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C.P.A.T. --> HOME PAGE --> N. 35-36/2002

QUADERNI DI PSICOLOGIA,
ANALISI TRANSAZIONALE
E SCIENZE UMANE

Dal n° 35-36/2002


"Io lavoro per i figli del futuro"
Boubakar, Senegal


Cristina Capoferri



Riassunto

Una traversata con i compagni di viaggio di altri paesi, che nella ricerca di sé cercano gli altri, pensando all’incontro tra i figli loro, che ancora non hanno, e i figli nostri... pensando ai figli del futuro...

Abstract

I work for children of the future (Boubakar, Senegal)
A journey with other travel mates that are searching themselves looking for the others, thinking at the encounter between their not yet born children and our children... thinking at children of the future...

Il mio viaggio con “Il mondo nell’Isola” (un gruppo che raccoglie numerose persone provenienti da Senegal, Albania, Marocco, Mali, Bolivia, Filippine, Nigeria, ecc.) inizia nel novembre del 2000.
Una storia dagli sviluppi impensati, e impensabili ancora oggi, che si sviluppa all’interno di un progetto sovracomunale nell’Isola, territorio a sud-ovest della provincia di Bergamo, relativo alla Legge 40 sull’immigrazione. Riguarda una vasta area che offre lavoro agli immigrati, e in cui l’accoglienza e l’ascolto dei nuovi arrivati sono affidati prevalentemente al volontariato, specie nei piccoli comuni. Solo in città e in alcuni grossi centri c’è un punto di riferimento istituzionale.
Così, con la Legge 40 alcuni comuni dell’Isola si organizzano, nel tentativo di rispondere ai bisogni emergenti, tentativo che diventa motore di altri progetti tuttora in corso, in un interessante intreccio di collaborazioni tra più attori del pubblico (Comuni, ASL, Centro formazione adulti) e associazionismo.
La filosofia di fondo del progetto, discussa e condivisa nei tavoli di lavoro, è la consapevolezza che ciò che avviene e che stiamo vivendo non è solo un’emergenza cui far fronte, o un momento transitorio della nostra storia, quanto «una situazione non più reversibile, che porta con sé cambiamenti consistenti e di lunga durata, cambiamenti che modificano la nostra visione del mondo e comportano una attenta elaborazione del modello culturale e sociale a cui finora ci siamo riferiti» (Rotondo, 1999).
L’intento è governare il cambiamento guardando in avanti, prendendo atto di queste considerazioni, creando spazi e occasioni di accoglienza, di incontro, di confronto.
Parallelamente si vuole evitare la logica assistenzialistica e lavorare con la persona immigrata per facilitare il suo rendersi soggetto attivo nel progetto migratorio.
Nella costellazione delle attività messe in cantiere, apertura dello “Sportello Unico Immigrati”, corsi di formazione per operatori dei servizi, corsi di alfabetizzazione per adulti stranieri, conferenze e dibattiti aperti alla popolazione, si svolge un corso di formazione per immigrati.
Inizialmente l’intento dello staff di progetto, di cui faccio parte come responsabile scientifico, è quello di individuare persone straniere residenti nella zona, disponibili a fare da interfaccia tra territorio e immigrati, quindi coinvolgibili in attività di interpretariato, con attenzione alla facilitazione interculturale nella scuola, negli uffici comunali, negli sportelli immigrati e con le associazioni.
Si ipotizza anche la promozione di scambi culturali ricreativi ed educativi con il territorio.
Ci si ritrova sempre a lavorare per gli stranieri e mai con gli stranieri, ci diciamo.
Per facilitare il dialogo tra immigrati e comunità sentiamoli e cerchiamoli! Spesso iniziative pregevoli e dispendiose hanno connotazioni salvifiche e si dimenticano della possibilità di avere un partner competente rispetto all’immigrato, e cioè l’immigrato stesso.

La collaborazione con persone immigrate è motivata anche dalla convinzione che sono loro che hanno le reti di relazione nel territorio, risorse, sensibilità, conoscenza costruita e vissuta e competenza circa l’esperienza migratoria. Il tentativo è cercare di creare alcune condizioni per favorire il contatto e la comunicazione tra immigrati e comunità, di ricercare modi per conoscere, per conoscersi, per farsi conoscere, per promuovere momenti di scambio culturale con il territorio, per creare una rete informale di risorse e di solidarietà che possa facilitare i nuovi arrivati e i membri della comunità locale.
Accade che alcune delle persone che hanno frequentato il corso, continuino a vedersi e incomincino a farsi conoscere nelle scuole del territorio e nelle feste. Attraverso i canali dell’animazione, della musica, della danza e della cucina, portano ai bambini e agli adulti le loro storie e le loro tradizioni; dopo l’11 Settembre propongono anche una marcia per la pace, si danno un nome “Il mondo nell’Isola”.
Il “Mondo” perché arrivano da tutte le parti del globo, Hawa è una giovane donna del Mali, Boubakar è senegalese, Mirvien è albanese, Ahmed è marocchino, Cyril è nigeriano, Tatik è indonesiana, Teresa è peruviana...e altri ancora... “Isola” perché il territorio in cui adesso vivono si chiama proprio così. Curiosità della storia, sembra che questa denominazione risalga al fatto che anticamente questa fosse una zona isolata, appartata, fuori dalle vie di comunicazione e poco sviluppata...

Il gruppo non ha attese lavorative, tutti hanno già una collocazione in tal senso, hanno anche in un qualche modo risolto, magari provvisoriamente, il problema dell’alloggio, c’è chi ha problemi con la regolarizzazione. La volontà espressa è di continuare a lavorare insieme per l’integrazione, in regime di volontariato o semivolontariato. Un gruppo composito, “plurale”, di persone che hanno energie, risorse e volontà positive, che hanno voglia di proporsi come testimoni di altre culture.
«Non è sufficiente stare gli uni accanto agli altri, ci vogliono momenti in cui ci si parla. L’animazione interculturale serve ad aprire le finestre sui mondi degli uni e degli altri», spiegano nel loro progetto.
Le prime esperienze di incontro, di contatto con i bambini e con gli adulti, creano entusiasmi e difficoltà, è a questo punto che la referente del gruppo, un’assistente sociale boliviana, mi chiama, «Non ci si capisce più niente! Abbiamo bisogno di qualcuno di esterno». La richiesta dichiarata ha a che fare col ruolo e il senso del lavoro del gruppo nelle scuole e nel territorio.
Inizia così il mio lavoro con “Il Mondo nell’Isola”, con questo gruppo atipico, multietnico, “variopinto”, in cui varia il focus, variano le persone, varia il setting, variano i tempi, le lingue parlate...
È difficile raccontare, dare forma e organicità alle vicende di una traversata che fa sentire anche me un po’ migrante. È questa una narrazione che procede dunque un po’ frammentata, che procede a balzi e ad arresti, specchio forse dell’esperienza che sta documentando.
Un traghettamento col Mondo nell’Isola tra le isole; condurrò il gruppo insieme all’assistente sociale che lo segue e lo accompagna negli aspetti progettuali e pratici relativi alle attività. Una straniera e un’italiana, co-conduttrici di un gruppo che all’inizio è costituito solo da stranieri.

L’incontro

Occasionalità e confusione
I primi incontri non hanno un calendario, sono occasionali, affidati al tam tam...
Una girandola i focus esplicitati, c’è chi chiede una verifica del lavoro nelle scuole e un aiuto sul come fare interventi a seconda dell’utenza, chi un affiancamento nelle situazioni di difficoltà nel contatto coi bambini, chi non condivide e vuole naturalezza e spontaneità, chi domanda che cos’è questa cosa... chi vuole una supervisione circa la gestione dei conflitti interni al gruppo... chi pensa a una futura associazione... e altro ancora...
In realtà nella gestione delle attività sono autonomi e competenti, da subito parlano di altro. Le esperienze con gli “autoctoni” sollecitano urgenze diverse rispetto a quelle dichiarate: sconforto, paure, nostalgie, pezzi di storia personale, fanno risuonare ricordi...
Emergono bisogni sommersi, legati alla dimensione del tempo libero, della socializzazione, della paura, della solitudine... dello sperdimento...e risorse, energie plurali sconosciute...
Non è un lavoro sull’emergenza quello che si prospetta, le persone con cui lavoro non portano bisogni “primari”, né sintomi o patologie, siamo in un’altra fase, che ha a che fare con l’essere qui e il restarci, per ora...per tanto...per sempre...spesso non sanno...e i modi dell’essere qui...il non essere là...
Una situazione nuova, un gruppo multietnico, la diversità materializzata intorno a un tavolo, la consapevolezza della necessità di procedere con “leggerezza”.

Le urgenze, la paura, di chi arriva e di chi accoglie: 24/2/2002
H - Hawa
B - Boubakar
M - Mirvien
L - Laura
A - Ahmed
T - Tatik
I - Iwule
C - Conduttore

B: io non lo dicevo per andare a scuola magari facciamo una riunione con adulti spiegare per inserirci un po’ con adulti ci vuole organizzazione come le musiche multietnici...cibo multietnico come quella...che abbiamo fatto a Terno
M: Può essere...
B: Era pieno di persone l’8 luglio
C: Come avete fatto a Terno?
B: Abbiamo fatto un pranzo multietnico era pieno pieno pieno di italiani
H: Comunque all’inizio ci è andata male perché non volevano neanche toccare il cibo
C: Ah sì?
(...)
H: Quella che abbiamo fatto a Terno non volevano neanche toccare il cibo
B: Il primo giorno è quasi sempre... sempre sempre... anche tra di noi stranieri
H: Avevano paura
B:...c’è sempre un piccolo dubbio...
C: Hanno paura
H: Avevano paura
I: Hanno paura...perché non sanno...
B: C’erano cose che non sapevano quindi...
H: Va be’ comunque almeno una curiosità... paura...però...
C: Aspetta che stava finendo Bouba
B: Alla fine vedete che sono riusciti anche a venir lì a guardare i cartoni...a venire a dire...quello che abbiamo fatto gli ultimi giorni no...ma sempre il primo giorno c’è un pochettino di difficoltà sempre c’è...sempre c’è...
I: Sì non è facile...
B: Non puoi partire alla grande il primo giorno
I: Eh piano piano...
C: Non puoi partire alla grande
I: Piano piano
B: Non puoi partire...il primo giorno...hai sempre la difficoltà di...Così possiamo...
Vedete che io...Quello che abbiamo fatto l’anno scorso con la sinistra giovanile...
M: La festa di Valtrighe...
B: Adesso mi chiedono i miei colleghi di lavoro che erano venuti l’anno scorso mi chiedono se quest’anno fanno la stessa cosa...
M: Eh sì...
B: Vogliono venire lì ad ascoltare i tamburi, la musica e mangiare cibo senegalese

Si parla della preoccupazione degli uni, è riconosciuta la paura degli altri, vedo un momento di decontaminazione, al non avvicinarsi, al non voler toccare viene dato un nome...paura, l’Adulto del gruppo è attivo...
Così, parlando di una festa e di cibo, dei piatti tipici che loro hanno portato, un modo per presentarsi, per comunicare, si parla di paura, quella paura presente nei rapporti tra individui, tra popolazioni, la paura dell’invasore. «Su questa paura (la-vera-xenofobia, la vera malattia) si innesta la reazione difensiva, il comportamento razzista. I soggetti psicologicamente più fragili (e più violenti) si ergono a difensori della società, e scatenano aggressioni. Se pensiamo alla società come a un essere vivente, qualunque psichiatra dirà che ciò che bisogna davvero curare è la paura». (Mazzetti, 1996)
La paura viene vista, e, un’indicazione per tutti, va accolta, curata, ascoltata, c’è bisogno di pazienza e di spazio per l’incontro... I: Eh piano piano...
Accade in una festa quello che accade nel loro essere qui, le difficoltà dell’integrazione, la paura e la speranza, il bisogno di tempo...

La solitudine e la malinconia: 10/7/02
A: Parlo dalla mia parte io se non c’è il gruppo non so come vado io... fuori di testa...
(...)
Quando mi sto a casa da solo... comincio solo a pensare ai miei problemi
C: Capita anche a voi?
H: Per me è diverso (...) I primi due anni quando il gruppo non esisteva mi sentivo la malinconia... (...) I primi due anni era tremendo guarda...
(...)
M: Quando parlo io a casa mia parlo con me stesso

Fuori la notte tinse la città di un velo di nero. Buio denso, rumoroso. Non sapeva quanto era il peso della solitudine rispetto a quello della nostalgia per la sua terra. Indefinibile malinconia quel fuoco che arde sotto le ceneri del vivere quotidiano in terra straniera. Quel sempre sentirsi nessuno. Peggio non esistere: percepire gli sguardi, curiosi, irritati o compassionevoli scivolarti addosso come se fossi un’ombra.
(Kossi Komla.Ebri, Il buio della notte)

La frustrazione: 24/2/02
Hawa entra visibilmente agitata. Le è stato rifiutato telefonicamente un colloquio di lavoro perché nel momento in cui l’interlocutore stava fissando l’appuntamento lei si è agitata, «Quando mi agito si sente che non sono italiana», le è stato chiesto di dove fosse «Africana? No allora no»

B: Non sarà l’ultima volta
H: Mando il curriculum via Internet, mando la foto...
B: Devi sapere che ancora non è finito
M: La prendi con ironia e vai
C: M dice «la prendi con ironia»

Cinque mesi dopo...: 10/7/02

H: Anche perché sdrammatizzare la cosa uno si sente la prende con ironia
(...) La vede diversamente va beh non sono l’unico perché dopo che ha parlato con tutti che ha spiegato che è successo si sente più sicuro..
C: Rassicurata

A febbraio è sconvolta, Mirvien le racconta come fa lui, Boubakar la preavvisa con tono affettuoso, capiterà ancora, lei ascolta l’esperienza, a luglio vede le cose diversamente, ha fatto sua la proposta, usare l’ironia...
Circolano nel gruppo dei Permessi: poter sentire, si può portare la propria rabbia, c’è qualcuno che ascolta e raccoglie, poter pensare e cercare insieme soluzioni nuove a problemi nuovi.
M: Il mio parere personale... Un immigrato in Italia o dappertutto penso non dovrebbe avere tempo libero
C: Cosa intendi?
M: Perché se ha tempo libero pensa
C: Eh e cosa succede se pensa?
M: Sta male...Quando uno non ha tempo libero...vivi...non hai tempo di pensare alla nostalgia...agli amici...ai pensieri...solo la casa...l’affitto...
Ho provato gli ultimi due anni proprio...pensieri zero...ho vissuto bene...
C: E beh adesso però a me sembra che state pensando... qua

Trovo suggerimenti in quanto Dela Ranci rileva nella “relazione a legame debole” in strada, «la relazione di aiuto si connota come atteggiamento consulenziale che non impone scelte e modelli, ma è finalizzato a sviluppare consapevolezza, a riconoscere e potenziare risorse, e competenze presenti; atteggiamento consulenziale per facilitare scelte autonome, per recuperare il senso degli eventi; ancora dunque atteggiamento etico finalizzato a promuovere autonomia di pensiero e di azione; protagonismo anziché adattamento». (Ranci, 2001).
Così come qui si parla dei modi trovati per affrontare i problemi, si condividono esperienze, si riabilita la possibilità di pensare.

Sentirsi importanti, poter sperare: 10/7/02

H: comunque stiamo facendo un esempio per tante persone anche per gli italiani...in tutti i sensi... il fatto... quello che facciamo...
(...) Io dico comunque che è un gruppo molto speciale perché in tutta Bergamo c’era... però dopo neanche sei mesi da quello che ne so io è finita perché c’erano tanti problemi... noi invece abbiamo resistito per più di un anno... quindi è tanto... io spero che continuiamo così perché è un bel gruppo...
(...)
A: Così il bimbo quando è a casa sua con mamma e papà dicono... magari se una famiglia marocchina vicino di Albania o di Mali... vicino... famiglia strana dicono che...questa famiglia è pazza... guarda che cosa fa... si fa il Ramadan... sua moglie si prende il foulard... C’è il bimbo che ha il significato di tutte queste cose capito?... e per quello facciamo le animazioni quello della fiaba...
Anche se siamo lontani però siamo con gli italiani per la manifestazioni della pace con le donne...tutto

Sentirsi speciali, dare valore e importanza a ciò che si sta facendo, è contemporaneamente un riconoscimento che il gruppo si sta dando e un’assunzione di responsabilità.
Le difficoltà che si incontrano oggi e il desiderio di trovare un modo per l’incontro, portano il pensiero ai bambini, ai figli, alle generazioni future.
Boubakar, giovane senegalese scapolo, osserva che stiamo lavorando per il futuro, per le generazioni future!
Il ritrovare che il concetto di generatività, secondo cui l’adulto autentico e generativo è colui che sa aver cura, che è effettivamente in grado di farsi carico di sé, dell’altro, della generazione attuale e futura e del mondo circostante, riemerge qui, spontaneamente, in un gruppo di persone di provenienze diverse e mi fa chiedere: forse che questa la possiamo chiamare speranza?
Siamo lontani, siamo diversi, però stiamo provando a sperimentare la compresenza di più mondi: in una microesperienza la pluralità è possibile, la cultura può non essere un ostacolo per la relazione, siamo “con”...

Il mondo non ci è stato lasciato dai nostri padri, ma ci viene dato in prestito dai nostri figli (proverbio africano)

Bisogno di essere visti, di essere salutati, riconosciuti: 10/7/02

A: Una cosa volevo dire...dei bambini...che...le famiglie parlano coi bambini per no stare vicini agli immigrati li albanesi e i marocchini perché dicono...
M: è vero
A: Dicono di non stare vicino agli immigrati...vedono alla televisione...
Hanno fatto una festa a Solza m’ha chiamato la signora, la Monica per la festa per giocare con i bambini... Hanno visto un altro immigrato...
Stavo facendo la spesa così di un bambino non mi ricordo bene però lui mi ricorda viene col braccio così «Ciao A.!»
C: Ti ha fatto piacere?
A: Certo! (...)...succede anche a Boubaka, quando abbiamo fatto la fiaba tanti dicevano «Ciao Boubakar!»
M: Anche a Calcinate! Troppo bello!

Qualcuno, un bambino lo riconosce e lo saluta, lo chiama per nome, e qualcuno adesso, qui, lo ascolta mentre ricorda questa esperienza...Ha i lineamenti rilassati A. mentre racconta...

A, che sta male perché pur avendo un lavoro, pur essendo molto apprezzato dal suo datore perché è competente, non fa ferie è disponibile il sabato e la domenica, pur pagando regolarmente il mutuo per la casa, pur avendo versato milioni di avvocato, non può mettere nemmeno una radice qui perché non riesce a sistemare le pratiche relative al permesso di soggiorno. È “sospeso” tra mondi più degli altri, se è possibile essere più o meno sospesi, non può tornare in Marocco, vedere la famiglia perché se torna là non può tornare qui, ma qui sta male, ha preparato la casa per la moglie della quale una volta si permette di parlare, teneramente con nostalgia... Non può stare qui... non può tornare là... ma qui un bambino un giorno lo riconosce e lo saluta, chiamandolo per nome, qui ha trovato un posto e qualcuno che ascolta le sue esperienze... «se non c’è il gruppo non so come vado io... fuori di testa...»

A., l’invisibile, viene visto due volte, da un bambino a una festa e dal gruppo che condivide con lui la sua soddisfazione.
Luoghi nuovi in terra straniera, luoghi nuovi dell’esperienza tra esseri umani.
Questo gruppo a modo suo si sta inventando un modo per raccontarsi, ritrovare legami, avere contatti con il là e col passato (telefonano a casa per farsi raccontare storie e giochi), e con il qua, per qualcuno qui esisto, mi saluta.
Penso a Berne (1964), «Salutare correttamente significa vedere l’altra persona», al bisogno di legami, «sapere di appartenere, è uno degli aspetti fondamentali dell’esperienza. Se non fossimo inseriti in una rete di contatti, di appartenenze, che di volta in volta rinnoviamo, avremmo difficoltà a mantenere una sicurezza, il senso dell’identità. Il benessere dell’individuo è strettamente collegato al suo essere inserito in una collettività dove riempie un posto, ha dei riconoscimenti, è visibile» (Rotondo, 2001)

Alla ricerca del setting perduto

La questione dei confini
La prima fase è per me disorientante. Difficile dare ed essere garante di una struttura, di confini per questo gruppo così fluttuante, fluido, ondivago. Le persone che vedo agli incontri non sono sempre le stesse, vengono in modo stabile Hawa, Mirvien, Ahmed, Boubakar, Tatik, quando è in Italia, compare Driss, portato da Ahmed, Klara invitata da Mirvien, Iwule, Mbene e altri. Presenze intense e insieme fuggevoli, a volte inquiete e potenti, a volte assenti per motivi di lavoro, spesso fanno i doppi turni, e forse per altre imperscrutabili fatiche. Aisha è marocchina vorrebbe venire, ma non può uscire. La regola del tempo non è stata un punto di partenza, ma un punto di arrivo, capita di trovarsi in due all’inizio della sera e di vedere via via il gruppo infoltirsi, capita anche che l’incontro vada deserto. Boubakar una sera è assente, gli telefonano, lo svegliano, arriva, non sembra per niente seccato...l’hanno chiamato, qualcuno si è interessato, l’assenza è stata notata, è stata presa in carico...
Ora, dopo mesi, abbiamo concordato insieme che ci si vede ogni due settimane, una volta la data è fissa, la prima domenica del mese, l’altra volta è variabile, la comunicazione è affidata al tam tam.
L’altro ostacolo è la lingua nessuno parla la stessa, ogni volta cinque, sei lingue diverse.
L’unico accordo rimasto invariato è che si parla l’italiano, e che ci si interrompe quando non si capisce letteralmente il messaggio.
Abbiamo anche concordato che il gruppo è aperto ai nuovi arrivati.
La sede stessa è un obiettivo, il gruppo non ha un luogo in cui trovarsi. Abbiamo iniziato ospiti in una biblioteca, siamo transitati in una scuola materna ora siamo approdati nella sede di un’Associazione che si occupa di immigrazione, metafora del viaggio e della fatica di avere legami anche con i luoghi, anzi di avere dei luoghi, ora si sta cercando una sede più stabile.
I pochi elementi stabili concordati finora riguardano dunque la lingua, la presenza delle conduttrici nelle date concordate, la possibilità di portare altre persone, italiane e straniere.
Non c’è patto terapeutico, non c’è un focus condiviso, c’è contratto “leggero” che si costruisce ogni volta, strada facendo; c’è l’attenzione, a ogni incontro, a chiudere e non lasciare sospesi, perché qualcuno la volta prossima potrebbe essere in fabbrica, qualcuno in Indonesia, qualcuno a fare le ferie sognate per anni in Senegal al villaggio...
Siamo nel campo della prevenzione, l’intervento è di orientamento, supporto, sostegno, accoglienza, accompagnamento, si energizza l’Adulto, si accoglie il Bambino sperso e spaventato, ma non si fanno interpretazioni né altri interventi tipici della presa in carico in psicoterapia.
La teoria del doppio okness è il terreno su cui si gioca in questo spazio terzo, in questa area transizionale, dove nel qui e ora, persone di mondi diversi stanno sedute intorno a un tavolo e continuano a tornarci.

La cassetta degli attrezzi
Ho provato a fare ordine, ho avvertito in una certa fase il bisogno di «ricondurre entro i canoni del nostro sapere ciò che appare come caotico, dissimile e ci spaventa» (Rotondo 2001). Le supervisioni, di gruppo, mi hanno permesso di rendermi conto che le esperienze sono irripetibili e da tesorizzare, se si accetta di far emergere, vedere le molteplicità, le differenze, le connessioni: in una parola, se ci si abitua a gestire l’incertezza.
E in effetti questo gruppo, come altri, più di altri, è luogo collettivo, «di molteplicità di esperienze e di saperi, un luogo di condivisione e di costruzione comune di possibilità di esperienze diverse». (ibidem)
In una situazione complessa, nuova e plurale, non trovo risposte in un unico modello, attingo a più punti di riferimento: mi risuonano le riflessioni di Berne sul ruolo del gruppo nella vita dell’individuo nella soddisfazione dei bisogni di riconoscimento, l’esperienza dei gruppi di mutuo aiuto, il pensiero del “laboratorio” di Terrenuove e gli apporti dell’etnopsichiatria, unite alle proposte sulle relazioni “ a legame debole”.
E attingo soprattutto al qui e ora, a dove mi portano i miei compagni di avventura ricordando ciò che dice Hawa la giovane donna del Mali mia compagna di viaggio.

H: «Io mi sono trovata bene... perché... non so... siccome veniamo da diversi paesi... quindi... per esempio... l’idea di qualcun altro che... è sempre qualcosa in più... soprattutto se viene da un altro paese forse c’è una cosa che tu non riesci a vedere però lui la vede... non so... riesce comunque...
non so come spiegarlo con le mie parole... però
C: Tu dici c’è sempre qualcosa che tu non riesci a vedere...
H: Tu puoi imparare non so...non so...
C: Mmm
H: Le persone che vengono da un’altra parte le cose che tu non riesci a vedere...loro te lo fanno vedere te lo fanno capire
C: È interessante questo punto di vista
H: Infatti...come tu puoi fare comunque... capire... viceversa... comunque mi sono trovata bene...
B: «Uscire dalla tua terra ti fa capire tante cose, se uno non esce non capisce»

Seguo Boubakar nel suo invito e provo a uscire dalla mia terra, dal mio mondo, per esplorare altri mondi..., stando qui, seduta con loro intorno a un tavolo...
È una sorta di gruppo di auto aiuto quello che si sta formando, si trattano i problemi che ciascuno di loro si trova a fronteggiare di volta in volta, nella propria vita qui.
Parlare di questi problemi con altri persone che hanno attraversato tali esperienze può aiutare ad affrontare le difficoltà quotidiane e a imparare a fronteggiare il futuro.
«I membri si offrono l’un l’altro sostegno psicologico, imparano nuovi modi di fronteggiare i problemi, scoprono strategie per migliorare le loro condizioni e, nell’aiutare se stessi, aiutano gli altri. Nei gruppi di auto aiuto le persone incontrano individui molto simili a sé e che sono capaci di condividere conoscenze pratiche e validate nell’esperienza, guadagnate di prima mano in situazioni simili».(Colaianni, 1998)
In effetti il gruppo è formato da persone che arrivano da mondi diversi e condividono il medesimo problema, la stessa situazione stressante di vita, lo “strappo delle radici” (Mazzetti, 1996), i conti coi sogni, la solitudine in terra straniera, le difficoltà legate alla permanenza in questo territorio e in questo tempo...
Si sostengono e si passano informazioni e consigli, fanno qualcosa insieme che dà speranza a loro e a noi; insieme imparano a fronteggiare i problemi e a vivere una vita di relativa soddisfazione in ascolto di una varietà di soluzioni diverse dalle persone che quotidianamente affrontano situazioni simili.
In questo gruppo le condivisioni arrivano da lontano, ognuno di loro porta visioni del mondo, e dei rapporti umani visti da angolature nuove, dalle quali impariamo, con le quali ci arricchiamo.

Se viaggiare apre la mente, conoscere donne e uomini di altre culture la arricchisce. «Possiamo aggiungere al nostro modo occidentale di pensare, di sentire e di comunicare, anche altri modi; possiamo tutti diventare un po’ africani, un po’ asiatici, un po’ latino-americani. Noi tutti, esseri umani, partiamo con lo stesso corredo genetico; eppure allevati in mondi diversi sviluppiamo culture diverse, diverse sensibilità, diverse idee. Questo significa che abbiamo potenzialità amplissime, che amputiamo esiliandoci all’interno della nostra sola cultura: incontrare altri popoli può significare per noi riappropriarci di un po’ di queste potenzialità, alle quali rinunceremmo; significa impreziosire la nostra qualità umana». (Mazzetti, 1996)
Nel gruppo sono concretizzate più appartenenze, più modelli identitari, più mondi. Un apprendimento forte e intenso anche per lo psicologo, che vede materializzato, concretizzato, quello che accade in realtà in ogni relazione: l’incontro con realtà, esperienze, appartenenze diverse e “altre”, con sofferenze spesso imperscrutabili. La necessità di attivare al massimo la capacità di ascolto e di attesa, lo scoprire improvvisamente strade nuove e impensate e impensabili.
Quando ripercorro la storia di questo gruppo, penso spesso anche ai principi ispiratori della “relazione a legame debole”. I primi incontri sono quasi occasionali, cambiano i giorni e gli orari, nella fase in cui sono fissi, calendarizzati, vanno deserti (una volta mi ritrovo da sola, una volta c’è un preavviso, “Non può nessuno”). Capita di incontrarsi però in modo informale, in altri luoghi, e lì ci si ferma, ci si parla, al legame ci tengono.
Tante le domande, è fase della vita del gruppo, è il tipo di gruppo, è il contatto troppo frequente e forse minaccioso, è paura della vicinanza, è bisogno di tenere le distanze?
Non trovo risposte, non capisco, ma resto in attesa...e ritornano portando altri, «Scusaci se ti abbiamo lasciata sola l’altra volta».
Ora ci si rivede periodicamente, noi conduttrici garantiamo la presenza, l’opportunità può essere sfruttata o ignorata...
L’occasionalità è stata utilizzata al massimo e ha aiutato a riallacciare i legami, in ogni incontro è lo strumento e l’obiettivo (Ranci 2001).

La composizione del gruppo
Il gruppo è eterogeneo non solo come appartenenza culturale ma anche per livello di istruzione. C’è chi è laureato e parla correntemente tre lingue e chi ha frequentato solo la scuola coranica. C’è il cattolico, il musulmano e il musulmano ateo, uomini e donne, c’è anche chi fa sapere che c’è ma fisicamente non viene, due donne che telefonano tutte le volte, e a cui il gruppo chiede collaborazione per preparare i dolci per le feste. Eppure di loro si parla sempre, esistono.
Inizialmente sembra che gli incontri siano destinati a chi si occupa di iniziative sul territorio, ma capita che chi fa attività non venga, mentre arrivano altri solo perché hanno sentito dire che c’è il gruppo...
Ora partecipa anche una ragazza italiana, accolta con entusiasmo misto a sollievo da tutti.
In un qualche modo, con un setting e regole “costruiti” sul campo, questi incontri hanno cominciato a costituire un punto di riferimento per i partecipanti. Quando si raccontano nelle scuole e nelle feste, recuperano qualcosa e danno dignità alle loro origini, si assumono la responsabilità di essere testimoni nel mondo nuovo, danno forma in parte al loro sperdimento, pensano al futuro, si sentono visti. Quando si ritrovano nel gruppo e si scambiano progetti, esperienze concrete, ricordi e delusioni danno forma nel qui e ora all’essere qui, a qualcosa di buono che sta succedendo.
È un riconoscersi raccontandosi, un darsi forma riconoscendosi.
«La cosa fondamentale è che lui riconquisti un orizzonte collettivo, oltre a quello individuale e attraverso questo ristabilisca dei rapporti. Dei rapporti per fare, non soltanto per condividere. Dei rapporti per fare. E si impegni in questi rapporti sul fare con altre persone; condivide esperienze in termini collettivi e non più individuali; si accorge che c’è della gente che sta facendo le stesse cose che fa lui e questo diventa straordinariamente terapeutico». (Seppilli, 2001)

Il ruolo del conduttore
Per molto tempo mi sono chiesta, e per la verità sto continuando a chiedermi, che cosa sto facendo, qual è il mio ruolo.
Comincio come responsabile scientifico del progetto, un lavoro dunque sempre intorno a tavoli con tecnici, politici e operatori dei servizi, continuo con un gruppo di lavoro di stranieri che chiede una consulenza, mi ri-trovo in un gruppo di persone che hanno bisogno di riferimenti e di luoghi per portare bisogni e che in alcuni momenti assume valenza terapeutica, pur non essendo gruppo di terapia. Io sono lì come co-conduttrice, a raccogliere, a facilitare, a mediare, ad accompagnare, a orientare e a essere orientata...
Diventa lavoro in due direzioni: consulenza al progetto di rete da un lato, facilitazione, contenimento, supporto al “Mondo nell’Isola” dall’altro, come se anche la mia presenza andasse via via prendendo forma insieme a quello che accade nel progetto e nel gruppo.
Mi sono anche chiesta più volte se la mia presenza, di italiana, di donna, potrebbe bloccare, creare conflitti. Mi rendo conto che i movimenti transferali e controtransferali, sono legati anche alla cultura, alla visione del mondo, dei rapporti tra i sessi.
«Il paziente straniero, di fronte a un terapeuta del luogo, presenta (...) una relazione di transfert che coinvolge, oltre alla classica relazione di transfert o pre-transfert, un importante elemento culturale. (...) una sorta di metatransfert che non coinvolge più gli individui o le identità personali del terapeuta e del paziente, ma piuttosto i rispettivi gruppi.» (Brunori, Tombolini, 2001)
Che cosa fanno indossare alle conduttrici, mi chiedo, gli uomini musulmani per esempio, a me in particolare, donna e italiana?
Non interpreto il transfert ma so che c’è, così come sono consapevole del mio controtransfert che oscilla nell’arco dello stesso incontro dalla ribellione alla compassione, dalla rabbia al desiderio di salvare...La complessità delle relazioni è amplificata dal gruppo e dalla sua composizione.
È un fattore da non sottovalutare mi sembra quasi un transfert a strati, complesso.
Inoltre, come prendere in considerazione i fattori di diversità, considerando che posso sì molto imparare ma non posso specializzarmi nelle cinque, sei, otto, culture di volta in volta qui rappresentate?
Ho sposato l’ipotesi che l’esperienza è talmente formativa, interessante, ricca che vale la pena di correre il rischio di non capire, di sentirmi senza strumenti, inadeguata...
Col gruppo è condiviso un grande rispetto per l’altro, nel qui e ora non si giudica e non si mettono in discussione i rispettivi modi di interpretare la realtà, le visioni del mondo, le scale dei valori, ci si trova qui, in questo spazio intermedio, e si parla di ciò che si vuole, di solito comunque legato all’essere qui e all’assunzione di responsabilità verso le generazioni future, per testimoniare che parlarsi si può, tentare di capire insieme ciò che succede si può, portare qualche piccola testimonianza si può. Fondamentale è la lettura “interna” dell’assistente sociale che co-conduce con me il gruppo, donna e straniera.

Gli interventi
Chi conduce fa eco, raccoglie i contenuti, li restituisce alla fine di ogni seduta.
Fondamentale il momento della riformulazione e della restituzione, in un linguaggio accessibile e con l’attenzione alla pulizia anche linguistica del messaggio, con un’attenzione alla comprensione letterale.
Come l’operatore di strada, il conduttore è «disponibile a vivere ogni incontro come una situazione nuova e specifica» (Ranci, 2001), rinuncia a percorsi standardizzati; si mette in gioco nel qui ed ora, condivide l’incertezza del setting; la provvisorietà, la frammentazione della relazione d’aiuto; rinuncia alle sue aspettative salvifiche, individua nella relazione instaurata lo strumento e l’obiettivo qualificato del suo intervento.
L’incontro col nuovo amplifica la necessità dell’ascolto e dell’attesa, mancando le informazioni sull’altro, su copioni culturali non noti, si percorrono strade ignote, si legittimano le differenze e la possibilità di avere più appartenenze, di costruire un terzo spazio insieme, un’area meticcia...
Mi chiedo spesso: non è che qui vengono amplificati e materializzati bisogni che comunque tutti i pazienti hanno e che i copioni culturali comuni, gli impliciti condivisi, rendono meno evidenti?
La dimensione della “stranieritudine” amplifica ciò che accade nei gruppi culturalmente più omogenei, i bisogni che tutti abbiamo, il bisogno di soddisfare le esigenze di appartenenza, di sicurezza, di autostima, di autorealizzazione. Aiuta inoltre, allena a punti di vista diversi, all’esplorazione di modi differenti di stare al mondo.
«Doveva trovare un significato nelle sue recenti esperienze; voleva sapere e capire. Com’era possibile che alcuni si costringessero entro limiti di un solo sistema, di un solo credo? Perché si sentivano obbligati a farlo? Non esisteva un io stabilito; non era vero che le nostre numerose identità si dissolvevano e si trasformavano ogni giorno? I modi di stare al mondo dovevano essere infiniti. Nel lavoro e nell’amore Shaid voleva abbracciarli tutti, seguendo la propria curiosità». (Kureishi, 1995)
Il gruppo come luogo di sperimentazione e legittimazione di più identità, esperienze, appartenenze, di convivenza con la complessità.
Aprire i pori e respirare lasciando passare aria nuova e diversa, vivendo l’avventura della ricerca comune di nuove opzioni, con la consapevolezza che tempi, contesti, realtà ci dicono che non c’è un unico modello standard funzionante per tutti su come stare nel complesso e in tanti e diversi, che a bisogni plurali non si riesce a rispondere al singolare...
Inoltre, «il piccolo gruppo può essere un laboratorio perché permette un punto di osservazione multipersonale di fenomeni culturali e sociali altrimenti difficili da cogliere in contesti duali. Il gruppo è, in ultima analisi, uno spazio transculturale in cui osservare e approfondire le strutture di identità e dell’esperienza culturale; l’identità dell’individuo si sviluppa infatti all’interno di una cornice culturale e da questa non può essere separata. Il gruppo può essere utilizzato come strumento privilegiato per affrontare la questione delle relazioni interetniche. Infatti un setting di gruppo, per le sue caratteristiche dinamiche e relazionali, può favorire uno spazio reale e simbolico, all’interno del quale è possibile sperimentare l’incontro con l’altro come metafora delle relazioni sociali allargate». (Brunori Tombolini, 2001)

Gruppo come “laboratorio” in cui sono amplificati e visibili anche i bisogni di cui parla Berne (1963) «Dovrebbe essere chiaro che ciascun membro entra nel gruppo equipaggiato di:
1) un bisogno biologico di stimoli
2) un bisogno psicologico di organizzare il tempo
3) un bisogno sociale di intimità
4) un bisogno nostalgico di transazioni parentali
5) un insieme provvisorio di aspettative basate su un’esperienza passata. È compito dell’individuo mediare tra tali bisogni e aspettative e la realtà in cui vive».
Gruppo come “laboratorio” in cui è amplificato e visibile ciò che c’è “fuori”, la diversità, ma anche l’incertezza e la confusione: che cosa succede, dove andiamo, come si fa, cosa facciamo, chi siamo...
Gruppo “terzo spazio”, area intermedia che non nega i conflitti ma permette di raccontarli, in cui trovare dei modi per pensarsi e per agire tra i mondi e tra i tempi.
Un campo in cui si incrociano energia, potenza e una tensione comune, la speranza per il futuro, in cui si cercano insieme, iniziative, azioni, pensieri sull’essere qui in lontani dalla famiglia o con un pezzo di famiglia, lontani dal proprio paese, sull’essere qui con altri...
«Emigrare vuol dire abbandonare la riva dove si è nati per un’altra riva e, come scrive il poeta Ephraim Lucas, – due rive sono poche, ce ne vuole una terza –. (...) Anche se la prendiamo a prestito dalla poesia, questa nozione di terza riva è fondamentale. È lo spazio terzo, i tra-due che fa da ponte: esso separa e unisce allo stesso tempo, permettendo insieme di vivere un’esperienza interiore soggettiva che sfocia in un processo di comunicazione e di passaggio» (Dahoun 1999)
È questa un’esperienza relazionale ed emozionale correttiva rispetto alle situazioni di allontanamento che spesso vengono vissute nel quotidiano, in una realtà in cui tutti hanno trovato un’occupazione, ma dove vengono spesso considerati forza lavoro utile, anche perché non esigenti rispetto alle ferie e ai turni notturni. Sul piano produttivo e del massimo rendimento, si vedono riconosciuta la necessità della loro presenza, ma poi li si preferirebbe invisibili e tali si sentono.
È in atto una «Complessa tessitura di ascolti reciproci» (Mellina 2001), la costruzione di piccoli ponti tra i mondi, nei luoghi di passaggio, la scuola, luogo di passaggio per tutti i bambini, le feste, le manifestazioni...e lì, nel gruppo, poiché l’essere lì insieme è già obiettivo...

Il mondo nell’isola, piccoli ponti tra isole: lavori in corso
Forte la connotazione preventiva, per chi offre queste proposte, per chi le riceve, in un continuo interscambio di arricchimenti reciproci. Il bisogno di stabilire nuovi legami, di appartenere qui, in terra straniera, a qualcuno, unito al riconoscimento della propria presenza, pur in piccole manifestazioni. In queste attività e nel venire al gruppo le persone investono molto, non hanno un ritorno economico, pur in una situazione di precarietà e di pressanti richieste dei datori di lavoro.
Nel gruppo portano esperienze e progetti di cui sono protagonisti competenti, e forse non hanno, in questo momento, molti altri spazi in cui esercitare questa competenza, qui c’è uno spazio in cui altri ascoltano l’esperienza fatta in una festa, ma anche la frustrazione di un colloquio di lavoro negato telefonicamente a causa della voce “straniera”.
In un progetto territoriale in divenire, in un reticolato complesso, si è creato un luogo, un’isola, in cui si incontrano e si scontrano storie di vita, pezzi di mondi diversi, un’isola in cui si prova a cercare insieme, in cui la multietnicità è in azione, in cui si stanno tessendo lievi legami ma pur sempre legami, piccoli ponti, dentro e fuori, nello spazio interno ed esterno, nel territorio.
Siamo dalle parti non solo dell’emergenza, dell’accoglienza, dell’inserimento: è un piccolo tentativo di guardare al futuro, alla convivenza e alla qualità di questa convivenza, «Indubbiamente c’è un intervento preventivo ampio, al quale tutti possiamo portare un nostro contributo: batterci per costruire una società accogliente. Indubbiamente è una considerazione all’apparenza scontata, quasi banale. Eppure forse non è del tutto così. È utile, a nostro parere, non sottovalutare le nostre forze, in tal senso. Una società è fatta di tante donne e tanti uomini, non è una struttura astratta. Ognuno di noi, ogni giorno, nel suo piccolo ambito di lavoro, nella cerchia delle sue relazioni, può diffondere informazioni e conoscenze che promuovano la cultura dell’accoglienza. Ognuno di noi, ogni giorno, può dedicare qualche momento a scoprire dentro di sé pregiudizi che lo ostacolano su questo cammino, e può trovare soluzioni creative per le difficoltà quotidiane. Nessuno di noi è in grado di cambiare il mondo, ma non lasciamocene scoraggiare: ognuno di noi può essere l’occasione di un piccolo cambiamento (...)». (Mazzetti, 2000)
Mi piace pensare a questo gruppo, a volte lo immagino laboratorio di tessitura che punta a intrecciare i fili di nuove relazioni, a volte staff di architetti e muratori, impegnati a costruire un reticolo di ponti, in ogni caso gente che sogna e lavora per un futuro migliore per sé e per i figli di tutti.

Io lavoro per i figli del futuro
(Boubakar)

Bibliografia

Berne E. (1961), trad. it. Analisi Transazionale e psicoterapia, Astrolabio, Roma 1971.
Berne E. (1963), The structure and dynamics of organizations and groups, Grove Press, New York.
Berne E. (1964), trad. it. A che gioco giochiamo, Bompiani, Milano 1967.
Brunori L. - Tombolini F., Stranieri fuori, stranieri dentro, Franco Angeli, Milano 2001.
Colaianni L., I gruppi di Auto-Aiuto: cosa sono?, Progetto Città sane, Civica Stamperia, Comune di Milano 1998.
Colosimo F. - Mazzetti M., Schiacciati tra due culture, in «Famiglia oggi», 11, 2000.
Dahoun Z., La terza riva, in Algini M.L. (a cura di) Emigrazione e sofferenze d’identità, Borla, 1999.
Kossi Komla-Ebri, Il buio della notte, in l’Unità 24/8/2002.
Kureishi H. (1995), The black album, Bompiani, Milano 2000.
Losi N., Vite altrove, Feltrinelli, Milano 2000.
Mazzetti M., Strappare le radici, L’Harmattann, Torino 1996.
Mellina S., La tutela della salute mentale degli immigrati e il progetto “Michele Risso” nell’ASL Roma B, in Rotondo A. - Mazzetti M. (a cura di) Il carro dalle molte ruote, Ed. di Terrenuove, Milano 2001.
Ranci D., Disagio diffuso e lavoro sociale, in «Prospettive sociali e sanitarie», 18, 2000.
Ranci D., Riduzione del danno e relazione a legame debole, in «Prospettive sociali e sanitarie», 16, 2001.
Rotondo A., A proposito di Terre Nuove: potere e solidarietà, in «Prospettive sociali e sanitarie», 4-5, 1999.
Rotondo A., Il gruppo luogo di molteplici possibilità-Intervento in carcere, in A. Rotondo, M. Mazzetti (a cura di), Il carro dalle molte ruote, Ed. di Terrenuove, Milano 2001.
Rotondo A., Legami e migrazione, in «Prospettive sociali e sanitarie», 4, 2001
Seppilli T., Il paradosso tropicale di Quatro Varas; l’esperienza multimediale di una comunità psicoterapeutica anomala nel Nord-Est brasiliano, in Rotondo A. - Mazzetti M. (a cura di), Il carro dalle molte ruote, Ed. di Terrenuove, Milano 2001.


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