto non è riuscito ad assicurarsi l’ossigeno emotivo di cui aveva bisogno per sviluppare un sé sano e … cominciare a riempire questo vuoto.»
Questo modello considera la psicoterapia come radicata nei deficit e nelle lacune evolutive, che il terapeuta ha modo di correggere riempiendo i vuoti e fornendo un nutrimento emotivo.
Erskine e Trautmann sono forse coloro che meglio articolano questa prospettiva nella letteratura attuale sull’Analisi Transazionale:
«Convinto che il copione e gli stati dell’Io sono tentativi di affrontare la fame di relazioni e la perdita del contatto interno, la terapia si può focalizzare sulla relazione stessa (Erskine, 1980, 1988). Da questo punto di vista lo scopo di analizzare gli stati dell’Io non è quello di costruire una nuova, più utile struttura bensì quello di ottenere informazioni sui bisogni relazionali che non sono stati soddisfatti, come ha reagito l’individuo e, soprattutto, come si possono soddisfare i bisogni relazionali attuali (Erskine e Trautmann, 1996). Questi obiettivi terapeutici si raggiungono con metodi orientati al contatto e centrati sulla relazione:
- indagine sull’esperienza fenomenologica del paziente, sul processo transferale, sul sistema di coping e sulla vulnerabilità;
- sintonizzazione sull’affetto del paziente, sul ritmo, sul livello evolutivo di funzionamento e sulle esigenze relazionali;
- coinvolgimento che riconosce e dà valore all’unicità del paziente. (Erskine, 1997)
Questa descrizione del principale compito terapeutico è ora comune nella pratica dell’Analisi Transazionale, con la denominazione di reparenting, o parenting, oppure parenting correttivo, empatia o attaccamento. Il presupposto è che, se la psicopatologia ha origine nell’ambiente, allora il suo compito essenziale è quello di compensare l’ambiente. Come ci ricorda Storr (1988), Freud, quando gli fu chiesto che cosa costituisse la salute, rispose che è la capacità di amare e di lavorare. Storr specifica che le relazioni umane sono «un fulcro attorno a cui gira la vita di una persona, ma non necessariamente l’unico fulcro».
Stern (1985) parla dell’empatia nel contesto delle ricerche madre/bambino:
«Visti in questa luce [della psicologia intersoggettiva e del Sé], il “sistema” genitore-bambino e il “sistema” terapeuta-paziente parrebbero avere delle comunanze … Vorrei però consigliare una certa cautela nel tracciare simili analogie. A nostro parere, ciò a cui si mira con l’uso terapeutico dell’empatia è qualcosa di estremamente complesso. Prevede un’integrazione di diversi aspetti, tra cui quello che noi chiamiamo nucleo intersoggettivo (core-intersubjective), la vicinanza verbale (verbal relatedness), ma anche ciò che Schafer (1968) chiama “empatia generativa” e ciò che Basch (1983) chiama “empatia matura” ... La sintonia tra la madre e il bambino e l’empatia tra terapeuta e paziente operano a diversi livelli di complessità, in sfere diverse e per scopi diversi.»
Dal canto suo Moses (1988) sostiene che «l’attuale teoria e l’applicazione delle tecniche empatiche si sono caricate di illusioni, di falsità e di errori applicativi tanto che il concetto si è allargato a dismisura, manca di uno specifico significato e il suo uso ormai non ha più limiti». Si preoccupa che l’empatia «sia entrata inconsciamente ed universalmente nel nostro vocabolario clinico senza un’attenta valutazione del suo significato». Tra i pericoli della terapia che Moses analizza parlando di empatia vi è il rischio che il processo terapeutico e il terapeuta cadano ostaggio delle ferite e delle vulnerabilità narcisistiche del paziente o dello stesso terapeuta. Il terapeuta può temere di essere percepito come indifferente o come oggetto persecutorio. Forse c’è anche il timore di essere considerato, o di considerarsi, come un oggetto stupido, che non capisce o non vuol capire. Una sufficiente empatia dà al terapeuta l’illusione “di non dover affrontare il timore di non capire il paziente o, peggio ancora, di far capire al paziente che non lo capisce, che certe esperienze vanno al di là della comprensione”. Il comune pressante desiderio di empatia e sintonia terapeutica può dar luogo ad un processo in cui la comprensione terapeutica sta prevalentemente nella mente e nello sforzo del terapeuta più che in quelli del paziente, cosa che supponiamo avrebbe disturbato Berne e certamente disturba noi.
Il fatto di non conoscere o non capire l’altro può dar vita ad uno spazio molto ricco, anche se ansiogeno. Bollas (1989) mette in discussione la voglia degli americani di sapere e di capire:
«Negli Stati Uniti, dove molti ti trascinano in tribunale senza pensarci un attimo, molti psicanalisti vivono nel terrore che qualcuno possa appellarsi al giudice sostenendo che il suo psicanalista non sa quello che fa. Dopo tutto, altri professionisti nel campo della salute mentale, armati del loro manuale diagnostico – il DSM III – possono lavorare in sicurezza. Per me questo non sapere è un gran risultato.»
Secondo Bollas, ma anche secondo Winnicott, la mancanza di empatia, anziché creare o ricreare inevitabilmente una ferita narcisistica, può offrire uno spazio creativo e un’opportunità. Bollas è molto più impegnato nella creazione di uno spazio differenziato e immaginativo che non nel contatto confluente e nella vicinanza sintonica.
Con il suo lavoro, Stark (1995) entra nel dibattito sui processi relazionali in psicoterapia descrivendo tre principali modalità di azione e interazione terapeutica. Non ne valorizza una a scapito di un’altra, ma indica gli obiettivi terapeutici dei diversi aspetti della vicinanza in terapia, intendendo che la psicoterapia richiede diversi modi di relazione e vicinanza terapeutica nelle diverse fasi del trattamento. Secondo la Stark, la prima modalità serve per fornire informazioni attraverso l’insight e l’interpretazione, un modello che si basa sul conflitto intrapsichico strutturale come nella psicoanalisi classica da cui Berne prese le mosse. La seconda modalità terapeutica affonda le radici nei modelli di deprivazione e deficit evolutivo/strutturale. Qui il principale atto terapeutico consiste nel fornire un’esperienza relazionale correttiva, che è ciò su cui attualmente pongono l’accento quei metodi dell’Analisi Transazionale che si focalizzano sulla sintonizzazione e sull’attaccamento. Nel suo lavoro Stark riassume così questa seconda modalità: «(1) la partecipazione attiva del terapeuta come nuovo oggetto buono, (2) la gratificazione del bisogno effettivo e, più in generale, (3) l’offerta del terapeuta di un’esperienza correttiva emozionale per il paziente». La terza modalità dell’azione terapeutica è di autenticità e di intersoggettività: l’incontro terapeutico di due persone reali nel qui ed ora che rendono manifeste e modificano credenze e comportamenti arcaici.
Secondo questa caratterizzazione di Stark, il modello del deficit (modalità 2) sottolinea l’assenza “del bene” nella vita del paziente; mentre la prospettiva di relazione oggettuale/intersoggettivismo della modalità 3 prende in esame la presenza “del male” nelle motivazioni e nel funzionamento del paziente. Qui il terapeuta partecipa autenticamente, in una relazione reale con il paziente e l’intento è duplice: far capire al paziente le proprie dinamiche relazionali e rinsaldare il reciproco impegno. Di conseguenza, il terapeuta intersoggettivista può decidere di richiamare l’attenzione del paziente (1) sull’impatto che questi ha sul terapeuta, (2) sull’impatto che il terapeuta ha sul paziente, o (3) sull’impegno (o mancanza di impegno) reciproco nel qui ed ora. In questa prospettiva il terapeuta osserva come il paziente, attraverso le interazioni attuali, le proiezioni e le fantasie distorte, si crea e mantiene oggetti cattivi e relazioni inefficaci o distruttive.
Lo stile di Berne, e quello seguito dagli analisti transazionali classici, è certamente fondato sul modello che Stark caratterizza come modalità 1. Secondo noi, i modelli transazionali basati sul reparenting, sull’attaccamento e sulla sintonizzazione sono esempi della modalità 2. Non siamo a favore di una posizione terapeutica distaccata o neutrale, né per l’interpretazione e il confronto continui (Cornell, 1994, 1997, 2000); intendiamo piuttosto dire che, mentre l’empatia, la sintonizzazione e l’attaccamento possono essere condizioni necessarie per il cambiamento terapeutico, non sono sufficienti per portare ad un cambiamento psicologico duraturo. Quel che ci preoccupa è che quando si concettualizza l’empatia e/o l’attaccamento come entità curative si introduce un grave disequilibrio nel processo terapeutico. La teoria clinica dell’Analisi Transazionale è andata molto al di là dello stile originario di Berne, ma siamo convinti che molti aspetti del suo modello originario rimangano validi. Pensiamo inoltre che, perché l’Analisi Transazionale possa essere una psicoterapia efficace e completa, essa debba includere un processo di vicinanza (relatedness) mutuamente raggiunta, che va oltre alla relazione temporanea con il terapeuta. Vorremmo pertanto trovare nella letteratura dell’Analisi Transazionale una voce che si levi a sostegno dell’importanza di uno spazio terapeutico più complesso e più conflittuale.

Indagine, disturbo e creatività
Secondo Bollas (1989), il terapeuta e un processo terapeutico equilibrato hanno la doppia funzione di dare sollievo e di dare disturbo al paziente. Due sono i compiti principali che egli indica per lavorare con la relazione transferale: elaborare e decostruire. L’elaborazione ha a che fare con quegli stati di reciproche fantasie (reverie) in cui il terapeuta entra nel campo del desiderio transferale del paziente per aprire la comunicazione inconscia tra terapeuta e paziente a nuove possibilità di autoespressione e desideri relazionali. Qui la calma ricettività, l’inattività e il frequente silenzio del terapeuta sono estremamente importanti. Il silenzio del terapeuta “permette” al paziente la libertà intrapsichica e associativa di scoprire se stesso e di provare una solitudine costruttiva in presenza dell’altro. Con la funzione decostruttiva, il terapeuta entra come una forza di disturbo nel campo interpersonale del paziente, con le sue interpretazioni e domande e gettando lo scompiglio. Berne lavorava in questo modo. Il punto di vista di Renik (1996) è molto simile:
«Ciò che il paziente vuole dall’analista – e, nel migliore dei casi, ottiene – è una prospettiva diversa dalla propria. È da sperare che la prospettiva dell’analista sia particolarmente saggia, ma questo non è sempre vero e forse non è necessario che lo sia. In ultima analisi, la capacità dell’analista e una sua adeguata autorità non si fondano sul presupposto che il suo punto di vista riguardo ai conflitti del paziente sia necessariamente più valido di quello del paziente stesso, ma piuttosto sul fatto che l’analista può offrire una prospettiva alternativa, un diverso modo di costruire la realtà che il paziente può utilizzare o meno a seconda che lo trovi utile oppure no.» [Corsivi nel testo originale]
D.B. Stern (1998) distingue l’empatia dalla funzione terapeutica “dell’indagine”, come ce la descrive Sullivan,:
«La tolleranza dell’incertezza e dell’ambiguità sono parte integrante della pratica clinica dell’indagine dettagliata (Sullivan, 1954). Una psicoanalisi che si basi su questi principi non mira necessariamente a sapere ciò che il paziente non sa, ma a chiarire che il paziente non sa e dove e come si espliciti questo suo non sapere. Non sta allo psicanalista che utilizza l’indagine conoscere il paziente prima ancora che questi si conosca.» (ibidem nel testo originale).
Il pensiero di Stern ci vede concordi e riflette il modello che intendiamo proporre in alternativa o in aggiunta ai concetti di sintonizzazione e di attaccamento. Stern riconosce che le domande del terapeuta possono talvolta scaturire dal modo empatico con cui egli immagina le esperienze del paziente, ma sostiene che compito del terapeuta sia individuare le lacune nell’esperienza del paziente e non colmarle, perché questo è responsabilità del paziente ed è lui che deve deciderlo. Il terapeuta può stimolare «le curiosità mai formulate del paziente circa le proprie esperienze». La formulazione è del paziente, non del terapeuta, esattamente come Berne dice che le decisioni sono del paziente e non del terapeuta.
In The Empathic Immagination, Margulies (1989) vede l’uso terapeutico della meraviglia e dell’empatia non in termini di relazione e sintonia ma di scoperta di sé. Scrive: «Ciò che mi interessa, in questo caso, è l’opportunità di vedere le cose con occhi nuovi e l’occasione che il sé ha di percepire un sé del tutto nuovo; in altre parole il lavoro terapeutico che sollecita la creatività nell’immagine che si ha di sé, che apre nuove possibilità di percezione». Con l’uso dell’empatia Margulies, intraprende con il paziente un processo creativo e non compensatorio. In questo modo l’empatia è un mezzo che permette di meravigliarsi, di misurarsi, di indagare, di ravvivare; può essere anche uno scontro tra diverse visioni del mondo, ma è senz’altro diverso dal tentativo di corrispondere alla prospettiva vissuta del paziente. La curiosità del terapeuta riguardo al significato che il paziente dà alla sua esperienza vissuta può riuscire a risvegliare la curiosità del paziente e portarlo ad analizzare e riflettere sui presupposti che ne stanno alla base.

Conclusioni
Abbiamo qui analizzato il lavoro di vari autori, tra cui Margulies, D.B. Stern, Stark e Bollas, per offrire agli analisti transazionali un quadro di riferimento più ampio per riflettere sulla relazione terapeutica, sui principali obiettivi e sull’attività del terapeuta. A nostro parere questi punti di vista sono in accordo con le posizioni proposte da Berne, anche se implicano una più profonda comprensione degli affetti ed un coinvolgimento maggiore di quanto Berne abbia raggiunto ai suoi tempi.
A nostro parere è estremamente importante che gli analisti transazionali si rivolgano alle fonti originarie per comprendere appieno lo sviluppo umano. Il lavoro di Winnicott, Bowlby, Kohut ed altri è spesso decisamente più complesso di quanto traspaia nella formazione e nella pratica dell’Analisi Transazionale. Il lavoro di Winnicott e Bowlby, integrato dalle recenti ricerche di D.N. Stern, Emde ed altri che osservano bambini reali nell’interazione con i loro genitori, sta cominciando a svelarci le regole dello sviluppo umano e questo può aiutare i terapeuti ad individuare dove i loro pazienti si scostano da queste regole. Questa conoscenza è molto importante per capire le decisioni e la formazione del copione e sollecita il terapeuta ad indagare su cosa porti a queste privazioni e deviazioni in un particolare individuo e come questi le porti avanti difensivamente nella vita adulta. Siamo inoltre convinti che ad essere curative sono, in ultima analisi, la curiosità reciproca di terapeuta e paziente e l’analisi delle esperienze del paziente, più che il tentativo di lenire la sofferenza psichica che queste esperienze causano.
Dolore, ambiguità, paradosso e conflitto sono inevitabili nella vita. Sono necessari anche in una psicoterapia che sonda in profondità, ma soprattutto possono tramutarsi in risorse vivificanti per vivere la propria vita. Dopo aver passato mezzo secolo a scrivere di psicoanalisi e della natura degli esseri umani, Freud continuava a porsi delle domande sull’essenza del processo terapeutico. Era convinto che, in definitiva, fosse l’amore per la verità – la volontà e la capacità di riconoscere la realtà del sé – a rappresentare il cardine del lavoro terapeutico. Berne ci ha lasciato un preciso modello per sondare l’individuo, transazione per transazione. I modelli basati su parenting, sintonizzazione, e attaccamento suggeriscono che sia la verità dell’amore l’essenza della psicoterapia e che il paziente, interiorizzando l’amore, la comprensione e l’intervento correttivo del terapeuta, sia in grado, lasciando la terapia, di costruirsi una vita diversa. Pur non sottovalutando l’esperienza dell’empatia terapeutica e dell’attaccamento quali elementi importanti che facilitano il processo terapeutico, invitiamo a non idealizzarne il potere curativo. Pensiamo che ciò che il paziente acquisisce come spunto per il cambiamento strutturale ed interpersonale sia il graduale sviluppo della curiosità, delle sue capacità di autoindagine, di differenziazione e il conflitto relazionale nell’ambito della relazione terapeutica.


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Note:

1) Pubblicato su «Transactional Analysis Journal», XXXI, 1, January 2001. Tradotto e stampato con il permesso degli autori e dell’ITAA (International Transactional Analysis Association).
2) William Cornell, analista transazionale clinico, supervisore, didatta ITAA pratica presso Pittsburgh (USA) e conduce un gruppo di formazione a Ginevra. È autore di numerosi articoli sui temi dell’Analisi Transazionale, emozioni, corpo e psicoanalisi.
Frances Bonds-White, analista transazionale clinica, supervisore, didatta ITAA (di cui è stata vicepresidente dal 1992 al 1996), psicoterapeuta di gruppo certificata. Associata all’AGPA (American Group Psychotherapy Association), all’International Association for Group Therapy e alla Group Analytic Society of London.
3) [NDR: la citazione delle pagine si riferisce ai testi originali]
4) [NDR: per diventare analisti transazionali certificati]



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