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C.P.A.T. --> HOME PAGE --> N. 35-36/2002

QUADERNI DI PSICOLOGIA,
ANALISI TRANSAZIONALE
E SCIENZE UMANE

Dal n° 35-36/2002


Le vicende di un nucleo Alzheimer

Gianni Del Rio



Riassunto

Nel luglio del 1996 mi fu proposto di occuparmi del gruppo di lavoro di un Nucleo Alzheimer che viveva una situazione di forte disagio. Queste note sono il tentativo di ricostruire quell’esperienza, che tuttora prosegue, e di leggerne alcuni passaggi dal punto di vista teorico.
Il modello di riferimento è quello della socioanalisi inglese, così come è maturata nell’ambito del Tavistock Institute da Bion in poi, e così come l’ho appresa da Gino Pagliarani** circa venticinque anni fa.
Nel corso della stesura di queste pagine, il desiderio crescente di ricordare e di ricostruire la mia esperienza di lavoro col Nucleo, le ha fatte diventare una narrazione, così, ho deciso di mantenere questa forma collocando in nota i riferimenti teorici.

Abstract

Occurrences in an Alzheimer’s ward team
In July 1996, the Author was been asked to work with an Alzheimer specialized ward team, which was living a situation of strong discomfort. In this article the author try to reconstruct that experience, which still is going on, and to give theoretical remarks of some steps on.
The theoretical model is the British socioanalysis’ one, so as it growth at Tavistock Institute from Bion onwards, and following Gino Pagliarani’s teachings (a psychoanalyst, among those who spread socioanalysis in Italy).
During the writing the Author, reminding about his own work experience with the team, decided to use a narrative style; so all theoretical remarks are placed in footnotes.

1. La domanda. (luglio 1996)
Più che una proposta, l’incontro sopra accennato fu un ballon d’essai. Mi trovai con tre o quattro operatrici del Nucleo che, forse non a caso, occupavano una posizione organizzativa marginale rispetto al gruppo. Questa e altre loro caratteristiche professionali le connotavano efficacemente come portavoce della sofferenza di tutto il gruppo; una di loro in particolare, S., si era trovata di recente coinvolta in pesanti dinamiche nel probabile ruolo di capro espiatorio1. Per dare l’idea di quanto la situazione fosse percepita come “grave”, si pensi che alla fine un’operatrice mi chiese, più o meno testualmente: “Si può fare qualcosa o dobbiamo mettere via il pensiero?”.

Il Nucleo era stato aperto nel novembre 1994, anticipando i tempi della programmazione regionale.
L’amministrazione dell’Ente di cui il Nucleo fa parte aveva offerto al personale sanitario e assistenziale la possibilità di optare per la costituenda équipe del Nucleo. Consapevole della maggior gravosità di questo tipo di utenza, aveva accompagnato l’offerta con la promessa di un certo incremento retributivo e di un’attenzione particolare alle condizioni di lavoro. Chi aveva aderito, dunque, lo aveva fatto nutrendo certe aspettative che – mi si diceva in quell’incontro – soprattutto le ASA, sentivano oggi disattese.
Le ASA, il personale assistenziale, costituivano all’epoca dell’incontro i due terzi della composizione del gruppo. Al momento della sua fondazione, nel Nucleo c’era solo personale assistenziale: loro erano il gruppo. Solamente sei mesi dopo, nel maggio 1995, si era aggiunta la componente infermieristica – cosa che fu vissuta come un’invasione di campo – e un operatore “animatore/educatore”, in realtà senza qualifica, ma che aveva esperienze precedenti con pazienti AIDS terminali. Questo operatore incontrò difficoltà crescenti, apparve sempre più inaffidabile, finché nel dicembre ’95 se ne andò, scrivendo una lettera in cui denunciava le sue difficoltà.
Il momento in cui il gruppo si è trovato a dare l’ostracismo all’educatore/animatore è stato l’unico in cui avesse espresso un atteggiamento univoco e deciso, confermando in ciò la ferma intenzione di difendersi – a quel punto – da chiunque venisse “da fuori” e apparisse “estraneo”. Il gruppo sembrava aver preso a funzionare attraverso la ciclica individuazione di un capro espiatorio.
Nel racconto delle operatrici che mi stavano di fronte la metafora del corpo gravemente sofferente (“Si può fare qualcosa?”) ricompariva come sintomo in quanto riferiva un’altra di loro, una fisioterapista, che stava lavorando in quel periodo sul mal di schiena delle ospiti. Se ricordo bene, alcune ASA le rivolsero quella che lei definì una “domandina” su cosa potessero fare per il loro mal di schiena: un tipico disturbo professionale di chi si trova, nel corso del turno di lavoro, a doversi frequentemente chinare e ad alzare pesi; richiesta cui la collega aveva risposto di buon grado, ottenendo di fare esperienza di uno stile relazionale con le ASA affatto diverso dal solito. La “domandina” verosimilmente conteneva la sommessa, più ampia richiesta da parte delle ASA che la loro fatica venisse riconosciuta, e che qualcuno si prendesse cura di loro.
Le ASA erano “la schiena dolorante” del gruppo, quella su cui gravava il maggior peso del lavoro. Un carico che nel tempo si era rivelato forse più gravoso del previsto, e che in cambio non aveva dato i frutti attesi: quelli economici si facevano aspettare e anche quelli professionali, con l’arrivo degli altri operatori avevano smesso di essere così gratificanti: gli infermieri e gli altri erano stati ignari ladri di ruolo (“Voi ci rubate il lavoro; voi avete la gloria...”) e a loro non restavano che le briciole di una mansione assistenziale, nella connotazione deteriore del termine.
È strano che si sentissero arrabbiate? Giorno dopo giorno, pur nell’ossequio alle responsabilità quotidiane, era cresciuto un inconsapevole boicottaggio del progetto del Nucleo, in cui era riconoscibile l’astio per le aspettative deluse, ma anche un sistema difensivo da possibili ulteriori delusioni che prendeva la forma dell’attacco agli intrusi. Il clima di conflitto permanente si alimentava di un’organizzazione del lavoro inadeguata, nata dall’entusiasmo per la nuova impresa, ma mai – non ancora, per lo meno – evolutasi in una cultura di lavoro e una metodologia appropriate. “Non esiste un gruppo e non esiste un lavoro di équipe. Non esiste neanche un équipe”. La mancanza di riunioni che fungessero da contenitore per il confronto aveva alimentato problemi connessi al ruolo e al compito, e dato il via al determinarsi del sintomo più cospicuo della situazione: la pratica del pettegolezzo. Quest’ultimo il contenitore ce l’aveva, e ottimo: le coppie e i sottogruppi dei turni di assistenza costituivano, più che non l’équipe del Nucleo, i luoghi nascosti dell’appartenenza, cosicché la coesione risultava ulteriormente indebolita.

2. L’intervento formativo (ottobre 1996-giugno 1997)
La situazione appariva pesante, ma le risorse non mancavano. Il fatto che gli operatori2 dovessero occuparsi di un’utenza così gravosa come i pazienti Alzheimer, costituiva di per sé un fattore motivante alla ricerca della collaborazione. Inoltre, benché frustrata, la spinta a ricercare una migliore identità professionale attraverso la partecipazione a quel gruppo di lavoro era ancora presente, poteva essere recuperata e costituire un motivo di orgogliosa appartenenza. Last but not least, il Nucleo rappresentava un momento di avanguardia nelle strategie dell’istituzione madre, il che la rendeva attenta e disponibile alle vicende di quel gruppo di lavoro3. Io ne ero la prova.

Dal primo incontro, avvenuto nell’ottobre successivo, le buone speranze che “si potesse fare qualcosa” uscirono, come vedremo, confermate. Il fatto stesso che il gruppo si ritrovasse lì, riunito allo scopo di occuparsi dei propri problemi, legittimava l’esistenza di questi e li ricollocava in una diversa luce: non più solamente un disagio cui rispondere affannosamente giorno per giorno ma un oggetto, posto al centro del gruppo.
Questo “collocare l’oggetto” fu appunto il lavoro di quel giorno. La disponibilità di un contenitore nuovo ebbe, come non è difficile intuire, un effetto catartico: la comunicazione, da parte delle non molte persone che intervenivano – non c’era stato peraltro bisogno di grandi sollecitazioni dopo la presentazione iniziale – era concitata; si rubavano la parola a vicenda, saltavano da un argomento all’altro. Io intervenivo riprendendo e sottolineando, ma lasciando anche che le cose uscissero. Gradualmente, emersero alcuni elementi di contenuto, che contemporaneamente davano l’idea del livello della situazione e della possibile dinamica evolutiva. La questione dell’ostracismo delle figure educative, e dell’educatrice in particolare, fu messa subito in tavola.
Per un verso, il fatto che un’ASA ne parlasse usando l’espressione “capro espiatorio”4 e che il gruppo apparisse sostanzialmente d’accordo con questa lettura dei fatti, mi suggerì che almeno una parte del gruppo funzionasse a un buon livello di realtà e che si fosse abbastanza capaci – non sapevo se anche disponibili e interessati – di un lavoro di lettura della situazione.
Per un altro, la geriatra responsabile del Nucleo, spalleggiata dalle figure tecniche del gruppo, interveniva ripetutamente5. Il senso dei suoi interventi poggiava su due assunti: l’esistenza di vissuti di disagio e di scontento era cosa diffusamente nota e condivisa; nessuno poteva dirsi soddisfatto di come andavano le cose. Lì, dove eravamo in quel momento, era il luogo e il modo di dire tutto ciò che quotidianamente – giorno, e soprattutto notte – era espresso sotto forma di pettegolezzo. Bisognava trovare il coraggio necessario per farlo superando la vergogna e il timore delle conseguenze; ciascuno dei presenti viveva per suo conto difficoltà, inadeguatezze, confusione di cui ora si poteva e doveva parlare apertamente. Il secondo assunto era, in sostanza, il rovescio della medaglia: il modo in cui il gruppo si era fino a quel momento occupato dei suoi problemi aveva mostrato la sua inefficacia: il clima era pesante; c’erano motivi di incomprensione e di conflitto, il lavoro insoddisfacente. Continuare così non conveniva a nessuno; bisognava cambiare sistema, pertanto, lo stile relazionale e comunicativo fin qui adottato, veniva indicato come da evitare.

Dal punto di vista dei contenuti, in qualche modo si riproponevano cose già sentite nell’incontro preliminare: un intreccio in cui si mescolavano una non chiara definizione degli obiettivi, una babele di metodi di lavoro dovuta alle diverse provenienze di reparto e ai diversi livelli di capacità, difficoltà relazionali, vissuti connessi a motivazioni e aspettative, desiderio di sentirsi adeguati identificato con un possesso di maggiori conoscenze mediche. Un cahier de doléances.

Percepivo nei miei confronti, da parte di tutti, una forte attesa; con quel tanto di magico che non manca mai, che corrisponde al luogo in cui ciascuno colloca le proprie personali aspettative, sia quelle che si riferiscono alla situazione presente, sia quelle di più vecchia data che lungo il proprio percorso di vita e di lavoro lo hanno condotto fin lì. E questo, come sempre, mi preoccupava, sapendo che in un gruppo il cambiamento necessario ha successo tanto quanto si dimostra per ciascuno e per tutto il gruppo, un buon affare; ossia, tanto quanto le frustrazioni delle aspettative che la realtà prima o poi non manca di dare, appaiono un prezzo adeguato in cambio del soddisfacimento di importanti bisogni6. Di qui si passa, sempre.
In questo caso, gli indicatori del raggiungimento di un risultato positivo in tal senso avrebbero riguardato il livello di coesione del gruppo e la sua capacità di funzionamento, ma anche la scomparsa dell’adozione di misure difensive disfunzionali in favore di altre più adattive.
La presenza di queste attese collocava il gruppo in una posizione di dipendenza nei miei confronti, in sé del tutto legittima rispetto al mio ruolo di formatore, il che significava che io dovevo prendermi le mie responsabilità, questo era chiaro; non era altrettanto chiaro, né poteva al momento esserlo ai loro occhi, che io non intendevo prendermi le loro responsabilità, occultate in un atteggiamento di dipendenza. Questa era, come sempre, un’area di sentimenti ambivalenti: da un lato il gruppo desiderava essere aiutato a venire a capo del proprio disagio; dall’altro – l’ASA l’aveva espresso chiaramente – la “novità” era vista con occhio diffidente7.

L’estate precedente, in vista dell’incontro di ottobre, stavo predisponendo come si fa usualmente una scheda da distribuire ai componenti del gruppo, da cui ricavare i dati sociodemografici, un profilo dei curricula e qualche informazione sulle aspettative. Man mano mi venivano in mente altre notizie che, mi raccontavo, sarebbe stato utile avere a disposizione; così la scheda divenne un questionario di otto pagine con una ventina di item, per lo più domande aperte.
Sui contenuti tornerò più avanti. Ora vorrei sottolineare il come l’idea del questionario fosse originata, almeno in parte, dalla mia ansia di fronte al compito che mi aspettava. Credo che allora io abbia cercato di fronteggiarla attraverso un consolidamento preventivo della mia posizione di superiorità sul gruppo. La fantasia di un dio onnisciente.
Quando alla fine dell’incontro di ottobre consegnai il questionario al gruppo, mi scusai per la sua lunghezza motivando la fatica necessaria alla compilazione con l’utilità delle informazioni che se ne sarebbero ricavate. Dissi che, naturalmente, avrei riferito dei risultati del questionario stesso; ma il ricordo che ne ho ora, a distanza di anni, è che la sentissi come una questione di bon ton, una restituzione che, più che altro, andava fatta perché si faceva così, per correttezza; ma i dati, che fosse ben chiaro, erano roba mia, non loro. Non posso onestamente dire che in quel momento avessi idea della rilevanza di quelle pagine per il lavoro che si andava a cominciare; me ne accorsi dopo, subito dopo.
Avevo chiesto che i questionari compilati mi fossero fatti pervenire per tempo in modo da poterli leggere per l’incontro successivo, il che avvenne puntualmente: una persona fu incaricata di recapitarmeli a domicilio; c’erano tutti. Avevo specificato nella consegna che l’indicazione del nome e cognome era facoltativa: tutti, tranne una persona che a quel punto risultava suo malgrado identificabile, avevano scelto di firmare le proprie affermazioni. Da questi particolari, ma in generale dalla ricchezza, accuratezza e spontaneità con cui i questionari erano stati compilati emergeva il senso di una plebiscitaria, incondizionata adesione alla mia richiesta.
Mi avevano preso sul serio; si erano fidati e non mi ostracizzavano.
Ero stupefatto dalla discrepanza che solo in quel momento percepivo tra l’immagine pregiudizievole del gruppo che mi si era creata a seguito dell’incontro preliminare – gente bistrattata sì, ma brontolona, litigiosa, ostile e chiusa in difesa – e la gamma di umanità e di capacità che usciva dalle loro note. Ed ero stupefatto del mio stupore: le mie ansie, che ora andavano squagliandosi man mano che leggevo le risposte, mi avevano giocato un brutto scherzo.
Cosa era successo? Credo che la cosa possa essere detta in modi diversi, sostanzialmente convergenti. In prima approssimazione, si potrebbe dire che si era prodotto una sorta di Effetto Hawtorne: qualcuno finalmente prendeva in considerazione i loro lamenti e loro rispondevano sull’onda della percezione di aver ricevuto attenzione. Il gruppo di formazione prima, e il questionario poi, erano il segno di questa attenzione, ma prima di tutto, erano un luogo8 in cui collocare pensieri e affetti.
Loro avevano delle cose proprie, attinenti a sé, al loro lavoro e ai loro affetti; cose che esprimevano il valore che loro, come persone, ritenevano di avere. Io avevo fornito la possibilità di esprimerle e loro avevano colto l’occasione. Loro avevano cose da dare a me, e non viceversa. Avevo chiesto loro di compilare il questionario individualmente. In realtà non tutti lo fecero: dal contenuto di alcune risposte era facilmente desumibile un lavoro in coppia; ma il senso era quello: ciascuno aveva espresso sé in quanto persona prima che come membro del gruppo. Il questionario, che lo volessero o no, aveva momentaneamente messo fra parentesi il loro essere parte di un modo di sentire collettivo enfatizzando, viceversa, le specificità individuali e le differenze dagli altri rispetto all’esperienza di lavoro condivisa. Il gruppo omologava; il questionario differenziava9.
Nella prima parte del questionario, le domande puntavano a ricostruire il percorso lavorativo e formativo di ciascuno (in senso lato, cioè: attività precedentemente svolte; pratica di volontariato, scolarità, motivazioni alla scelta del lavoro attuale). La cosa che mi interessava erano gli elementi che potevano essere riferiti alle aspettative presenti al momento dell’opzione per il lavoro nel Nucleo, che poi erano apparse deluse. Ne accenno qui, perché penso che l’espressione di questo aspetto di sé sia stata una delle ragioni che hanno indotto la percezione del questionario come “occasione da sfruttare”10.
Il mese seguente diedi inizio alla restituzione, che durò per tutto il tempo dell’intervento, fino al giugno successivo. Scelsi, in pratica, di costruire il setting formativo attorno a questo strumento, e ciò per diversi motivi: il riferimento alle idee da loro espresse garantiva la possibilità di rispecchiamento; durante il processo di elaborazione, la memoria del passato poteva essere recuperata come fase evolutiva precedente di un’identità che andava trasformandosi senza cancellarsi; i dati rielaborati e organizzati – secondo criteri miei, ma corrispondenti agli item del questionario – in elenchi di risposte, tabelle, percentuali e così via, costituivano un dato di realtà oggettiva, un carattere di scientificità al quale il gruppo poteva ancorare i propri vissuti11.
Proposi, così, di strutturare ogni incontro nel modo seguente: io avrei dapprima riferito i risultati relativi a un tema proposto nel questionario. I partecipanti avrebbero poi analizzato e discusso per conto proprio i dati in piccoli gruppi di tre/cinque componenti12; nella seconda parte dell’incontro i sottogruppi avrebbero relazionato e discusso in “plenaria” delle proprie riflessioni. Si sarebbe però data precedenza a eventuali richieste di confronto su eventi legati all’attualità, sia rispetto all’operatività quotidiana, sia, in particolare, rispetto all’evolversi delle relazioni interpersonali all’interno del gruppo. Il gruppo accettò la proposta, e ci rimboccammo le maniche.
Avevo deciso di cominciare da una serie di domande centrate sulla questione degli obiettivi di lavoro13 riportate nella tabella seguente:

Tab. 1


Avevo aggregato le risposte alla Domanda 16 in tre aree: “mantenimento delle capacità residue”; “creazione di un ambiente ideale per la loro permanenza”; “miglioramento della qualità della vita”. Nella prima area, in particolare, il “mantenimento” era definito in modi diversi: “recupero; recupero di autonomia; miglioramento; ritardare il peggioramento”.
Emergevano, nelle risposte i differenti livelli di conoscenza dell’oggetto di lavoro e le diverse culture di lavoro di provenienza (gli altri reparti) di cui i differenti membri del gruppo di lavoro erano portatori; da queste ultime, in particolare, sembrava derivare la principale discrepanza nella percezione degli obiettivi, e quindi dei compiti da svolgere per raggiungerli14.
Il lavoro dei sottogruppi sul tema degli obiettivi iniziava a dare i suoi frutti, da subito. Un sottogruppo in particolare cominciava a connettere comportamenti individuali, aspettative, relazioni nel gruppo, bisogni e risorse. Riporto in sintesi la relazione che ne fece in “plenaria”:

Noi siamo oggetto di richieste da parte degli altri, che sono richieste onnipotenti: “Fatele qualcosa” [all’ospite]. Nel momento in cui il nostro fare non produce il risultato atteso/sperato, ciò produce tre possibili effetti:
- rispetto all’ospite: (“ma che fai, Bruna!”) che diventa “colpevole” del non rispondere alla nostre cure.
- rispetto a noi stessi: che cominciamo a dubitare delle nostre capacità professionali e perfino di aver scelto il mestiere giusto.
- rispetto ai/alle colleghi/e cui rinviamo l’ospite chiedendo e sperando che lui/lei riesca a fare quello che io non ho saputo (magari sperando di no, per invidia o per timore che si riveli “più bravo”).

Prendeva corpo la condivisione dell’idea dell’inevitabilità del peggioramento delle ospiti come una delle idee nuove per il cambiamento della cultura del gruppo. Era un’idea triste, precedentemente un po’ condivisa con qualcuno, un po’ vissuta in solitudine. Ora veniva ridefinita come criterio per lavorare, come metro su cui misurare i comportamenti. Implicava un lutto da elaborare e di cui consolarsi a vicenda15. Mi colpì, in seguito, il fatto che su questo tema il gruppo tornasse più volte, che ci fosse bisogno di ripetersi, come per convincersene bene, che con l’Alzheimer non c’è niente da fare; nient’altro – e non è poco – se non accompagnare il decadimento offrendo il miglior modo possibile di vivere quest’ultimo periodo dell’esistenza. Non finisce di stupirmi quanto dentro ciascuno di noi, che abbiamo scelto il mestiere dell’aiuto, siano potenti l’illusione della capacità onnipotente di guarire l’altro e la perpetua tentazione di piegare la realtà ai nostri desideri. Mi sembra notevole il fatto che questo pattern onnipotente apparisse implicitamente condiviso e quindi verosimilmente presente nelle diverse culture istituzionali di provenienza, al di là delle diversità specifiche.

Il ritorno su questo tema è appunto quanto accadde il mese successivo. Aprii l’incontro con la proposta, secondo gli accordi presi, di procedere con l’analisi dei risultati del questionario; ma un’ASA, la stessa che il mese prima aveva messo in guardia i “portatori di novità” sui pericoli di ritorsione, chiese di poter fare una domanda, e disse di non avere chiaro il senso di quello che stavamo facendo16. Utilizzai l’occasione per riprendere quanto era emerso nel precedente incontro (le aspettative deluse rispetto ai risultati con l’ospite e la tattica di rinvio al collega) e cercai di mostrare come il riuscire a costruire dei presupposti condivisi sugli obiettivi del lavoro e sul lavoro nel Nucleo in generale, potesse contribuire a modificare il modo di relazionarsi fra di loro. Da lì nacque una discussione aperta, che aveva inizialmente come oggetto i rapporti fra di loro e che non tenne più conto dell’ordine del giorno. Lo sviluppo della discussione permise una parziale ricostruzione delle vicende storiche della formazione del gruppo e, parallelamente, dei sentimenti che le avevano accompagnate: l’entusiasmo e le aspettative iniziali, la gelosia per i nuovi arrivati. Colsi a volo un commento: Adesso finalmente riesco a dare un senso al rifiuto che ho sperimentato da parte del gruppo quando sono arrivata. Allora non capivo; ora lo giustifico.
Il fuoco dell’attenzione del gruppo si spostò sul rischio di “esporsi”; come se ci si chiedesse qual è il beneficio del mostrare apertamente ciò che si è e si fa. La regola, allora, sembrava piuttosto quella del “fare confusione”, nel rendere cioè l’altro confuso attraverso una presentazione ambigua e mistificatoria di sé che permettesse di non essere visti e proteggesse dallo sguardo invidioso dell’altro17. Oppure era l’esperienza dell’esporsi inutilmente, senza ricevere in cambio lo sguardo desiderato...
Era passata un’ora. C’era come una caduta di tensione, o forse no. Non saprei dire se in quel momento nel gruppo prevalesse la soddisfazione per aver messo finalmente sul tavolo, sotto lo sguardo di tutti, una serie di problemi fino a quel momento tenuti nascosti e confusi, oppure una percezione come di impotenza di fronte a una situazione sentita difficile da modificare, incrostata di vecchi rancori. Opterei ottimisticamente per la prima delle due ipotesi; me lo suggerisce il ricordo del buon clima, appagato, che complessivamente mi sembrò di percepire.
C’era ancora tempo. La mia proposta di riprendere il lavoro sui dati non aveva riscosso molto successo, tuttavia il gruppo docilmente mi seguì; in fondo, la mia iniziativa li traeva d’impaccio. Si tornò sul tema del progressivo decadimento dell’ospite. Sotto loro dettatura, disegnai alla lavagna luminosa un grafico che visualizzava questo processo. Quella rappresentazione suscitò una reazione di riconoscimento unanime, condivisa: le cose stavano così18. Fu lo spunto per riflettere nuovamente sul doversi arrendere di fronte a ciò che è ineluttabile, ma permise anche di ricomporre i timori di ciascuno nel mostrare allo sguardo altrui i propri vissuti di inadeguatezza e impotenza. Il cerchio si chiudeva.

Il gruppo sperimentava i benefici del dire senza timori: il dissenso era possibile senza che ciò frantumasse il gruppo; l’apprezzamento poteva essere detto senza che ciò significasse seduzione. Ciò permetteva una migliore comprensione reciproca; era un nuovo codice. Il lavoro degli incontri, nel tempo diventava sempre più fattivo; i problemi – legati ad aspetti concreti del lavoro – venivano posti nella fiducia che, chiarendo il problema, sarebbe emersa la soluzione19.
Nella tabella che segue, offro una sintesi delle tematiche presenti nel questionario e rielaborate durante l’intervento formativo:

Tab. 2


Per dare un’idea di come la qualità del lavoro del gruppo di formazione andasse evolvendo, riferisco brevemente di come il gruppo lavorò sul tema delle motivazioni e aspettative dichiarate (mese di Marzo ’97). I dati del questionario erano presentati scorporati per profilo professionale (ASA, infermieri, altre figure). Il lavoro in sottogruppi aveva dato questo risultato: un sottogruppo aveva provato a trovare denominatori comuni tra le aspettative; per esempio, un rapporto più “umano” con le ospiti, un clima collaborativo, migliori strumenti, etc. Un altro gruppo aveva viceversa rilevato le diversità, sottolineando che esse potevano diventare un ambito di negoziazione, ma potevano anche significare che ognuno se ne andava per i fatti suoi; il che poneva il problema del come mettere in comune le aspettative nel quotidiano. Io commentai che esistevano delle convergenze significative su ciò che ognuno vuole per sé. Da questo dato, vero in generale, quando si scendeva nel concreto, accadeva che ciascuno intendesse diversamente il modo per realizzare le aspettative, perciò serviva “comunicare”.
Un membro del gruppo, che aveva il pallino del “comunicare”, prese la palla al balzo, ma anziché limitarsi a ripetere come solitamente faceva un’esortazione anodina e vagamente colpevolizzante, dette alcuni spunti sui modi concreti per realizzare una migliore comunicazione20. Dal suo intervento e dalla discussione che ne segue emersero:
- La valorizzazione del momento delle consegne a cambio turno come ambito di comunicazione; difficile da realizzare dal punto di vista organizzativo, ma prezioso. Io commento che è un investimento, oggi costoso, ma che se funziona alla lunga può consentire risparmi di tempo e fatica;
- Una “assistenza psicologica” esterna che aiuti la comunicazione. Io commento che loro stessi al proprio interno possono farsi da specchio, il che aiuta ulteriormente a fruire di un’eventuale aiuto esterno;
- Una valorizzazione dei Piani di Assistenza per le ospiti. Io commento: come luogo di comunicazione connessa agli obiettivi e al compito, e quindi come possibilità concreta di confronto evolutivo sulle aspettative legate a una crescita professionale.
- I piccoli gruppi di turno come luogo di migliore conoscenza interpersonale e di maggiore apertura relazionale, ma anche occasione di formazione di sottoculture.
In questo ventaglio di occasioni sono contenuti livelli diversi, che riflettevano la situazione del gruppo a quel punto21: si affermava di sentire tuttora bisogno di una “assistenza”, ma si pensava anche alla possibilità di fare da sé utilizzando diversamente le risorse offerte dalla situazione (consegne e Piani di Assistenza), in funzione sia del raggiungimento degli obiettivi, sia del soddisfacimento dei bisogni connessi alle aspettative. Addirittura, in questo senso assumevano una possibile funzione evolutiva gli scambi relazionali nei sottogruppi di turno: un fattore della situazione che mesi prima aveva costituito un rischio di disgregazione, ora veniva immaginato come utile alla crescita del gruppo22.

C’è ancora un evento che vorrei segnalare relativamente al periodo dell’intervento formativo.
In aprile, dopo che io avevo distribuito i dati sui temi del questionario all’ordine del giorno, e prima che i gruppi si dividessero, la caposala chiese di parlare. Distribuì la fotocopia di una pagina di testo sulle dinamiche di gruppo collegate alla incapacità di lavorare, sottolineando il punto relativo alla presenza di conflitti nel gruppo. Chiamando il testo “a testimone” dell’opportunità di ciò che stava per dire, richiamò il fatto che quattro persone se ne erano andate dal Nucleo. Il sottinteso era che il Nucleo è un posto invivibile e che la responsabilità andava attribuita al medico. Lei era stata mandata via, – cioè: il medico ne aveva chiesto il trasferimento all’Amministrazione – e voleva che la cosa fosse nota, “per il bene del gruppo”, e perché “accadono cose di cui lei (cioè io) non é al corrente”.
Osservai che: bene, ora tutti erano al corrente.
La cosa in realtà era nota a tutti; anche a me, che ero stato preannunciato dello scontro in atto. L’atmosfera, come è facile immaginare era tesissima.
Seguì, sotto gli occhi di tutti, un confronto molto duro tra medico e caposala in cui ciascuna descrisse i fatti dal suo punto di vista. Alla fine, dissi la mia: assumevo positivamente l’iniziativa della caposala come occasione di esplicitazione e chiarimento di conflitti non evidenti; ribadivo la positività della capacità del gruppo di occuparsi dei propri conflitti senza apparente necessità di arrivare a dinamiche di capro espiatorio; riconoscevo l’importanza del conflitto dati i ruoli coinvolti; riconoscevo l’esistenza di aspetti non chiari sul come era avvenuto il trasferimento; dichiaravo di non voler entrare nel merito del conflitto e concludevo affermando che tutto sommato era meglio così: meglio separarsi se l’incompatibilità non è ricomponibile, visto che (a parole) ambedue le contendenti si dicevano contente del trasferimento.
Il quel momento avevo in mente come obiettivo prioritario il gruppo e la sua incolumità, quindi dovevo salvare me. E sapevo che per questo, al di là dell’inutilità della cosa in sé, non dovevo assolutamente prendere parte23. Inoltre, c’erano state effettivamente, in altri ambiti dell’istituzione, decisioni di cui non sapevo nulla, e forse è stato meglio così24.
Forse non era neanche così vero che non ci fossero stati altri capri espiatorii sacrificati alle ansie del gruppo25, ma il gruppo era alla ricerca di un nuovo equilibrio e l’avvento delle “nuove idee” richiedeva a ciascun membro di lavorare su di sé, di modificare i propri “pattern psicosociali” in funzione del cambiamento. Per alcuni questo lavoro si risolveva in una nuova condizione di positiva compatibilità tra sé e il gruppo; per altri no, e allora é meglio separarsi.


Bibliografia

Neri C. (19984), Gruppo, Borla, Roma.
Newman A.D., Rowbottom R.W., Manuale di analisi delle strutture organizzative, ISPER, Torino 1969.
Pagliarani L. (1969), La co-gestione dell’ansia, “Psicoterapia e Scienze Umane”, III, 12, pp. 8-22.
Pagliarani L. (1982), L’impresa: angoscia della certezza, Prefazione a A.M. Bertolotti, D. Forti, G. Varchetta, L’approccio socioanalitico allo sviluppo delle organizzazioni, Angeli, Milano; riedito come D. Forti, G. Varchetta, L’approccio psicosocioanalitico allo sviluppo delle organizzazioni, Angeli, Milano 2001.
Trist E. (1990), Culture as a Psychosocial Process, in E. Trist e H.Murray, The Social Engagement of Social Science, Free Assn Books, London.


Note

1 Quell’incontro fu anche l’ultima occasione in cui vidi S. Nell’autunno successivo, quando tornai per iniziare il lavoro, aveva dato le dimissioni per un incarico in un’altra istituzione.
2 Dovrei dire “le operatrici”. Il gruppo contava in realtà due soli maschi, lo 0,05% del totale, che in seguito lasciarono il gruppo. Tutt’oggi esso risulta composto di sole donne.
3 Anche questo fattore appariva deteriorato dalle dinamiche di scissione prodottesi nel gruppo: le due figure organizzative responsabili del Nucleo a due diversi livelli gerarchici – e il più elevato dei due rappresentava il prezioso tramite con l’Amministrazione - erano oggetto della proiezione di sentimenti analogamente scissi, buoni e cattivi. Come spesso accade, ciò rischiava di produrre a sua volta effetti negativi sulla loro collaborazione tra le due figure e sulla funzione di leadership.
4 Il commento dell’ASA era stato che «i consigli provenienti dall’educatrice sono percepiti come rimproveri», e che «chi mostrava un metodo nuovo diventava il capro espiatorio». Interessante. Con ciò si dicevano cose diverse: era un’autocritica, venata di sensi di colpa, riferibile anche all’accoglienza riservata agli infermieri come portatori di una cultura diversa da quella delle ASA; era la denuncia di un vissuto di inadeguatezza e di una scarsa percezione di valore del loro lavoro, peraltro forse non aiutata dall’esterno per chissà quali e quante ragioni; era l’esplicitazione della strategia di attacco e fuga utilizzata per difendersi. Infine era un avvertimento – che in quel momento sentivo rivolto anche a me – sul destino che sarebbe toccato a chiunque non avesse tenuto un atteggiamento rispettoso nei loro confronti.
5 A posteriori, mi pare che quello sia stato l’inizio di un riappropriarsi ufficiale, “pubblico”, del suo ruolo di leader del gruppo.
6 Se proviamo ad applicare, seppure a grandi linee, il classico schema di analisi della situazione organizzativa della Menzies (1959) scopi/bisogni/risorse, emerge – per il momento – quanto segue:
- Gli scopi. Scopo dichiarato del gruppo è la “cura” del soggetto Alzheimer. Come si vedrà, gli obiettivi e i compiti derivanti da questa definizione generale dello scopo, contenevano letture personali diverse.
- I bisogni. Dalle dichiarazioni, ma più ancora dai comportamenti individuali e collettivi, scaturiva soprattutto un bisogno di riconoscimento del proprio valore professionale, connotato principalmente come capacità relazionale. Erano le ASA, come ampiamente emerso, ad esplicitare questo bisogno brontolando e ribellandosi.
- Le risorse. C’erano, e molte, ma la situazione le rendeva visibilmente mal utilizzate. La più importante era costituita dalla spinta motivazionale di chi aveva scelto il gruppo, cui corrispondeva tuttora un senso di appartenenza; l’organico era al limite rispetto al carico di lavoro, che era considerato pesante, ma non insopportabile. Il problema stava piuttosto – ancora una volta, per le ASA - nel risultare eccessivo rispetto ai compiti. Ma quali erano i compiti? Inoltre: non mancavano occasioni di formazione, ma venivano giudicate insufficienti e sconnesse da una visione complessiva del lavoro, in sé carente. Infine, come già accennato, il gruppo poteva contare su un valido sostegno da parte dell’istituzione madre.
La Menzies sostiene che una buona situazione richiede che i tre ordini di fattori siano in equilibrio, cioè reciprocamente adeguati. I semplici dati di cui sopra, se letti secondo lo schema, mostrano che il gruppo non disponeva di una visione sufficientemente chiara e condivisa di quali fossero i bisogni soddisfacibili attraverso il perseguimento di quali obiettivi con quale modalità di impiego delle risorse. Questa era la direzione del cambiamento necessario e indicava l’orientamento del lavoro di formazione.
7 Bisogna distinguere. Nella situazione specifica esistevano aspetti di realtà connessi al sistema organizzativo dell’istituzione che collocavano il gruppo e le ASA in particolare, in una posizione di dipendenza: la massima parte dei fattori che costituivano la situazione di lavoro attuale non era frutto di una loro decisione, dunque, in questo senso l’aspettarsi qualcosa era corretto e realistico; altra cosa è un atteggiamento di dipendenza derivante da vissuti profondi a tipo assunto di base (Bion, 1961), cui corrispondono attese grandiose e irrealistiche e una tendenziale incapacità del gruppo di utilizzare i dati di realtà nel dedicarsi al compito. “Compito” qui è detto sia in riferimento al livello del mandato di cura dell’ospite Alzheimer, sia a quello del gruppo di formazione che doveva curare sé del proprio disagio.
Analoghe considerazioni vanno fatte per l’ambivalenza dei sentimenti. Il gruppo aveva le sue buone ragioni per essere diffidente: sentiva di essere stato ferito e disatteso. E chi ero io, mandato dall’istituzione, perché il gruppo dovesse fidarsi di me? D’altro canto, se questo guado non fosse stato superato, non sarebbe stato possibile lavorare insieme. In quel momento si rendeva necessario disporre di un clima di armistizio per verificare la possibilità di un’alleanza formativa. Il fatto che ciò sia stato possibile, mostra a posteriori che le ansie persecutorie nel gruppo non erano al momento così forti da vietare di abbassare le difese. Non tanto, quello che bastava.
8 Ossia un contenitore. Il riferimento è a Bion (1970) e alla sua metafora del contenitore/contenuto. La “Descrizione 1” che ne dà («Chiamo contenuto e contenitore i segni F e C. L’uso dei simboli maschile e femminile è voluto, ma non deve far pensare che implicazioni diverse da quella sessuale siano escluse. Questi segni designano un rapporto tra C e F. Tra di essi può vigere un legame conviviale, simbiotico o parassitario», tr. it. pag. 145), richiama quella relativa al rapporto tra il gruppo e il mistico («Il rapporto tra il gruppo e il mistico può appartenere a tre categorie. Esso può essere conviviale, simbiotico o parassitario», id., pag. 106). Il problema soggiacente è quello della possibilità di sviluppo – e quindi di cambiamento – in un individuo, in un gruppo o una società, sotto la spinta delle “idee nuove” di cui il mistico è portatore: «L’individuo eccezionale di Bion è un genio ed un mistico, che ha legato il suo destino non all’azione immediata, ma alla possibilità di pensare ciò che non era ancora mai stato pensato. Le sue vicende, e le vicende del gruppo di cui è espressione, coincidono dunque con quelle dell’ampliamento della capacità di pensiero, di provare emozioni, di vivere sentimenti» (Neri, 1987).
L’avvento di una “idea nuova”, è tuttavia percepito dal gruppo – nella fattispecie - come minaccioso, un mutamento catastrofico (Bion, 1966, 1970) poiché implica «una sovversione dell’ordine o sistema delle cose; è catastrofico perché risveglia sentimenti di disastro nei partecipanti e perché appare in forma brusca e violenta» (Grinberg et al., 1972). Tuttavia esso costituisce un rischio necessario, connaturato alla transizione da un rapporto di tipo conviviale, di coesistenza pacifica ma sterile, «fallimentare per la staticità e la non corrispondenza tra gli elementi» (Baroni e Fadda, 1987) a un altro di tipo simbiotico, fecondo questo, «vantaggioso per entrambi: le idee del mistico-genio sono analizzate e apprezzate, i suoi contributi generano ostilità o benevolenza. Questa relazione produce crescita, tanto nel mistico-genio come nel gruppo, benché questa crescita non sia sempre facilmente riconoscibile» (Grinberg et al., cit.). Per completezza, il legame parassitario è caratterizzato dalla presenza di invidia distruttiva per entrambi i termini della relazione.
Affinché l’accoppiamento (FC) tra il mistico e il gruppo possa produrre un cambiamento benefico, si rende necessaria la presenza di una funzione specifica del gruppo, l’Istituzione, (Bion, 1977). Essa ha lo stesso ruolo che è svolto dal gruppo di lavoro specializzato (GLS) rispetto agli assunti di base ma, mentre il GLS era pensato (Bion, 1961) principalmente come contenimento delle spinte regressive, nell’idea di Istituzione è enfatizzata e precisata la sua funzione nel processo di cambiamento del gruppo e rispetto al ruolo del mistico; ossia, in sintesi, deve da un lato garantire la continuità del gruppo contenendo le spinte alla frammentazione che si producono nel processo di sviluppo, dall’altro rendere accessibili al gruppo le nuove idee «sotto forma di leggi scientifiche, prescrizioni tecniche, modelli di comportamento, ecc.» (Neri, 1998).
9 La mia ipotesi è che il questionario abbia funzionato, nel caso del Nucleo, come un aspetto fondamentale dell’Istituzione per il cambiamento. Penso alla distinzione che Bion (1961) pone tra due modi di percepirsi della persona in relazione al gruppo: «[…] in quanto membro si identifica con l’assunto di base […] in quanto individuo maturo si identifica […] con la struttura puramente razionale […]». Nel momento della compilazione del questionario le persone erano separate dal gruppo; io, e non il gruppo, ero il discreto destinatario delle loro opinioni. In questo modo si rispondeva ad alcune delle funzioni attribuite all’Istituzione: la “tradizione” del gruppo, identificata nell’ossequio alle opinioni e ai modi di pensiero in esso presenti erano salvi, ma contemporaneamente le “nuove” idee (in quanto sarebbero servite al cambiamento) potevano essere espresse. A me era affidato il compito di renderle fruibili.
10 La collego ad un concetto di Pagliarani (1982) che si colloca esattamente alla radice del processo di cambiamento possibile secondo la metafora bioniana dell’accoppiamento (FC). Pagliarani, partendo dall’osservazione che l’esistenza dell’uovo fecondato non dipende inizialmente dall’ambiente uterino materno, afferma: «Stupefacente. Il primissimo periodo di vita embrionale del nuovo individuo sarebbe autosufficiente […] L’individuo, quindi all’inizio è autonomo; l’alimento e la crescita gli vengono dal suo telos, dalla sua germinabilità. Dopo di che sarà in simbiosi. Per me è di grande importanza che anche geneticamente la capacità preceda il bisogno. La germinabilità è primaria”. Cioè a dire che nel momento della compilazione del questionario le loro storie-idee-aspettative (F) erano autonome da me (C) e dal gruppo formativo; solo successivamente, attraverso la mia elaborazione dei dati, sarebbero diventate mie (F)“idee nuove” da restituire a loro in quanto gruppo (C) nella prospettiva di una feconda relazione simbiotica.
11 Questo diventava anche il modo per contenere le mie ansie di fronte ad una situazione che, in presenza di strutture difensive non ancora sufficientemente evolute, rischiava ogni momento di frantumarsi, non permettendomi di reggere adeguatamente il ruolo di capo di un gruppo di lavoro (nel senso di Bion e Rickman, 1943). Quest’ultima questione è approfondita da Marcoli (1988 e in particolare 1990) che, detto in sintesi, riassume la funzione del capo nell’essere “garante” del mantenimento della capacità del gruppo di lavorare nella realtà ponendosi come polo identificatorio delle capacità di lavorare nella realtà di ciascun partecipante del gruppo di Lavoro.
12 Avevo dato la consegna che i sottogruppi contenessero per quanto possibile rappresentanti delle diverse professioni presenti nel Nucleo, e che venissero ricostituiti ogni volta. Mi interessava che lo scambio fosse più ampio possibile.
13 Avevo in mente un vecchio – ma direi ancor valido – modello di analisi dei livelli di percezione della situazione organizzativa (Newman e Rowbottom, 1969) distinta in:
- Situazione formale: la situazione come è formalmente descritta, codificata o fatta apparire;
- Situazione presunta: la situazione come è ritenuta essere dalle persone nell’organizzazione;
- Situazione effettiva: la situazione come appare da indagini e analisi sistematiche;
- Situazione richiesta: la situazione come dovrebbe essere per soddisfare meglio un dato contesto di esigenze.
Il livello della “situazione presunta” era desumibile dalla descrizione degli obiettivi che ciascuno riteneva fossero gli obiettivi di lavoro del gruppo e suoi propri (domanda 16); dalla percezione dei risultati (domanda 17) e dell’attribuzione di responsabilità (domanda 18). Sottolineo che già nell’incontro preliminare, e successivamente confermati nell’incontro del mese di ottobre, erano emersi accenni al fatto che gli obiettivi erano “probabilmente sbagliati”; «troppo “ambigui” rispetto al deterioramento degli ospiti».
14 Miller e Gwynne (1972a) condussero uno studio pilota sulle culture organizzative delle istituzioni residenziali per disabili. Poiché – affermano gli autori – il mandato sociale consiste nel «provvedere a persone socialmente morte nell’intervallo tra la morte sociale e la morte fisica» e «gli unici prodotti sono pazienti morti», istituzioni di questo genere riformulano un così triste compito distorcendolo e producendo due differenti modelli culturali polari: il “modello deposito” (warehousing model), basato unicamente sull’obiettivo del prolungamento dell’esistenza in vita dell’ospite, e il “modello serra” (horticultural model), basato viceversa sull’idea di una non realistica riabilitazione del disabile. La cultura istituzionale chiede agli ospiti di adeguarsi al modello e agli operatori di identificarsi in essa, offrendo in cambio a questi ultimi, una copertura difensiva dalla ansie connesse a compiti così terribili. Il lavoro di Miller e Gwynne è citato – tra gli altri; cfr. Miller e Gwynne (1972b) - da Hinshelwood (2002), che analizza la questione della “cultura” a partire da un contributo di Eric Trist (1990 [1950]). Afferma Hinshelwood: «In termini psicoanalitici, l’uso di Trist di “cultura” è il mondo interno della persona in un certo scambio dinamico con la cultura esterna [...] La cultura di un gruppo, organizzazione o società è riflessa in una versione parzialmente idiosincratica, internalizzata nel singolo membro. Queste “culture” interne che lui chiama “pattern psicosociali” caratterizzano i mondi interni delle persone che partecipano. Nello stesso tempo, questa cultura interna è esternalizzata come influenza sulla cultura reale dell’organizzazione».
Nel caso presente, le diverse “culture” di provenienza degli operatori, entravano in conflitto; ma più ancora, seguendo Hinshelwood, i conflitti chiamavano in causa le diverse organizzazioni “interne” dei singoli partecipanti di cui la disorganizzazione nell’attività del Nucleo era l’immagine visibile.
15 «Questo procedimento di aiutare un gruppo a portare alla luce ed identificare alcune delle influenze meno ovvie sul proprio comportamento è mutuato dalla psicoterapia medica, dalla quale è pure mutuato il termine di working-through. Esso presuppone che un consulente, addestrato alle terapie di gruppo, possa accedere ad un gruppo che accetta il compito di esaminare il proprio comportamento come e quando esso si verifica; ad un gruppo cioè capace di imparare a riconoscere, con l’aiuto di commenti interpretativi, un numero crescente di forze, sia interne che esterne, che influenzano il suo comportamento. Ci si aspetta quindi che il gruppo acquisisca una maggiore capacità di sopportare inizialmente penose introspezioni di fenomeni quali la ricerca di un capro espiatorio, la rivalità, la dipendenza, la gelosia, il senso di inutilità, l’abbattimento [...] Quando parliamo di un gruppo che effettua il working-through di un problema, intendiamo assai più di ciò che comunemente si vuol dire dicendo che si è discusso ampiamente di un problema. Si vuol dire che si è fatto un serio tentativo per dare espressione a difficoltà non identificate, spesso “tabù” da un punto di vista sociale, che hanno impedito di portate avanti qualsiasi compito» (Jaques, 1951)
16 In questo passaggio mi sembra di poter cogliere un movimento importante. E’ come se, pur mantenendo un sano atteggiamento diffidente, quella persona fosse riuscita ad andare oltre lo schema iniziale «straniero, perciò alieno, perciò nemico» (Fornari, 1972). Ciò che era sconosciuto (l’Unheimlich freudiano) appariva tuttavia in qualche modo familiare, riconoscibile come proprio, e lei chiedeva a me strumenti – ermeneutici - per potersi avvicinare a questo strano oggetto.
17 «Mistificare in senso attivo significa confondere, annebbiare, oscurare e mascherare quel che accade, si tratti di un’esperienza, di un’azione, di un processo o di qualunque altra “questione”. Genera confusione nel senso che non si percepisce ciò che veramente si sente o ciò che si fa o ciò che sta avvenendo. Questo comporta la sostituzione delle costruzioni vere di quello che è esperito, che è fatto (prassi), o che sta avvenendo (processo), con costruzioni false, e la sostituzione di questioni reali con questioni false. […] La funzione principale della mistificazione sembra essere il mantenimento dello status quo.» (Laing, 1965)
18 Quella rappresentazione era sentita come vera e pertanto utile al lavoro che stavamo facendo. In I disturbi della capacità di lavorare, Elliott Jaques (1960) propone, riferendosi a Freud (1911), un modello del lavoro mentale inteso come «l’energia psichica o lo sforzo spesi per raggiungere una meta, un obiettivo, tramite la messa in opera del principio di realtà e di fronte alle richieste del principio di piacere». Il lavoro è descritto attraverso un processo in sei stadi - considerati in sequenza per esigenze di esposizione, ma in realtà interagenti simultaneamente – il terzo dei quali prevede la creazione di un reticulum integrativo. Quest’ultimo «è lo schema mentale dell’oggetto completato e dei mezzi per crearlo, organizzato in modo che le lacune, sia della rappresentazione dell’oggetto sia nei metodi per crearlo siano state fissate. Consciamente è una combinazione di teorie, concetti, ipotesi, nozioni, tecniche, spunti. Inconsciamente è una costellazione di sensazioni di idee e di ricordi, fantasmi e oggetti interni, amalgamati e sintetizzati nella proporzione necessaria al comportamento diretto, anche se non abbastanza per diventare consci». Bléandonu (1990) ricorda che Bion trasse il modello della crescita del contenitore (C) dal reticolo di Jaques. Non avevo presente la cosa, e sono andato a controllare Bion (1962) in proposito; e Bion afferma: «Come modello dello sviluppo di (C) mi servirò del concetto di reticulum (ordito) elaborato da Elliott Jaques […] Il modello che io propongo è questo: (C) si sviluppa per aggiunte fino a produrre una serie di manicotti congiunti fra loro. Ne risulta un reticolo i cui spazi vuoti sono i manicotti, mentre i fili che ne formano la trama sono emozioni. Se traiamo da Tarski [Introduction to Logic, Oxford, 1956. Nota di Bion] l’immagine del questionario con gli spazi vuoti da riempire, possiamo paragonare i manicotti a questi spazi vuoti del questionario, e possiamo paragonare i fili che formano la trama del reticolo alla struttura del questionario». Senza saperlo, il gruppo stava più o meno mettendo in pratica una metafora di Bion!
Il processo di lavoro mentale di Jaques continua con un’attività di elaborazione del reticulum – si potrebbe dire “del questionario”, a questo punto – in cui il working-through è finalizzato a produrre l’assetto migliore per la conclusiva azione nella realtà. Ciò richiede di scegliere quali contenuti e come collegarli tra loro; la scoperta degli elementi utili è così descritta da Jaques: «Gli elementi liberati sono mentalmente provati per riempire le lacune del reticulum; quelli che combinano bene vengono trattenuti. La sensazione derivante è quella dell’insight, di nozioni che funzionano improvvisamente e bene [In originale click. Si potrebbe anche dire “che scattano”. NdT]». In Bion (1967) si ritrova questa stessa tensione verso la “buona combinazione” e lo stato emotivo ad essa connesso: «Se i dati messi in correlazione tra loro vengono ad armonizzare, la sensazione che si accompagna a questo fatto è quella di essere nel vero: si desidera allora dare espressione a tale sensazione a tale sensazione attraverso un enunciato, analogo a una proposizione di certezza».
19 Ritrovavo in questo un altro elemento descrittivo del working-through: l’atteggiamento della Capacità Negativa di Keats «cioè quella capacità che un uomo possiede se sa perseverare nelle incertezze attraverso i misteri e i dubbi, senza lasciarsi andare a una agitata ricerca di fatti e ragioni». Bion (1970) la ridefinisce come “pazienza” da conservare «fino a che non “si sviluppi” uno schema»; associata alla “sicurezza” depressiva susseguente ad un’interpretazione corretta. «Secondo me, - afferma Bion - l’esperienza di quest’oscillazione tra la “pazienza” e la “sicurezza” costituisce un indice del fatto che si sta realizzando un buon lavoro».
20 Colgo in questo diverso atteggiamento, proprio in quel membro, un movimento dal livello degli assunti di base a quello del Gruppo di Lavoro.
21 Per inciso, era stato affermato che, relativamente alla percezione di riconoscimento del proprio ruolo da parte delle ASA «la situazione dal settembre scorso è cambiata».
22 Mi chiedo se i sottogruppi di turno non abbiano svolto durante questa fase del lavoro del gruppo una funzione di gruppo di lavoro specializzato (Bion, 1961), offrendo al gruppo del Nucleo la disponibilità di un contenitore per esprimere le emozioni più regressive presenti nel gruppo, e nel contempo «impedire che queste siano di ostacolo alla funzione del gruppo di lavoro principale».
23 I sentimenti della caposala sono immaginabili e comprensibili, ma avevano prodotto in lei un atteggiamento di rivalsa del tipo “muoia Sansone”. Le fotocopie sulle dinamiche di gruppo erano un attacco a me, che venivo esautorato come portatore di “nuove idee”: nella migliore delle ipotesi ero uno sciocco incompetente strumentalizzato dal medico; nella peggiore, ero un losco personaggio colluso con il potere. D’altro canto, le critiche espresse dalla caposala si collegavano a disagi e conflitti effettivamente sperimentati dal gruppo, che non potevano né dovevano essere misconosciuti. Inoltre, gli unici dati di realtà su cui tutti - cioè i presenti - potevano lavorare si riferivano all’hic et nunc; il resto erano vissuti personali, identificazioni proiettive e introiettive e quant’altro. Prendere parte non avrebbe risolto una questione che era già stata decisa altrove; viceversa, avrebbe avuto come esito il recedere da parte mia dal ruolo di garante del Gruppo di Lavoro per colludere in una dinamica di attacco e fuga.
24 Penso alla raccomandazione di Bion (1970) di sospendere memoria, desiderio e comprensione, valida nel lavoro analitico. Qui non è lo stesso: nel lavoro con i gruppi e le istituzioni, alla realtà storica non può essere negato il peso che le spetta (Fornari, 1971), ma credo che se mi avessero “tirato dentro”, per esempio coinvolgendomi nelle decisioni da prendere sul caso, questo avrebbe potuto rendermi più difficile il “restare fuori”, nel ruolo di formatore. Qualcosa di analogo era accaduto in gennaio, quando c’era stata una trattativa sindacale che aveva coinvolto aspetti del lavoro su cui il gruppo si stava applicando e c’erano stati tentativi di mescolare i due livelli, cosa da cui – pur sentendomi d’accordo nel merito, ma non lo dissi – presi le distanze. Bion (1970) afferma: «Nell’associazione parassitaria [cfr. Nota 3] perfino l’amichevolezza è mortale. Un esempio facilmente riconoscibile di ciò è dato dal gruppo che promuova l’individuo ad una posizione nell’istituzione deviando in questo modo le energie dell’individuo stesso dal ruolo creativo-distruttivo e assorbendole in funzioni amministrative. A tale individuo potrebbe addirsi l’epitaffio: “Fu coperto di onori ed affondò senza lasciare traccia”».
25 Un anno dopo, nel corso di una telefonata per accordi, un membro del gruppo mi diceva che «i vecchi problemi non sono risolti» e che c’erano stati «altri capri espiatorii». Due anni dopo si verificò un’altra situazione di inconciliabile incompatibilità tra un’educatrice e il gruppo; ma in questo caso, viceversa, non ritengo si potesse parlare di “capro espiatorio”.
26 Dalla tesi di un mio studente ho appreso che SEL è la stessa radice indoeuropea da cui originano “salute” e “solidarietà”: non ci si salva da soli.
27 La nuova caposala – insieme al medico responsabile – ha assunto pienamente il ruolo di garante del gruppo di lavoro (Bion, 1961). Nel suo modo di relazionarsi al gruppo è sempre riconoscibile un tenace ancoraggio alla realtà e al non dare niente per scontato. Questo non significa che l’affettività ne resti esclusa: i movimenti affettivi che accompagnano i contenuti del lavoro sono dichiarati e integrati nel reticulum dell’oggetto su cui il gruppo sta lavorando
28 «Uno dei momenti cruciali di un intervento socioanalitico si ha quando il gruppo sperimenta che le sue tendenze distruttive non sono poi – alla prova dei fatti e degli scontri – così drammatiche come paventava (timore questo che partorisce tutta una serie di ipocrisie, reticenze, distorsioni nell’informazione, guerre sotterranee, ecc.), per cui si ha una sorprendente spinta alla costruttività del gruppo e all’espansione delle persone, proprio perché l’aggressività fantastica si rivela in realtà tollerabile e controllabile […]» (Pagliarani, 1969).
29 Una tecnica della riabilitazione che sta formandosi sul metodo Validation (Feil, 1992), lo ha proposto al gruppo. Di fatto, per i presupposti teorico-metodologici del modello, esso si presta efficacemente a rispondere all’aspettativa di una relazione “più umana” con l’ospite. Esso sta diventando uno strumento di lavoro e già funziona come codice di comunicazione fra operatori. Oltre al Validation, il gruppo sta prendendo in considerazione altri approcci al paziente Alzheimer.
30 Il numero degli ospiti verrà aumentato e il Nucleo sarà aperto anche a pazienti di sesso maschile, cosa del tutto nuova. Anche il numero degli operatori crescerà, con le prevedibili ripercussioni sull’assetto del gruppo; cosa di cui peraltro il gruppo è ben consapevole.
31 Il pensiero lewiniano fu ben presente nel Tavistock fin dalla sua nascita e del resto, nei testi dei suoi autori non mancano i riferimenti alla teoria del campo (vedi p.e. l’Introduzione in Jaques, 1951): «Le finalità del nuovo Istituto, tuttavia, andavano oltre i confini della medicina [il riferimento è alla Tavistock Clinic, da cui l’Institute si staccò nel 1947]. Esisteva inizialmente uno stretto collegamento con il Research Centre for Group Dynamics – all’epoca al Massachusetts Institute of Technology, poi all’University of Michigan – e col suo direttore, lo scomparso Dr. Kurt Lewin. [Lewin, come è noto, morì l’anno seguente; Elliott Jaques ne firmò un necrologio su Human Relations]» (Gray, 1970)
32 Mi sembra che quanto Di Stefano (1987) richiama a proposito del concetto bioniano di vertice venga a proposito. Il Bion delle Esperienze nei gruppi si domandava: «Che gruppo è mai questo che prova ostilità e non mostra simpatia per il suo stesso compito […]? Ho la sensazione come di guardare al microscopio con una sezione troppo spessa. Con un fuoco vedo una certa immagine, forse non del tutto chiara, ma abbastanza distinta. Se cambio fuoco molto lentamente ne vedo un’altra». Da cui «la necessità di usare una tecnica che permetta di cambiare continuamente punti di vista». Ossia, di passare da un livello all’altro.



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