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C.P.A.T. --> HOME PAGE --> N. 34/2001

QUADERNI DI PSICOLOGIA,
ANALISI TRANSAZIONALE
E SCIENZE UMANE

Dal n° 34 - 2001


Attaccamento, competenze sociali, supporto sociale e processi interpersonali in psicoterapia*

Brent Mallinckrodt**

Traduzione di Cristina Zavaroni
Revisione di Claudia Chiaperotti




Riassunto
Secondo il modello SCIP (Social Competencies in Interpersonal Process) sulle Competenze Sociali nel Processo Interpersonale, le competenze sociali includono (a) le capacità necessarie per stabilire e mantenere relazioni supportive soddisfacenti e (b) disposizioni predisponenti all’uso di tali capacità. La teoria dell’attaccamento spiega il modo in cui le competenze sociali si sviluppano nel corso delle prime interazioni con i caregivers. I problemi della maggior parte dei pazienti adulti possono essere considerati come pattern maladattativi di relazione interpersonale che il modello SCIP ritiene si instaurino su deficit di competenze sociali. Il supporto sociale disponibile é fortemente determinato dalle differenze individuali nelle competenze sociali. Dal momento che una relazione terapeutica produttiva richiede un’ampia gamma di tali competenze, i deficit e i pattern maladattativi del cliente sono rapidamente evidenti. La relazione stessa può quindi diventare veicolo del cambiamento. Questo articolo riassume la mia ricerca nel testare aspetti del modello SCIP. Concludo col presentare idee per ricerche future e suggerimenti per specifiche esperienze di attaccamento correttive all’interno della relazione terapeutica che possono stimolare il cambiamento nel cliente.

Abstract
Attachment, social competencies, social support, and interpersonal process in psychotherapy
According to the Social Competencies in Interpersonal Process (SCIP) model, social competencies include (a) skills needed to recruit and maintain satisfying and supportive relationships, and (b) trait-like dispositions that govern use of these skills. Attachment theory explains how social competencies develop in early interactions with caregivers. Most adult clients’ presenting problems can be viewed as maladaptive patterns of interpersonal interaction-patterns that the SCIP model holds are trained by social competency deficits. Available social support is significantly determined by individual differences in social competencies. Because a productive therapy relationship requires a broad range of these competencies, a client’s deficits and maladaptive patterns are soon evident. The relationship itself can then become a vehicle for change. This article summarizes my research testing aspects of SCIP model. I conclude by presenting ideas for future research and suggestions for specific corrective attachment experiences in the therapy relationship that may facilitate client change.


Figura 1. Il Modello delle Competenze Sociali nel Processo Interpersonale (The Social Competencies in Interpersonal Process - SCIP Model)


La mia ricerca si è focalizzata sulla psicoterapia interpersonale, termine con cui indico una terapia che (a) vede i pattern relazionali maladattativi come causa primaria dei problemi che molti pazienti presentano, (b) mira a migliorare il funzionamento del cliente nell’ambito di relazioni in corso o future e (c) fa uso esplicito della relazione psicoterapeutica come mezzo per agevolare il cambiamento. Gli aspetti esplicitamente interpersonali della psicoterapia sono quelli che mi interessano maggiormente. Nel condurre questa ricerca ho sviluppato un modello che ora chiamo modello SCIP sulle Competenze Sociali nel Processo Interpersonale (Social Competencies in Interpersonal Process). La mia ricerca sul modello SCIP ha ottenuto nel 1996 il Premio Society for Psychotherapy Research Early Career Award. Sono grato ai curatori di Psychotherapy Research per avermi invitato a presentare questo articolo che riassume il mio lavoro. Altrove (Mallinckrodt, in stampa) il modello SCIP è descritto in maggior dettaglio e con maggiore disponibilità di dati di altri ricercatori di quanto non sia possibile fornire in questo articolo. La fig. 1 descrive la versione attuale del modello.
Le caselle nel modello SCIP non rappresentano situazioni statiche, ma piuttosto si riferiscono a sistemi correlati di costrutti, processi e dati empirici. Le frecce che collegano le caselle indicano il flusso causale attraverso cui una determinata serie di processi si ritiene ne influenzi un’altra. L’obiettivo principale di questo articolo è quello di descrivere l’evoluzione del mio pensiero ed il lavoro di altri studiosi che ha influenzato lo sviluppo del modello. In secondo luogo descriverò parte della mia ricerca di verifica su alcuni aspetti del modello. In ultimo, indicherò nuove aree di ricerca per l’applicazione della teoria dell’attaccamento e del modello SCIP, che potrebbero condurre a una maggiore comprensione dei processi di cambiamento in psicoterapia.

Aspetti interpersonali dello stress e del coping
Il mio interesse di ricerca iniziale era l’impatto del supporto sociale nella relazione tra gli elementi che causano stress e la sofferenza psicologica o fisiologica. Gli elementi stressanti, stressors, possono essere concettualizzati come un accumulo di problemi quotidiani o di avvenimenti meno frequenti ma più seri che determinano cambiamenti di vita. I miei primi studi si basavano su campioni di persone che vivevano tali situazioni di stress, per esempio la frequenza di scuole di specializzazione (Mallinckrodt, Leong, 1992; Mallinckrodt et al., 1989) o la perdita del lavoro (Mallinckrodt, 1992; Mallinckrodt, 1988). Il supporto sociale può produrre benefici sia diretti sia indiretti. Per esempio, nel caso di studenti specializzandi abbiamo riscontrato che un supporto tangibile (come un sostegno finanziario o la disponibilità di spazio in un ufficio) era direttamente collegato a un minor livello di ansia negli uomini ma non nelle donne. Tuttavia, tra le donne, quelle che godevano del maggior supporto sociale da parte della famiglia tendevano a non segnalare maggiore ansia o depressione, neppure in caso di avvenimenti altamente stressanti (Mallinckrodt, 1992). Questo effetto di interazione è prova del ben noto effetto buffering del supporto sociale, un tampone che sembra offrire protezione dal pieno impatto con l’elemento stressante. Nella figura 1 questo effetto è mostrato dal percorso da (A) elemento stressante verso (C) sintomi psicologici e fisiologici, indicato con una freccia che diminuisce di ampiezza nel passare attraverso (B) effetti moderatori.
Gli effetti di buffering sono particolarmente evidenti se vi è un supporto sociale funzionale quando occorre affrontare un elemento stressante (Cohen, 1985: Cutrona, 1990). Per questo motivo, nella maggior parte degli studi ho utilizzato la misura funzionale multidimensionale del supporto sociale sviluppata da Cutrona e Russel (1990) sulla base del Modello delle Provvidenze Sociali (Social Provisions Model) di Weiss (1974). Tale modello propone i sei tipi funzionali di supporto sociale mostrati nella figura 1 come (D) supporto sociale e qualità delle relazioni sociali. Gli studi che ho condotto in occasione della tesi di dottorato su professionisti disoccupati hanno rilevato la presenza di vari effetti ma non di un effetto buffering del supporto sociale (Mallinckrodt, 1988). Al contrario, uno studio successivo su degli operai (Mallinckrodt, 1992) ha rilevato sia effetti diretti, sia effetti di buffering. Raccogliendo i dati presso enti che offrivano gruppi di sostegno e tecniche per la ricerca di lavoro, ho potuto sentire storie di clienti che dimostravano un’ampia gamma di reazioni alla disoccupazione. Pareva che la famiglia e gli amici di un lavoratore potessero esacerbare ma anche mitigare l’impatto della perdita del lavoro. Inoltre, la valutazione cognitiva e un punto di vista emotivo negativo o positivo potevano determinare fortemente lo svilupparsi di sintomi da stress. La ricerca indica che fattori quali una valutazione cognitiva negativa (Lazarus, Folkman, 1984) o un’affettività negativa (Rhodewalt, Zone, 1989) possono esacerbare l’impatto di un elemento stressante. Per rendere conto di tutti gli effetti moderanti che possono diminuire o aumentare l’impatto dell’elemento stressante, la figura 1 mostra un ovale (B) effetti moderatori per indicare tali processi e delle frecce che aumentano e diminuiscono di spessore come risultato di questi effetti moderatori.
Durante il tirocinio, il mio interesse per il supporto sociale mi ha spinto a studiare la terapia di gruppo. Utilizzando uno schema applicato all’inizio e al termine della terapia ho osservato che il supporto sociale percepito dai pazienti e proveniente da fonti esterne al gruppo si associava più fortemente a un miglioramento sintomatico rispetto al supporto proveniente da altri membri del gruppo (Mallinckrodt, 1989). In questo studio ho notato che la variazione di supporto sociale interno al gruppo percepita dai partecipanti era sorprendentemente ampia rispetto alla variazione tra gruppi diversi. In un primo tempo questo fenomeno mi ha suscitato perplessità poiché, nonostante mi aspettassi ampie differenze tra i gruppi per via della composizione e delle capacità dei terapeuti, avevo ingenuamente presunto che i vari membri di un dato gruppo di terapia avvertissero a grandi linee lo stesso livello di supporto, essendo esposti allo stesso ambiente terapeutico. Durante il tirocinio ho fatto da osservatore dei processi in alcuni dei gruppi che studiavo e da cofacilitatore in altri. Cominciai a sospettare che ci fossero ampie differenze tra le capacità dei pazienti di sfruttare il supporto disponibile all’interno del loro gruppo e differenze nei comportamenti interpersonali che portavano a un supporto o a un rifiuto da parte degli altri membri del gruppo. I dati e le osservazioni mi portarono alla conclusione che la percezione del supporto da parte dei membri del gruppo fosse una funzione tanto delle differenze individuali, quanto dell’ambiente del gruppo.
Nei miei primi studi interpretai le correlazioni negative tra il supporto percepito e i sintomi da stress in termini esclusivamente di variabilità positiva del supporto sociale. Come indicano Coyne e Bolger (1990), davo implicitamente per scontata «un’importante differenza tra coloro che valutano positivamente il sostegno loro offerto e coloro che invece lo valutano negativamente». Ciò implica «che chi è in una situazione di stress necessita di maggior supporto sociale» (p. 149).1 Ciononostante, l’associazione negativa tra supporto e sintomo potrebbe riflettere la mancanza di supporto percepita, vale a dire che l’aumentare del conflitto interpersonale può condurre a un aumento dei sintomi, mentre l’effetto del supporto positivo potrebbe essere piuttosto neutro. Il supporto sociale percepito potrebbe essere ugualmente influenzato tanto dalle componenti negative quanto da quelle positive di una relazione (Fiore et al., 1983). Le interazioni favorevoli con gli amici non sono associate in modo ugualmente forte con i sintomi di depressione e di soddisfazione sul piano sociale quanto lo sono le interazioni disturbanti (Pagel et al., 1987; Weissman, 1987). Anche le offerte di sostegno che partono con buone intenzioni a volte hanno effetti negativi. (Lehman et al., 1986). Questi dati indicano un effetto buffering negativo in cui le interazioni disturbanti sono associate a sintomi intensificati, quali la depressione, mentre le interazioni favorevoli possono non avere alcuna associazione significativa (Kiecolt-Glaser et al., 1988).
La questione di cosa causi la correlazione negativa, ampiamente osservata, tra supporto sociale e sintomi, è, chiaramente, di importanza cruciale negli interventi terapeutici. Coyne e Bolger (1990) sostengono che lo stereotipo dell’individuo socialmente isolato, privo di interazioni sociali positive, sia stato esageratamente enfatizzato. Le persone con scarso supporto sociale includono un importante sottogruppo: quello «che soffre del coinvolgimento in relazioni conflittuali, instabili o altrimenti non di sostegno e per molte persone il costo del coinvolgimento in tali relazioni distruttive è maggiore che quello di stare da soli, benché quest’ultimo stato sia per loro impensabile» (p. 155). Questo articolo mi influenzò profondamente e cominciai a mettere in dubbio il mio ottimismo riguardo al fatto che i gruppi di sostegno fossero, per la maggior parte dei pazienti, un panacea. Piuttosto che sviluppare nuovi contatti sociali, le persone descritte da Coyne e Bolger potrebbero ottenere benefici ben maggiori, soprattutto inizialmente, dall’acquisizione di capacità quali il problem solving e la forza di sganciarsi da legami sociali dannosi.
Consideravo il supporto sociale come un aspetto dell’ambiente, più o meno disponibile a seconda delle circostanze esterne all’individuo. Tuttavia, molti studi condotti tra la metà e la fine degli anni ’80 indicavano che anche il supporto percepito andava considerato come funzione delle differenze individuali (Sarason et al., 1990). Per esempio, i partner di una conversazione che si valutavano positivamente in termini di supporto sociale venivano valutati dagli osservatori come attraenti in termini interpersonali e con maggiori competenze sociali (Sarason et al., 1986). In un altro studio, individui che valutavano se stessi positivamente quanto a supporto sociale venivano giudicati dai partner della diade come più abili socialmente a dagli osservatori come maggiormente abili ed attraenti (Sarason et al., 1985). La percezione del supporto sociale può non avere praticamente alcuna relazione con la quantità effettiva di sostegno messo in atto da altri (Lakey, Heller, 1988) e potrebbe essere meno legata con il sostegno disponibile nell’ambiente che con le caratteristiche del soggetto (Lakey, Dickinson, 1994) o delle interazioni sociali di una certa persona (Lakey et al., 1996).
Tale ricerca mi appariva stimolante e convincente. Offriva spiegazioni alle differenze individuali osservate nei miei studi sul sostegno sociale. Fino a questo punto la mia ricerca si era concentrata sui legami, nella figura 1, tra (A) gli elementi fonte di stress, (B) gli effetti moderatori, (C) i sintomi e (D) il sostegno sociale e la qualità delle relazioni. Un importante punto di svolta si verificò quando cominciai a indagare le differenze individuali implicate nello stabilire e mantenere relazioni personali supportive, variabile indicata nella figura 1 come (E) competenze sociali.

L’importanza delle competenze sociali
Definisco come competenze sociali tutti quei fattori interni a un individuo che ne determinano la qualità delle relazioni e che sono necessari per stabilire e mantenere relazioni personali intime. Chiaramente, questa definizione ricopre un territorio molto ampio e la lista di competenze sociali della casella (E) della figura 1 non è esaustiva. In effetti, vi sono rappresentati solo i costrutti che finora ho studiato o che ritengo essere strade promettenti per ricerche future. All’interno del termine collettivo competenze sociali è utile distinguere tra disposizione e capacità. All’interno della categoria delle capacità, le capacità di base sono i comportamenti, quali il mantenere un adeguato contatto visivo o il seguire un argomento di conversazione, che possono essere interamente verificati nel corso di una sola seduta di psicoterapia. Le capacità complesse si costruiscono su quelle di base ma richiedono contatto ripetuto con la persona in questione per periodi di giorni o di mesi per ottenere il risultato desiderato. Le capacità complesse includono la capacità di sviluppare un contatto iniziale fino a un’amicizia che sa dare sostegno, la capacità di raggiungere intimità emotiva, la capacità di risolvere i conflitti interni a una relazione. Le disposizioni sociali sono quei tratti che influenzano l’acquisizione delle capacità di base e di quelle complesse ed influenzano le circostanze in cui tali capacità verranno utilizzate. Le disposizioni elencate nella figura 1 non devono essere considerate come costrutti separati ma come prospettive che si sovrappongono e si intersecano nella costruzione delle differenze individuali.
Tali elementi interagiscono in modi complessi. Per esempio, utilizzando una comune serie di stimoli, abbiamo notato che l’attribuzione di colpa e le raccomandazioni per la soluzione di conflitti familiari variavano significativamente tra le persone delle isole Samoa, che fanno riferimento a credenze culturali collettive, e le persone degli Stati Uniti che hanno credenze culturali individualiste (Poasa et al., 2000). Quindi, in quanto disposizioni, le credenze culturali determinano in che modo una specifica serie di capacità sociali verrà utilizzata. In alcuni casi, disposizioni di matrice culturale determinano se capacità quali l’assertività verranno mai sviluppate; in altri casi le credenze culturali definiscono le circostanze appropriate in cui capacità di assertività precedentemente acquisite verranno utilizzate (Wood, Mallinckrodt, 1990).
La distinzione tra disposizioni e capacità sociali può essere labile, come è esemplificato dal caso della soluzione del conflitto. Il risolvere conflitti coinvolge una gamma di capacità sociali complesse ma gli individui mostrano anche uno stile personale di soluzione del conflitto nella preferenza per l’uso di uno solo di questi sottogruppi di capacità (Rahim, Magner, 1994). Abbiamo notato che, a differenza di coloro che preferiscono sopraffare il proprio partner o sottomettersi, chi preferisce porsi in una situazione di parità nei conflitti coniugali tende ad avere maggiori capacità di acquisire il punto di vista altrui ed un più alto livello di efficacia sociale.
La complessa capacità dell’acquisizione dell’altrui punto di vista e la disposizione dell’efficacia sociale erano a loro volta associate a maggiori livelli di sicurezza nell’attaccamento adulto (Corcoran, Mallinckrodt, in stampa). In un’ulteriore ricerca abbiamo osservato che l’efficacia sociale, la convinzione che lo sforzo verso la costruzione di amicizie supportive alla fine darà risultati positivi era associata a maggiore sostegno sociale mentre la localizzazione esterna del controllo dei risultati sociali era correlata negativamente con il supporto sociale (Mallinckrodt, 1992).
Io credo che la distinzione tra la carenza di capacità (skills) e ciò che potremmo chiamare disposizione di resistenza non sia sempre sufficientemente considerata. Per esempio, un terapeuta che determinasse che un cliente ha carenza di relazioni intime dovrebbe andare oltre e verificare se ha un deficit delle competenze necessarie o se ha una disposizione negativa rispetto allo sviluppare contatti più intimi, o entrambe le cose. Potrebbe sembrare ovvio che insegnare a un cliente abilità per il cui uso il cliente stesso nutre un’avversione sia controproducente o che, anche dopo che un cliente abbia ottenuto con fatica dei cambiamenti personali, lunghi periodi di evitamento abbiano creato carenze in competenze sociali che devono essere confrontate durante la terapia. Nonostante questo, in letteratura sono frequenti resoconti di casi che affrontano il campo delle capacità o della disposizione di resistenza, ma non entrambi.
Il modello SCIP riconosce che l’evitamento basato su tale disposizione porta ad una carenza di abilità ma anche che un ripetuto fallimento dovuto a capacità inadeguate porta ad un’avversione e allo sviluppo di una disposizione di resistenza verso ulteriori tentativi di utilizzare tali capacità. Certamente, le disposizioni si sviluppano anche in altri modi, diversi dal deficit di capacità. Il punto essenziale è che un terapeuta che stesse cercando, per esempio, di incoraggiare un marito ad utilizzare metodi di soluzione del conflitto più paritari deve anche determinare se gli manchi la capacità di acquisire il punto di vista di sua moglie e di comunicare empaticamente la sua comprensione, o se sia convinto che così facendo si troverebbe a rischio di “una pugnalata alla schiena”. Il modello SCIP indica che per molti clienti è necessario affrontare simultaneamente sia la disposizione di resistenza, sia la carenza di capacità perché ciascuna rinforza il persistere dell’altra.
Le competenze sociali sono anche importanti per la psicoterapia interpersonale poiché, come mostra la figura 1, vi sono quattro diversi percorsi attraverso i quali queste variabili possono causare sofferenza. In questo contesto, il deficit di competenze sociali indica sia una carenza di capacità sociali, sia una disposizione maladattativa. (Questi quattro percorsi sono indicati al di fuori delle caselle come “deficit di competenze sociali” nella figura 1.) Muovendo da sinistra verso destra, il primo percorso (E > A; competenza sociali > elementi stressanti) indica che disposizioni maladattative e carenze di capacità espongono l’individuo ad ulteriori elementi stressanti. Si noti che questo percorso non include differenze nella percezione degli avvenimenti, ma piuttosto dei diversi livelli di rischio nel confrontare gli elementi stressanti. Per esempio, in chi ha scarse capacità di soluzione dei problemi o di risoluzione del conflitto, l’iniziale fallimento nel liberarsi dall’elemento stressante espone ad un maggiore rischio di ulteriori elementi di stress (Dixon et al., 1993). In modo simile, abbiamo visto che disposizioni che predisponevano all’ansia da attaccamento adulto tra gli studenti stranieri appena arrivati, erano collegate con il racconto di accadimenti di vita particolarmente stressanti (Chenet al., 2000). (Chiaramente, senza un’osservazione indipendente, è impossibile distinguere le differenze tra l’effettiva esperienza e le differenze nella percezione di avvenimenti narrati dal soggetto). Poiché la caratteristica essenziale di questo percorso è la maggiore esposizione all’elemento stressante, esso è definito come un’influenza del deficit di competenze sociali a rischio maggiore.
Il secondo percorso, (E > B; competenze sociali > effetti moderatori) descrive gli effetti moderatori che hanno alcune disposizioni e capacità sociali, al di là del supporto sociale e qualità delle relazioni, come, per esempio, gli effetti migliorativi di forme di resilienza nella valutazione cognitiva e soluzione dei problemi (Dixon et al., 1994; Heppner et al., 1991) o gli effetti esacerbanti di un’affettività negativa (Rhodewalt, Zone, 1989). Gli effetti dei deficit di competenze sociali che producono una risposta esasperata sono definiti in questo percorso come effetti esacerbanti.
Un terzo percorso (E > D > B; competenze sociali > qualità delle relazioni > effetti moderatori) rappresenta l’effetto moderatore che la qualità delle relazioni ed il supporto sociale hanno sulla connessione tra gli elementi stressanti ed i sintomi. Con questo meccanismo, influenzando le capacità di coping sociale del paziente, le competenze sociali influenzano indirettamente i sintomi. Per questo il percorso è denominato riduzione delle risorse/aumento della vulnerabilità del deficit di competenze sociali, poiché quando è assente l’elemento stressante non ci dovrebbero essere effetti. Comunque, quando queste persone si trovano in una situazione di forte stress, la loro carenza di capacità sociali li rende incapaci di disporre effettivamente del supporto relazionale. Potrebbero avere un’attitudine negativa alla ricerca del supporto oppure non sono in grado di porre fine alle interazioni sociali dannose, descritte da Coyne e Bolger (1990).
L’ultimo percorso dei quattro relativi ai rischi da deficit di competenze sociali, passa dal supporto sociale e qualità di relazione, direttamente ai sintomi (E> D> C). Abbiamo visto il modo in cui le competenze sociali possono influenzare la qualità delle relazioni ed in che modo le relazioni di sostegno riducono i sintomi della sofferenza da stress, ma anche le influenze opposte andrebbero prese in considerazione. Attitudini della personalità che portano a relazioni di cattiva qualità possono essere la causa indiretta di sofferenza, stress e situazioni problematiche. Questo non è altro che un modo per sottolineare la centralità di approcci che seguono modelli come quello del Tema Centrale delle Relazioni Conflittuali (CCRT) di Luborsky per la concettualizzazione delle situazioni-problema (Luborsky, 1997; Luborsky, Crits-Christoph, 1998). In effetti, si è sostenuto che molti sintomi psicologici, incluse la depressione e l’ansia, possano essere riconcettualizzati in termini di problemi interpersonali (Horowitz, 1979). Un volume crescente di ricerche indica che il comportamento interpersonale di un individuo depresso provoca reazioni negative tali da aumentare la probabilità del rifiuto e mantenere il sintomo depressivo (Coyne et al., 1990; per una rassegna completa vedere Joiner, Coyne, 1999). Di conseguenza il quarto percorso è: influenza dei deficit di competenze sociali relativa ai sintomi mediati da relazioni.
Un esempio illustrerà in che modo tutti quattro i percorsi possono agire per aumentare la sofferenza e lo stress. Supponiamo che un giovane con una predisposizione per l’ansia da attaccamento e preoccupato dall’abbandono si presenti in terapia dopo la recente fine di una relazione sentimentale. Supponiamo inoltre che la sua disposizione per l’ansia di attaccamento abbia limitato le sue competenze sociali atte a stabilire relazioni di supporto reciproco (E > D, competenze > supporto) e che ora lui abbia poche amicizie supportive. I suoi pochi conoscenti sono infastiditi dalle sue continue e unilaterali richieste di supporto. Attraverso l’influenza a rischio accresciuto (E > A; competenze > elementi stressanti), la sua ansia da attaccamento potrebbe portarlo a scegliere partner in modo affrettato ed inadeguato, che abbastanza probabilmente lo abbandoneranno. Per mezzo dell’influenza da risposta esasperata (E > B; competenze > effetti moderatori), una predisposizione alla valutazione negativa, un’affettività negativa, la scarsa propensione per la soluzione dei problemi o una scarsa efficacia sociale potrebbero spingerlo ad interpretare il fatto di avere chiuso la relazione come un disastro dalle conseguenze tanto gravi che non si riprenderà mai e rispetto a cui nulla può essere fatto per migliorare la sue prospettive di felicità. Di conseguenza, aumenta la sua reazione affettiva di depressione e disperazione. Con l’influenza riduzione delle risorse/aumento della vulnerabilità (E > D > B; competenze > supporto > effetti moderatori), la sua mancanza di competenze sociali lo ha lasciato senza confidenti, né altre fonti di supporto sociale che potrebbero attutire l’impatto della rottura. Infine, attraverso i sintomi indotti dalla relazione (E > D > C; competenze > supporto > sintomi), quando si rivolge alle sue poche conoscenze per cercare conforto, la loro esasperazione per la sua precedente mancanza di reciprocità o la sua presente ossessione per il partner perduto potrebbero spingere alcuni di loro a rifiutarlo e questo porta ad un’ulteriore esperienza di abbandono e stress, fonte di sofferenza.
Come illustra questo esempio, sono molteplici i potenziali percorsi causali attraverso cui i deficit di competenze sociali possono aggravare le situazioni problema del cliente. Per questo motivo, le competenze sociali (sia le capacità, sia le attitudini) possono essere target validi degli interventi terapeutici.
Scoprire come si sviluppano tali competenze è un area di studio cruciale. Nelle mie ricerche sulle differenze individuali nelle competenze sociali, sono stato attirato dalla forza della teoria dell’attaccamento come strumento per spiegarne lo sviluppo.

Competenze sociali, attaccamento e prime esperienze familiari
Secondo la teoria dell’attaccamento, i modelli operativi sono strutture cognitive che si formano in uno stadio iniziale dello sviluppo relative a (a) gli altri come generalmente benevoli e di aiuto oppure deludenti e pericolosi, e (b) il sé come genere di persona degna o indegna di conforto e di cure. I modelli operativi diventano via via più resistenti al cambiamento con il procedere dello sviluppo perché le informazioni nuove che non rientrano nelle strutture esistenti sono difficili da elaborare e a scopo di difesa possono venire escluse (Bowlby, 1969, 1973; Bretherton, 1985). Una vasta mole di ricerche indica che l’attaccamento della prima infanzia avrà una profonda influenza sullo sviluppo delle competenze sociali dei bambini e sulla qualità delle prime interazione con i coetanei (Coble et al., 1996). La questione della continuità dei modelli operativi dall’infanzia all’età adulta è una questione dibattuta, ma sono in continuo aumento le prove del fatto che le esperienze dell’infanzia nei confronti di coloro che offrono le cure parentali sono associate con i pattern adulti di attaccamento e possono influenzare la qualità delle relazioni personali in età adulta (per una rassegna vedere Feeney, 1999; Hazan, Zeifman, 1999; Lopez, 1995, Mohr, 1999; Rothbard, Shaver, 1994; Simpson, Rholes, 1998). La teoria dell’attaccamento ritiene che sensibilità e comprensione da parte di chi fornisce le cure parentali (caregiver) conducano ad un attaccamento sicuro e all’introiezione di modelli operativi positivi relativi a se stessi e agli altri (Bretherton, 1985). Quando gli sforzi comunicativi di un bambino piccolo hanno successo nello stimolare cure e conforto da parte degli adulti, ha inizio lo sviluppo di una buona efficacia sociale (Tronick, 1989). Analogamente, nelle mie ricerche, le memorie di genitori emotivamente espressivi è legata, negli adulti, sia all’efficacia sociale sia al supporto sociale (Mallinckrodt, 1992). Altri ricercatori hanno individuato legami tra la sensibilità emotiva dei genitori e il supporto sociale (Flaherty, Richman, 1986; Sarason et al.; 1986). Al contrario, in un campione di donne che avevano subito abusi sessuali, abbiamo notato che memorie di legami emotivi di cattiva qualità con entrambi i genitori erano correlate a scarsità di supporto sociale, incapacità di intimità e consapevolezza emotiva e dimensione limitata della rete sociale (Mallinckrodt et al., 1995).
L’alessitemia è un disturbo della regolazione dell’affetto con marcate carenze nell’abilità di distinguere gli stati affettivi, identificare i propri sentimenti ed esprimere emozioni (Taylor et al., 1997). L’alessitemia è stata collegata, negli adulti, al ricordo di insicurezza emotiva all’interno della famiglia e ad una mancanza di comunicazione positiva e di un’espressione emotiva calda (Barenbaum, Taryn; 1994). Secondo i teorici della struttura familiare, uno sviluppo emotivo sano dipende dall’esistenza di confini interpersonali chiari e persistenti tra i membri della famiglia, da un forte legame coniugale dei genitori e dall’astenersi dei genitori dal formare coalizioni inadeguate con un figlio per opporsi all’altro genitore (Haley, 1979). Abbiamo visto che il ricordo di conflitti coniugali tra i genitori, l’inversione dei ruoli parentali e le paure di separazione sono collegati con l’alessitemia (King, Mallinckrodt, 2000), mentre il ricordo di coesione all’interno della famiglia, l’espressione emotiva e l’incoraggiamento all’indipendenza sono collegati a più alti livelli di consapevolezza emotiva ed espressione affettiva.
Nella sua interezza, questa ricerca indica che le esperienze della prima infanzia influenzano lo sviluppo delle competenze sociali (F > E) e che a loro volta le competenze sociali influiscono sulla qualità delle relazioni adulte (E > D). Chiaramente, i costrutti che io ho chiamato deficit di competenze sociali o attitudini sociali maladattative si sovrappongono considerevolmente con il concetto di transfert (Gelso, Hayes, 1998) e con quello dei temi conflittuali centrali (Core conflictual themes) (Luborsky, Crits-Christoph, 1998), per indicarne solamente alcuni. Riconosco che il modello SCIP non include costrutti totalmente nuovi. La principale differenza rispetto ad altri costrutti, a mio avviso, è l’enfasi che il modello SCIP pone sulla teoria dell’attaccamento e l’idea che i pattern maladattativi includano sia disposizioni caratteriali, sia specifici deficit di capacità.

Ricerca sull’alleanza di lavoro
A partire dal 1991, nel mio ruolo di direttore della formazione e coordinatore del corso di Psicologia del Counseling dell’Università dell’Oregon, cominciai ad occuparmi della formazione degli studenti all’uso di un modello di terapia dei processi interpersonali (Teyber, 1997). Nell’insegnamento e nella supervisione sono stato influenzato dall’adattamento di Gelso e colleghi del concetto di relazione psicoterapeutica di Greenson (1997) come di una relazione composta di una configurazione di transfert-controtransfert, alleanza di lavoro, e relazione reale. Dal momento che una meta-analisi indica che la qualità dell’alleanza di lavoro determina in modo significativo il risultato della terapia (Hovarth, Symonds, 1991), cominciai ad interessarmi dell’alleanza terapeutica che si sviluppava tra i nostri studenti terapeuti e i clienti all’interno della nostra clinica. Nel mio ruolo di supervisore clinico notai che i tirocinanti avevano la tendenza ad acquisire dapprima gli strumenti necessari a costruire il rapporto con il cliente, in seguito imparavano a gestire specifici interventi terapeutici, e solo verso la fine della loro specializzazione erano in grado di strutturare una loro personale teoria psicoterapeutica che determinasse la scelta di obbiettivi terapeutici e tecniche per raggiungere tali obbiettivi.
Vagliai l’ipotesi che gli studenti acquisissero a stadi diversi le competenze necessarie per sviluppare le diverse componenti dell’alleanza terapeutica, i legami, le capacità e gli obbiettivi identificati da Bordin (1979). I cinquanta terapeuti che accettarono di partecipare a questo studio (Mallinckrodt, Nelson, 1991) furono classificati come: (a) novizi, studenti laureati nel loro primo semestre di pratica, sotto supervisione; (b) tirocinanti avanzati, studenti laureati nel loro secondo semestre di pratica e oltre, fino ad includere gli interni, e (c) terapeuti esperti, staff che aveva concluso la specializzazione e che lavorava a tempo pieno presso uno dei tre enti partecipanti. Come previsto, i risultati indicavano che i tre diversi livelli di formazione non davano luogo a differenze rispetto alla valutazione del legame nell’alleanza di lavoro da parte dei clienti. I tirocinanti avanzati ottenevano, da parte dei clienti, valutazioni significativamente più alte che i novizi rispetto alle capacità nell’alleanza di lavoro. Sia i terapeuti esperti che i tirocinanti erano migliori dei novizi per quanto riguarda gli obiettivi. Al contrario di quanto ci si aspettasse, i terapeuti esperti non erano valutati in modo significativamente migliore dei tirocinanti avanzati, né rispetto alle capacità, né rispetto agli obbiettivi. Peraltro, i terapeuti esperti si attribuivano una valutazione migliore rispetto a queste due dimensioni di quanto non facessero i tirocinanti avanzati.
Vari modelli del cambiamento in psicoterapia indicano che la fase centrale di una buona terapia è un momento di considerevole tumulto perché gli agenti del cambiamento, che il modello postula, fanno sentire la loro influenza sul cliente. Alcuni di questi modelli sono il modello di Mann (1973) per la terapia breve, il modello di complementarità di Tracey (1993), il modello della relazione psicoterapeutica di Gelso e Hayes (1998) e il modello di assimilazione dei problemi di Stiles (Honos-Webb tre 1998; Stiles et al., 1990). Nei miei corsi di pratica, sulla base di questi modelli, incoraggiavo i miei studenti a pensare alla prima fase di una terapia breve come al momento adatto per accumulare “gettoni” positivi costruendo una solida alleanza di lavoro – un processo che Tryon (1990) chiama assunzione dell’alleanza di lavoro – e di non temere di “spendere” alcuni di questi gettoni nella fase centrale della terapia quando ha inizio il lavoro veramente difficile. Spendere i gettoni significa includere le inevitabili fratture nell’alleanza di lavoro e considerarle come opportunità per il progresso della terapia (Safran, 1993; Safran et al., 1994). È mia esperienza il fatto che, all’inizio, gli studenti che hanno come massima motivazione quella di essere di aiuto ai pazienti si trovano spesso in difficoltà nella fase centrale della terapia ad utilizzare tecniche (per esempio lavoro basato sull’esperienza del processo, interpretazione del transfert) a cui i clienti generalmente oppongono resistenza invece che gratitudine.
Saggiai queste idee con uno studio su alleanza di lavoro, risultati terapeutici e valutazione dell’impatto terapeutico delle singole sedute, utilizzando il Questionario di Valutazione delle Sedute (Stiles, Snow, 1984). Come pensavo, la profondità e la facilità delle prime sedute suscitava da parte dei clienti valutazioni positive dell’alleanza di lavoro. A sua volta l’intensità dell’alleanza iniziale era correlata con la profondità delle sessioni, secondo la valutazione dei clienti, nella fase centrale della terapia, e con la profondità quanto con la positività nella fase finale. L’intensità e la profondità delle sedute nella fase centrale erano messe positivamente in relazione con i risultati della terapia. Risultati positivi venivano messi in relazione con la positività media delle sedute solo nella fase terminale e non nella fase iniziale o centrale della terapia (Mallinckrodt, 1993). Interpretai questi risultati come incentivo per i miei studenti a (a) impegnarsi per una profondità e buona assunzione dell’alleanza di lavoro nelle prime sedute per costruire solide basi dell’alleanza e (b) ad avere fiducia in queste basi nella fase centrale, senza temere di evocare l’ansia del cliente nell’ottica del miglioramento terapeutico, perché probabilmente le sedute intense e profonde hanno maggior valore, nella fase centrale, di quelle positive o facili.

Competenze sociali, qualità della relazione e alleanza di lavoro
Dato il mio interesse per il modo in cui le esperienze della prima infanzia influiscono sulle competenze sociali, il passo logico successivo nello studio dell’alleanza di lavoro mi condusse ad analizzare il modo in cui le competenze sociali dei clienti e le loro prime esperienze con i genitori influissero sullo sviluppo dell’alleanza di lavoro. Una critica mossa nei confronti di questa ricerca è quella di essersi basata sui ricordi dei clienti delle loro prime relazioni con i genitori. Chiaramente, questi ricordi possono essere influenzati da un’ampia gamma di elementi di disturbo. D’altra parte, la ricostruzione attuale che un cliente fa del passato potrebbe avere una maggiore influenza sul suo funzionamento che il “vero passato” (Mahoney, 1991), sempre che questo possa essere stabilito in modo accurato. In uno studio precedente (Mallinckrodt, 1991) sostenevo che l’efficacia sociale e la percezione del supporto sociale in individui non in terapia fossero collegate ai valori dello Strumento del legame genitoriale (Parental Bonding Instrument-PBI; Parker et al., 1979). Per questo motivo decisi di usare questa valutazione in uno studio dei clienti in terapia. Più di cento clienti che si trovavano circa alla terza seduta di terapia riempirono il PBI, l’Inventario della alleanza di lavoro (Working Alliance Inventory) e la Scala delle provvidenze sociali (Social Provisions Scale) come dimensione della qualità generale delle loro relazioni sociali. A differenza di quanto ci si aspettasse, la reattività emotiva né delle madri né dei padri era collegata al supporto sociale (mentre lo era stata in uno studio precedente di laureandi). Nonostante questo, il ricordo di un controllo intrusivo da parte della madre veniva associato negativamente da questi strumenti con il supporto sociale. Come previsto, la valutazione dei clienti dell’alleanza di lavoro era legata positivamente al supporto sociale, ma diversamente da quanto ci aspettassimo nessun aspetto del legame parentale veniva messo in relazione con la valutazione dei clienti dell’alleanza di lavoro (Mallinckrodt, 1991).
Con questi risultati così vari, ero ansioso di portare a termine un nuovo studio sui legami parentali, le competenze sociali e l’alleanza di lavoro. I clienti di tale studio, come precedentemente, compilarono il PBI e l’Inventario dell’alleanza di lavoro. Inoltre, per valutare le competenze sociali, in questo studio veniva usata una Valutazione dell’Autoefficacia (Sherer, Adams, 1983) e la Scala dell’Attaccamento Adulto (Adult Attachment Scale-AAS; Collins, Read, 1990). L’AAS include tre sottoscale per misurare la volontà di fidarsi degli altri e basarsi sulla loro disponibilità in caso di necessità (Dipendere), l’agio nell’intimità (Essere Vicini) e la paura di essere abbandonati in seno ad una relazione (Ansia). In questo studio analizzammo dati provenienti da clienti donne perché c’erano troppo pochi partecipanti maschi. I risultati indicavano che la reattività emotiva del padre aveva a che fare con la volontà di dipendere da altri e che l’iperprotezione intrusiva era associata negativamente con il senso di agio nell’intimità. Era interessante notare che il controllo intrusivo da parte del padre aveva forti correlazioni negative con l’alleanza di lavoro. Tra le competenze sociali, solo l’ansia d’abbandono era collegata con l’alleanza di lavoro. Regressioni gerarchiche multiple indicavano che i legami parentali determinavano il 23% della varianza individuale nella valutazione del cliente dell’alleanza di lavoro, mentre le competenze sociale ne determinavano il 14% (Mallinckrodt et al., 1995).
Nell’ambito del modello SCIP i risultati dello studio precedente andavano a favore di una correlazione tra i legami parentali e le competenze sociali (F > E) e di un’altra tra (E) le competenze sociali e (G) la relazione psicoterapeutica. Però il legame più forte riscontrato nello studio di Mallinckrodt, Coble e Gantt (1995) era quello tra i legami parentali e la relazione psicoterapeutica. Questo legame, F > G, è mostrato nella figura 1 con una linea tratteggiata per indicarne la natura sperimentale. È possibile che l’associazione tra le esperienze della prima infanzia e la relazione psicoterapeutica si possa desumere completamente dagli effetti mediatori delle competenze sociali. In altre parole, se fosse possibile misurare l’effetto totale dell’esperienza infantile sulle competenze sociali e l’effetto di tutte le competenze sociali sulla relazione terapeutica, non vi sarebbero associazioni univoche significative tra l’esperienza infantile e la relazione psicoterapeutica.
Alcuni lettori potrebbero intravedere in questa possibilità un’accusa al costrutto delle competenze sociali, perché esso è così ampio da essere virtualmente insignificante. Riconosco che in effetti questo costrutto sia molto ampio, ma credo che conservi la sua utilità perché ci permette di ristrutturare la questione posta dal legame tratteggiato F > G (prime esperienze > relazione psicoterapeutica) della figura 1. Dato che le competenze sociali includono tutti i fattori interni ad un individuo necessari per stabilire e conservare relazioni personali di qualità, ci sono forse altre influenze che l’esperienza infantile ha sulla relazione psicoterapeutica oltre all’influenza generale che le prime esperienze hanno sulle competenze sociali e le esperienze personali? Resto in attesa di futuri studi che rispondano a queste domande con una diversa batteria di misurazioni delle competenze sociali.
Il modello SCIP riconosce che il terapeuta spesso diventa una fonte temporanea diretta di supporto sociale per il cliente (G > D; relazione terapeutica > supporto sociale). Però il modello indica che un cambiamento duraturo ha luogo solo quando sia avvenuto un cambiamento a livello delle competenze sociali del cliente. Per verificare il legame G > E (relazione terapeutica > competenze sociali) della figura 1, ho usato una doppia valutazione del cambiamento del supporto sociale del cliente, dei sintomi di sofferenza, e dell’alleanza di lavoro, prima e dopo una terapia breve (Mallinckrodt, 1996). I risultati indicavano che il miglioramento dell’alleanza di lavoro nel corso della terapia era collegato a una maggiore soddisfazione del cliente rispetto al supporto sociale. Il miglioramento dell’alleanza di lavoro e il miglioramento del supporto sociale erano entrambi, a loro volta, collegati con il successo della terapia. In ogni caso, era il cambiamento nel supporto sociale ad avere la maggiore influenza sul cambiamento dei sintomi. Come indicato dal modello SCIP, risulta che l’alleanza di lavoro ha un’importante influenza indiretta sui sintomi, per mezzo degli effetti mediatori del positivo crescere del sostegno sociale del cliente. Si noti comunque che alcuni ricercatori hanno suggerito che diversi approcci terapeutici sulla base dei relativi fondamenti teorici mostrano delle differenze nel fatto che il cambiamento sia facilitato dal migliorare dell’alleanza oppure da un’alleanza che resti relativamente positiva fin dall’inizio (Westerman et al., 1995).
I risultati dello studio Mallinckrodt (1996) sono coerenti con l’idea che gli sforzi volti a costruire l’alleanza di lavoro o a sanarne le incrinature aiutino il cliente ad acquisire importanti competenze sociali. Altre ricerche forniscono maggiori dettagli sui presunti legami tra le competenze sociali e la relazione psicoterapeutica. Kivilighan e Shaughnessy (1995), utilizzando un’analisi delle serie temporali, hanno trovato che i progressi nell’alleanza di lavoro che si hanno seduta dopo seduta sono collegati con un cambiamento in positivo delle relazioni interpersonali del cliente. Kivilighan e Schmitz (1992) sostengono che la maggiore attenzione del terapeuta al qui-ed-ora, così come la volontà di mettere in discussione il punto di vista del cliente, contraddistinguono le alleanze di lavoro che, avendo avuto un inizio scadente, siano migliorate da quelle che sono rimaste scadenti. Tali studi indicano tecniche specifiche che il terapeuta può utilizzare per affrontare le inevitabili fratture nella relazione di lavoro con il cliente. Benché tali fratture si possano verificare con qualsiasi cliente (Safran, Muran, 1998), mi sono interessato particolarmente allo studio di quelle differenze individuali che, per alcuni clienti, rendono particolarmente difficile un’alleanza di lavoro produttiva. Questo interesse mi ha spinto a studiare l’applicazione della teoria dell’attaccamento alla comprensione della relazione psicoterapeutica.

Attaccamento e relazione psicoterapeutica
Bowlby (1988) ha sostenuto che le aspettative generalizzate sugli altri e le convinzioni sul sé che danno luogo ai modelli operativi nelle prime esperienze di attaccamento possano influenzare profondamente la relazione terapeutica, che, egli ha sottolineato, ha importanti similitudini con l’attaccamento tra il neonato e chi si occupa di lui. La teoria dell’attaccamento è talmente attraente che esiste il rischio di generalizzare in modo eccessivo ed applicarla a tutte le relazioni strette (Mallinckrodt, 1995). Prima di accettare acriticamente l’asserzione che quella psicoterapeutica sia una relazione di attaccamento, vale la pena di prendere in considerazione una definizione operativa di cosa costituisca una relazione di attaccamento adulta. Secondo West e Sheldon-Keller (1994), a partire dall’opera di Weiss (1982) l’attaccamento adulto è: (a) “una relazione diadica in cui la prossimità ad un altro speciale e preferito è ricercata o mantenuta per raggiungere un senso di sicurezza” (pag. 19); (b) una relazione di comunanza emotiva; (c) una relazione la cui perdita suscita dolore e proteste e (d) una relazione in cui il partner è insostituibile. Da questa definizione risulta chiaro che sebbene non tutte le forme di counseling o psicoterapia vi rientrino, nei casi in cui il cliente sia in grado di dedicarsi pienamente alla psicoterapia interpersonale, tale relazione implica processi di attaccamento adulto. Tuttavia, vi sono importanti differenze tra l’attaccamento genitore-figlio e quello terapeutico (per esempio durata, reciprocità, limitazioni della disponibilità) che hanno importanti conseguenze nella terapia, specialmente perché queste differenze possono fungere da punto focale per le reazioni di transfert del cliente (Farber et al., 1995).
Negli adulti, i modelli operativi dell’attaccamento consistono di quattro elementi: (a) memoria autobiografica dell’interazione sociale, (b) aspettative verso di sé e verso gli altri nelle situazioni interpersonali; (c) obiettivi nella relazione che indirizzano le reazioni dell’individuo nelle situazioni sociali e (d) strategie per raggiungere tali obiettivi e controllare la sofferenza prodotta dal mancato raggiungimento degli obiettivi stessi (Collins, Read, 1994). Quindi, se la psicoterapia è una forma di attaccamento, la relazione sarà influenzata dal cliente e dal terapeuta con i loro (a) ricordi di attaccamenti passati, (b) aspettative per sé e per l’altro rispetto a questo legame, (c) strategie per ottenere risultati nell’attaccamento terapeutico e (d) dalle strategie per controllare la frustrazione quando gli obiettivi non vengono raggiunti. Dunque la teoria dell’attaccamento ci offre una valida struttura per la comprensione del controtransfert del terapeuta e del transfert del paziente (Gelso, Heyes, 1998).
Per comprendere lo specifico significato degli obiettivi delle strategie di attaccamento nel contesto della psicoterapia, è necessario riconsiderare certi concetti base della teoria dell’attaccamento. Per il bambino piccolo, l’obiettivo prefissato dal sistema comportamentale di attaccamento è quello di mantenere la prossimità con la figura di attaccamento (Hazan, Shaver, 1994; Kobak, 1999). La funzione del comportamento di attaccamento è quella di promuovere un senso di sicurezza percepita (Sroufe, Waters, 1977) attraverso la regolazione della prossimità fisica. Nell’ambito di questo senso di sicurezza, i bambini piccoli sono sollevati dalle paure che li inibiscono e possono dedicarsi ad esplorare il mondo fisico che li circonda. In questo modo la figura di attaccamento funge da base sicura per l’esplorazione. Nel caso di una minaccia esterna o di uno stato di compromissione del benessere interno (per esempio malattia o affaticamento) il bambino piccolo smette di esplorare e cerca idealmente una maggiore vicinanza con la figura di attaccamento, che in tal modo funge da porto sicuro (Bowlby, 1979). Crescendo, rappresentazioni mentali interiorizzate vanno via via sostituendo nel bambino la vera e propria vicinanza fisica. In questo modo, al momento dell’adolescenza l’intimità emotiva avrà in gran parte preso il posto della prossimità fisica; benché anche per gli adulti la vicinanza (per quanto primariamente vicinanza emozionale) resti l’obiettivo prefissato del comportamento di attaccamento e la funzione della prossimità sia sempre il senso di sicurezza percepita (West, Sheldon-Keller, 1994).
Quando i modelli operativi si attivano in condizioni di stress, specialmente di sofferenza interpersonale, si attivano anche le strutture e le aspettative relative alle relazioni che stimolano le reazioni emotive, con un processo che si definisce affetto suscitato dallo schema (Fiske, Pavelchak, 1986). La specifica risposta affettiva è governata da un processo di interpretazione e valutazione dell’evento determinato da modelli operativi interni. Questo spiega perché eventi relazionali apparentemente simili possano suscitare due risposte affettive piuttosto differenti in clienti che attribuiscono diverso significato all’evento, sulla base dei loro differenti modelli operativi. Infine, parallelamente alle strategie per raggiungere obiettivi di vicinanza, i modelli operativi consistono anche in risposte di coping schematizzate nel caso di obiettivi frustrati. Negli adulti, tali strategie di coping consistono essenzialmente in metodi per la regolazione dell’affetto (Collins, Read, 1994; Mickulincer, 1998).
Alcuni concetti della teoria del controllo sono stati utilizzati per sviluppare un modello che collegasse i precedenti concetti di modelli operativi, prossimità della relazione, regolazione dell’affetto (Kobak et al., 1993). Secondo questo modello, una storia di reattività affettiva relativamente costante spinge i bambini (quanto gli adulti) a predire reattività favorevoli in futuro. In questo modo, quando gli individui con un solido attaccamento si sentono minacciati mostrano la normale attivazione dei sistemi comportamentali di attaccamento (per esempio cercare la vicinanza e stimolare conforto da parte delle figure di attaccamento). Partendo dal lavoro di Main (1990), Kobak et al. (1993) si può sostenere che gli individui a cui manchi una storia di attaccamento sicuro rispondono alle situazioni minaccianti in uno di due diversi modi. Coloro che, sulla base di esperienze precedenti, si aspettano che le figure di attaccamento ignorino o rifiutino le loro richieste di conforto, imparano nel tempo a disattivare le normali risposte di attaccamento, prevalentemente attraverso processi cognitivi e processi di controllo dell’affetto che servono a sviare l’attenzione sia dagli stimoli che causano sofferenza, sia dai pensieri e dalle sensazioni relativi all’attaccamento (Fraley et al., 1998). Al contrario, coloro che, sulla base di esperienze precedenti, si aspettano che le figure di attaccamento rispondano in modo scostante, imparano a mantenere i sistemi di attaccamento in uno stato di iperattivazione, monitorando costantemente le figure di attaccamento, alla ricerca di segni di abbandono incombente, fissando la loro attenzione sugli stimoli che causano angoscia ed esasperando le loro manifestazioni di sofferenza nel tentativo di mantenere la prossimità e richiedere conforto. A favore di questo modello, Kobak et al. (1993) identificarono tre gruppi distinti di adolescenti, sicuri, iperattivanti e deattivanti, nell’ambito di un’osservazione di laboratorio di diadi madre-adolescente che svolgevano un compito di problem-solving. Gli adolescenti che erano stati classificati come dotati di attaccamento sicuro, si impegnavano nel compito con un livello significativamente più basso di rabbia disfunzionale e di evitamento del problema rispetto agli adolescenti appartenenti agli altri due gruppi.
Una tipologia quadrupla di stili di attaccamento adulti è stata proposta a partire dalla combinazione di modelli operativi positivi e negativi del sé e degli altri (Bartholomew, Horowitz, 1991). Un attaccamento sicuro riflette un modello di sé e degli altri positivo; il pattern preoccupato combina un modello di sé negativo con un modello positivo relativo agli altri; quello impaurito prevede un modello negativo sia di sé, sia degli altri; infine, quello sprezzante indica un modello di sé positivo ed uno degli altri negativo. Il pattern iperattivante descritto da Kobak et al. (1993) é la strategia preferita degli adulti con uno stile di attaccamento preoccupato, mentre il pattern deattivante sembra essere la strategia degli adulti dallo stile di attaccamento sprezzante.
Un volume di dati in continuo aumento é a favore del modello proposto da Kobak e dai suoi colleghi relativo al modello iperattivazione/deattivazione (Dozier, Kobak, 1992; Kobak et al., 1993). Per esempio, è probabile che una persona con uno stile di attaccamento preoccupato (si presume una strategia di attaccamento iperattivante) provi maggiore intensità emotiva e si occupi maggiormente delle proprie emozioni rispetto a chi ha uno stile sprezzante. Al contrario, coloro che sono caratterizzati da tale stile (e si presume una strategia di relazione deattivante) probabilmente esprimono di meno le proprie emozioni, provano minore intensità affettiva e si occupano scarsamente delle loro esperienze emotive (Searle, Meara, 1999). Si è visto che coloro che hanno uno stile di attaccamento preoccupato reagiscono agli avvenimenti stressanti con pensieri maggiormente intrusivi rispetto a coloro che hanno stili sicuri o impauriti (Kemp, Neimeyer, 1999).
Prove dell’attivazione di schemi relazionali negli stili di attaccamento adulto si sono ottenute per mezzo di ricerche sperimentali sulla decisione lessicale. Gli individui con stili di attaccamento sicuro erano più rapidi nell’identificare parole che suggerissero circostanze interpersonali positive che nell’identificare parole neutre o negative, mentre i soggetti con attaccamenti insicuri erano decisamente più veloci ad identificare le parole che descrivevano il risultato negativo di una relazione rispetto a parole positive o neutre (Baldwin et al., 1993). Le persone che erano a loro agio con l’intimità e che sentivano di poter dipendere dagli altri interpretarono una serie standard di vignette-stimolo relative a eventi relazionali negativi in modi che conservavano la loro confidenza nel partner e nella relazione, generalmente interpretando gli eventi in modo da minimizzarne le implicazioni negative a lungo termine. Al contrario, gli individui con alti livelli di ansia da attaccamento erano portati ad interpretare gli eventi come sintomi del fatto che la relazione stessa era a rischio, che il partner non rispondeva, non era degno di fiducia o era apertamente rifiutante. In generale, le loro interpretazioni tendevano ad ingigantire le implicazioni negative delle vignette-stimolo (Collins, 1996). Le persone con un attaccamento ansioso sembrano portate a ricercare sicurezza in seno alle loro relazioni intime, mentre coloro che hanno attaccamenti evitanti pongono maggiore enfasi sul fatto di acquisire il controllo della relazione (Mikulincer, 1998).

Partendo dal presupposto che la psicoterapia implichi una relazione di attaccamento, assieme al mio gruppo di ricerca abbiamo sviluppato una scala di misurazione per verificare i costrutti di: ricerca della prossimità, porto sicuro, regolazione emotiva e di base sicura, via via che questi si sviluppano in seno alla relazione terapeutica. I dettagli relativi allo sviluppo di questo strumento sono descritti altrove (Mallinckrodt et al., 1995). Analisi fattoriali esplorative sono state condotte sulla base di dati raccolti tra oltre centotrenta clienti. La risultante Scala di attaccamento del cliente al terapeuta (CATS, Client Attachment to Therapist Scale) si compone di tre parametri. Il primo fattore (Sicurezza) individua il senso di sicurezza nell’attaccamento del cliente al terapeuta e la percezione che il terapeuta sia reattivo e costante nella sua disponibilità emotiva. Tale fattore include componenti propri della base sicura (per esempio: «Il mio terapeuta mi aiuta a guardare da vicino a cose spaventose o problematiche che mi sono successe») e del porto sicuro (per esempio: «Il mio terapeuta è una presenza confortante quando sono turbato»). Il secondo fattore (Evitante/Impaurito) individua la sfiducia verso il terapeuta, il senso di umiliazione, di insicurezza, la sensazione di essere trattato con condiscendenza, la forte riluttanza ad aprirsi o approfondire l’intimità nell’ambito della terapia e la sensazione che il livello di coinvolgimento del terapeuta sia contingente al comportamento del paziente. Il terzo fattore (Preoccupato/Fusionale) individua il desiderio di fusione con il terapeuta, di trascorrere più tempo insieme, di essere il cliente preferito, e il desiderio che il terapeuta diventi più personale e più intimo. Il parametro CATS relativo alla Sicurezza ha correlazione positiva con l’alleanza di lavoro e negativa con vari deficit di relazione oggettuale. Al contrario, il fattore Evitante/Impaurito era correlato negativamente all’alleanza di lavoro e positivamente con deficit di relazione oggettuale, relativi ad alienazione ed incompetenza sociale. Il parametro Preoccupato/Fusionale ha dimostrato una correlazione positiva chiara, benché debole, solo con l’aspetto dell’alleanza di lavoro che si riferisce al legame e con un solo deficit di relazione oggettuale, l’attaccamento insicuro. Sia il fattore Evitante/Impaurito, sia quello Preoccupato/Fusionale hanno dimostrato una correlazione negativa con l’autoefficacia.
Un secondo studio sul CATS includeva l’analisi dell’ambiente familiare disfunzionale dei clienti e dell’alessitemia, investigando quindi i legami tra gli elementi F, E e G della figura 1 (Competenze sociali, esperienze infantili e relazione terapeutica). I ricordi relativi ad ambienti familiari disfunzionali sono stati valutati con l’Indagine della Struttura Familiare (Family Structure Survey, FSS, Lopez et al., 1988). Abbiamo visto che sia l’inversione di ruoli, sia la paura della separazione erano collegati in modo significativo con l’alessitemia. L’alessitemia, in particolare la difficoltà ad identificare i sentimenti, era collegata negativamente con il fattore Sicurezza del CATS e associata positivamente con i fattori Evitante e Preoccupato (Mallinckrodt et al., 1998). Il fatto più affascinante era il segno della presenza di diverse firme delle disfunzioni familiari in ciascuno dei tre parametri del CATS. La paura della separazione (cioè il sentirsi irretiti) ha l’associazione più ampia: negativa, rispetto all’attaccamento sicuro con il terapeuta; positiva con gli stili di attaccamento Evitante/Impaurito e Preoccupato/Fusionale. I conflitti coniugali erano collegati solo con i due tipi di attaccamento insicuro; mentre l’inversione di ruoli genitore-figlio aveva collegamenti solo con un attaccamento al terapeuta di tipo Evitante/Impaurito.

La teoria dell’attaccamento come struttura unificante
Per quanto mi riguarda, l’aspetto più coinvolgente dell’applicazione della teoria dell’attaccamento alla ricerca appena descritta risiede nella capacità di tale teoria di offrire un’unica struttura concettuale per riunire linee di ricerca indipendenti. La teoria dell’attaccamento, indicando punti di convergenza, offre sia un linguaggio concettuale unificante, sua una prospettiva nuova per comprendere importanti risultati raggiunti in precedenza.
Un punto di convergenza, per esempio, è quello che collega i pattern di attaccamento del cliente al terapeuta con il modello di iperattivazione/deattivazione di regolazione dell’attaccamento (Dozier, Kobak, 1992; Kobak et al., 1993). È possibile che le tre sottoscale che emergono dall’analisi fattoriale esplorativa che ha portato allo sviluppo del CATS corrispondano a ciascuna delle tre strategie di regolazione dell’attaccamento identificate da Kobak et al. (1993). Il fattore Sicurezza del CATS potrebbe essere espressione della strategia di regolazione della prossimità sicura. Elementi del fattore CATS Evitante/Impaurito indicano aspetti di una strategia di attaccamento deattivante («Non mi piace condividere le mie emozioni con il terapeuta», «Il mio terapeuta vuole sapere su di me più’ di quanto io mi senta a mio agio a dire»), inclusi aspetti che suggeriscono una rabbia disfunzionale verso la figura di attaccamento («Mi sento umiliato nel corso delle sedute di counseling»). Elementi che costituiscono il fattore CATS Preoccupato/Fusionale potrebbero essere sintomo di una strategia iperattivante del cliente («Vorrei che il mio terapeuta si sentisse più vicino a me», «Vorrei che il mio terapeuta fosse con me tutti i giorni»).
Un secondo punto di convergenza nasce dalla ricerca sul CCRT (Tema centrale delle relazioni conflittuali) sulle narrazioni dei clienti (Luborsky , Crits-Christoph, 1998). Il CCRT implica tre elementi: (a) i desideri o le necessità del cliente nei confronti del partner della relazione, (b) il modo in cui il partner risponde a tali desideri e (c) il modo in cui il cliente reagisce alla risposta del partner. In questo modo le narrazioni CCRT rappresentano una strada maestra per determinare i pattern di adattamento del cliente perché il metodo affronta tutti quattro gli aspetti dell’alleanza di lavoro: il racconto autobiografico, le aspettative verso sé e verso gli altri, le strategie per raggiungere gli obiettivi della relazione e le strategie per regolare l’angoscia quando gli obiettivi non vengano raggiunti. Un’inchiesta condotta su trentatré clienti ha indicato l’esistenza nelle narrazioni CCRT dei clienti di due desideri molto più frequenti di tutti gli altri. Si tratta del desiderio di essere vicino all’altro, quello predominante nel 39% dei clienti, e del desiderio di affermarsi ed essere indipendente, desiderio predominante per un ulteriore 30% del campione (Luborsky et al., 1998). Non è del tutto sorprendente che il tema più comune delle risposte degli altri ai desideri fossero negative nel senso che non soddisfacevano il desiderio originario. È interessante che le intere sequenze più frequenti fossero: (a) il desiderio “di essere vicini o di essere amati”, (b) la reazione “rifiutante o mal disposta” dell’altro e (c) la controrisposta “impotente” o “delusa e depressa” o “con un senso di vergogna e ansia”. Una seconda sequenza molto frequente nel CCRT era la seguente: il desiderio di “affermarsi ed essere indipendente” seguito da una risposta dell’altro di natura “rifiutante”, “turbata” o “controllante”. È possibile che il frequente desiderio CCRT di “essere indipendenti” sia parte di una strategia di coping deattivante dell’attaccamento, mentre l’altrettanto frequente desiderio CCRT di “sentirsi vicini” rifletta una strategia di coping iperattivante”.
Un terzo punto di convergenza è indicato dalle recenti prove empiriche che indicano che l’attaccamento adulto non dovrebbe essere concettualizzato in termini di categorie quantitativamente differenti, ma piuttosto in termini di due dimensioni ortogonali dell’attaccamento insicuro nelle forme di evitamento e ansia (Brennan et al., 1998). La dimensione dell’ansia sembra includere il costrutto del modello operativo del sé mentre la dimensione dell’evitamento racchiude il costrutto di modello operativo degli altri. Una ricerca metodologicamente piuttosto sofisticata non ha dimostrato l’esistenza di “tassi” di attaccamento quantitativamente diversi (Fraley, Waller, 1998), mentre ha dato ulteriore credito all’esistenza delle due dimensioni continue soggiacenti.
Recenti studi hanno proposto che l’attaccamento adulto sia associato con le specifiche configurazioni dei problemi interpersonali che il cliente presenta in terapia (Horowitz, 1994). Lo stile di attaccamento sprezzante (cioè la dimensione evitamento dell’attaccamento) è stato associato a problemi relativi al quadrante ostile dominante del circomplesso interpersonale mentre quello preoccupato (dimensione dell’ansia da attaccamento) è stato associato a problemi relativi al quadrante della sottomissione e affiliazione (Horowitz et al., 1993)
In un’analisi preliminare di dati relativi a oltre trecentocinquanta studenti (Mallinckrodt, 2000) abbiamo rilevato che l’evitamento dell’attaccamento (e presumibilmente la deattivazione), misurato sotto forma di continuum, era correlato principalmente con problemi interpersonali relativi al quadrante ostile/dominante e con temi delle relazioni conflittuali con scarsi desideri di supporto ed alto desiderio di conflitto; con scarsissime risposte amorevoli dagli altri e scarsi sentimenti di attenzione, di cura e di autovalutazione da parte del sé. L’ansia da attaccamento (e presumibile iperattivazione) era correlata prevalentemente con problemi interpersonali del quadrante dominante/affiliativo e con temi delle relazioni conflittuali relativi al desiderio di non essere abbandonati, con reazioni dolorose e di controllo da parte dell’altro e risposte del sé di forte ansia e dipendenza.
L’ultimo punto di convergenza viene dal Secondo Progetto Sheffeld di Psicoterapia (Hardy et al., 1998). Sulla base dei problemi interpersonali da loro riportati, i clienti venivano classificati come caratterizzati da uno stile interpersonale molto coinvolto, poco coinvolto o equilibrato. I terapeuti tendevano ad attuare interventi più orientati verso l’affetto e la relazione con i clienti molto coinvolti e interventi di stampo cognitivo con quelli poco coinvolti. Queste tendenze venivano moderate dalle interazioni con il trattamento a cui i clienti venivano assegnati: psicodinamico-interpersonale o cognitivo-comportamentale. È interessante rilevare che i gruppi basati su uno stile interpersonale non si differenziavano dagli altri rispetto all’alleanza di lavoro e al risultato del trattamento, ad indicare che le diverse applicazioni delle tecniche da parte dei terapeuti producevano risultati equivalenti perché erano ben appaiate secondo i bisogni diversi dei pazienti.
Nel suo insieme, questa ricerca ha importanti implicazioni riguardo alla concettualizzazione dei casi. Ansia ed evitamento, le due dimensioni fondamentali dell’attaccamento adulto, sembrano riflettere, a livelli elevati, rispettivamente le strategie di coping, di iperattivazione e deattivazione del sistema di attaccamento. La deattivazione del sistema di attaccamento del cliente si instaura nella prima infanzia come risposta adattativa alla percezione che i caregivers non siano disponibili, mentre l’iperattivazione si sviluppa come forma adattativa ad adulti presenti in modo discontinuo. Dal momento che i modelli operativi implicano delle aspettative nei confronti delle presunte risposte dei caregivers – aspettative che si mantengono escludendo difesivamente le informazioni che le contraddicano – è chiaro che i pattern più frequenti tra i desideri CCRT dei clienti, le risposte degli altri e le risposte del sé, corrispondono a strategie per controllare la sofferenza o di iperattivazione o di deattivazione. Tali strategie sembrano anche essere alla base delle configurazioni relative ai problemi del circomplesso interpersonale che i clienti presentano in terapia. Nell’infanzia, le strategie di iperattivazione o deattivazione servono per regolare la prossimità fisica, negli adulti tali strategie servono a regolare l’affetto e la prossimità emotiva all’interno delle relazioni, includendo forse anche quella prossimità emotiva tra il cliente e il terapeuta che è misurata dal CATS (Mallinckrodt et al., 1995).
La convergenza di queste linee di ricerca verso i temi dell’iperattivazione o deattivazione dell’attaccamento maladattativo ha anche importanti implicazioni per la terapia. Per esempio, nella supervisione clinica io utilizzo questi concetti come struttura per aiutare gli studenti ad individuare (a) in che modo i pattern maladattativi del cliente si manifestino nella relazione terapeutica, (b) le risposte potenziali che il cliente trae dal terapeuta, (c) le esperienze che il cliente sta cercando di evitare e (d) quale tipo di esperienza di attaccamento potrebbe essere correttiva per il cliente. Spesso i clienti esprimono bisogni che per il terapeuta sarebbe controproducente soddisfare. Ci sono anche specifiche tecniche terapeutiche che sarebbe produttivo applicare ma che il cliente teme o a cui oppone resistenza. Quindi, semplificando molto, le due situazioni cliniche base “il cliente desidera X” e “il cliente teme X” si combinano con le due decisioni terapeutiche di base: “il terapeuta offre/cerca X” e “il terapeuta nega/evita X”. Le quattro combinazioni che ne risultano sono descritte nello schema della tabella 1 chiamato Gratificazione, sollievo, ansia o frustrazione terapeutica (T-GRAF, Therapeutic Gratification, Relief, Anxiety or Frustration).
Per rendere lo schema più facile da ricordare per i miei studenti ho dato alle caselle della tabella 1 delle etichette scherzose che rappresentano ciò che un cliente potrebbe dire in ciascuna delle situazioni, se non altro con la sua voce interna. La casella “Ahhhh!” è quella della gratificazione da parte del terapeuta dei bisogni del cliente e la casella “Puff!” rappresenta il sollievo che il cliente prova quando il terapeuta decide di trattenersi da un intervento che causerebbe ansia. Nell’ambito di queste due caselle diagonali è possibile un considerevole progresso terapeutico perché, chiaramente, il cliente ha bisogni e paure legittime che il terapeuta fa bene a gratificare o lenire. Tuttavia, questa diagonale del modello T-GRAF tende a non focalizzarsi molto sul processo terapeutico perché il muovere da queste due caselle non immette particolare tensione nella relazione terapeutica. È più problematica la casella “Oh, no!” che indica l’insistenza del terapeuta perché il cliente si impegni in un intervento che provoca ansia, così come la casella “Ueee! Dammi!” che rappresenta il rifiuto del terapeuta di soddisfare il bisogno del cliente. Quindi, in alcuni casi, un’esperienza correttiva implica che si stabilisca di non offrire ciò che il cliente desidera (quindi una frustrazione terapeutica) oppure di offrire precisamente ciò che il cliente teme (cioè ansia terapeutica). Hardy et al. (1998) giunsero a simili conclusioni nello spiegare i risultati positivi del Secondo Progetto Sheffeld di Psicoterapia: nonostante le differenze fra gli stili interpersonali dei clienti, “l’adeguatezza della risposta non implica che il terapeuta faccia qualsiasi cosa il cliente desideri” (p. 304). In fine, va considerato che la diagonale di minore tensione “Ahhh” e “Puff!” tende a dare luogo a sedute armoniose che possono essere utili nella prima fase della terapia di costruzione della relazione, ma il lavorare sulla diagonale ad alta tensione “Oh, no!” e “Dammi!” è necessario per dare luogo a sedute profonde e intense nella fase centrale che spingono il cliente verso il cambiamento.


Tabella 1. Modello della Gratificazione, Sollievo, Ansia e frustrazione terapeutiche (T-GRAF Therapeutic gratification, Relief, Anxiety or Frustration


Recenti scoperte danno prove, ancora esitanti, sulle specifiche esperienze emozionali correttive che possono essere efficaci per clienti con strategie di attaccamento iperattivanti o deattivanti (Dozier et al., 1994; Hardy et al., 1998; Mallinckrodt et al., 1998; Tyrrell et al., 1999). Le chiamo strategie controcomplementari della prossimità di attaccamento (CCAPS, Counter-complimentary attachment proximity strategies) perché richiedono che il terapeuta gestisca, nella relazione psicoterapeutica, la prossimità nell’attaccamento reagendo al “contro-tipo” del cliente, vale a dire, in modo da rompere le aspettative del cliente e i vecchi pattern maladattativi. I clienti con una strategia deattivante ricercano un attaccamento evitante verso il terapeuta, cercano di aumentare la distanza interpersonale e hanno la tendenza a suscitare comportamenti da parte degli altri volti a slegarsi ed allontanarsi. Quindi una risposta terapeutica controcomplementare (CCAPS) che fornisca un’esperienza emotiva correttiva potrebbe essere quella di aumentare la prossimità di attaccamento con una garbata e paziente insistenza sull’approfondimento del legame emotivo, monitorando allo stesso tempo il livello di tolleranza all’ansia del cliente ed incoraggiandolo a non disattivare i pensieri e le emozioni relativi all’attaccamento. Tale esperienza correttiva richiede frequenti ricorsi alla casella dell’ansia terapeutica (Oh, no!) del modello T-GRAF. Al contrario, i clienti con una strategia iperattivante manifestano aspetti di attaccamento preoccupato al terapeuta, cercando di ridurre la distanza interpersonale e, comunicando il loro senso di impotenza e dipendenza, tendono a suscitare fortemente comportamenti da salvatore da parte degli altri. Per questo, la risposta CCAPS correttiva in questo caso sarebbe quella di mantenere o aumentare la distanza dell’attaccamento, offrendo solo una determinata quantità di supporto ed incoraggiamento, nuovamente, monitorando con assiduità la tolleranza del cliente per l’ansia che ne risulta ed insistendo garbatamente perché il cliente assuma un ruolo centrale nell’affrontare le situazioni problematiche, opponendo resistenza alle richieste del cliente che il terapeuta assuma un ruolo da salvatore o un eccessivo coinvolgimento. Questa esperienza correttiva implica il ricorso alla casella del modello T-GRAF relativa alla frustrazione terapeutica (Dammi!).
Due aspetti centrali in questo approccio pongono richieste straordinarie al terapeuta: (a) offrire un livello di prossimità di attaccamento controcomplementare e nel contempo sconfermare le aspettative di un modello operativo maladattativo del cliente, a fronte delle richieste, probabilmente involontarie e spesso ingenue, del cliente di ricreare un livello di prossimità di attaccamento maladattativo e (b) il monitorare la tolleranza del cliente nei confronti dell’ansia per regolare la frustrazione o l’ansia terapeutica di conseguenza. Con gli studenti ho fatto ricorso all’analogia delle barre di controllo di un reattore nucleare per simbolizzare questo processo di controllo dell’ansia. Se le barre sono inserite troppo a fondo, la fonte di energia (l’ansia del cliente) è troppo controllata, le reazioni cessano e il nucleo del reattore si raffredda. Se le barre sono troppo esterne, la fonte di energia resta incontrollata e ha luogo la fusione. Può essere utile agli studenti considerare l’ansia del cliente non come qualcosa da evitare ma da gestire in modo collaborativo con il cliente e come segno che importanti reazioni hanno luogo.
In uno studio con importanti implicazioni relative al training ed alla supervisione, Dozier et al. (1994) hanno trovato che l’abilità dei case managers di fornire quella che io ho descritto come risposta controcomplementare (cioè lo smuovere un cliente deattivante o il mantenere la distanza adeguata da un cliente iperattivante) si associava allo stile di attaccamento del case manager. Tali clinici mostravano una gamma meno ampia di stili di attaccamento rispetto ai clienti, ma nell’ambito di tale gamma quelli che avevano loro stessi gli stili di attaccamento più solido avevano la tendenza a fornire (presumibilmente) risposte controcomplementari più utili. Quelli invece con stili di attaccamento meno sicuri tendevano a gratificare la richiesta di un legame più stretto da parte dei clienti iperattivanti o a colludere con le richieste dei clienti deattivanti relative ad un intervento superficiale. In una ricerca attinente a questa, Tyrell et al. (1999) studiarono clienti con disturbi psichiatrici gravi e scoprirono che tali clienti funzionavano meglio ed avevano le alleanze di lavoro più proficue, dopo lunghi periodi di contatto con case managers i cui livelli di attivazione erano contrari ai loro, vale a dire che i clienti maggiormente deattivanti avevano migliori risultati con terapeuti meno deattivanti, e viceversa.
Queste scoperte sono di rilievo per quanto riguarda gli elementi finali del modello SCIP che pone enfasi sul fatto che i terapeuti contribuiscono alla relazione psicoterapeutica con le loro competenze sociali, oltre alle loro capacità tecniche (H > G); che i terapeuti stessi possono acquisire competenze sociali (G > H) attraverso l’interazione con i loro clienti, specialmente quando la relazione psicoterapeutica richiede competenze che non sono immediate per alcuni terapeuti (per esempio gestire l’ostilità e la frustrazione del cliente); che la relazione di supervisione sia un mezzo per costruire sia capacità tecniche, sia competenze sociali (I > H); che le stesse esperienze infantili del terapeuta influenzino la relazione di supervisione (J > I) e che il terapeuta contribuisca alla relazione terapeutica (J > H). Per quanto riguarda i terapeuti, allargo il campo delle competenze sociali fino a comprendere disposizioni e qualità di relazione quali l’empatia, la genuinità, e l’autoconsapevolezza che altre ricerche hanno dimostrato essere promotrici del cambiamento terapeutico.
Recenti ricerche forniscono un sostegno ancora sperimentale per alcune di queste connessioni. Per esempio, il livello di esperienza dei terapeuti in formazione non aveva una correlazione significativa con la qualità dell’alleanza di lavoro nei casi in cui il cliente fosse relativamente a suo agio con un attaccamento stretto, mentre solo quelli di loro con maggiore esperienza erano in grado di formare alleanze di lavoro positive con i clienti a disagio con la vicinanza (Kivlighan et al., 1998). Le valutazioni positive dell’alleanza di lavoro da parte dei clienti erano correlate negativamente con l’ostilità introiettata (cioè rivolta verso di sé) del terapeuta e positivamente correlate con il livello di supporto sociale autodefinito del terapeuta così come l’essere a proprio agio con la vicinanza e la disponibilità a dipendere dagli altri (Dunkle, Friedlander, 1996). Ricerche qualitative indicano anche che le questioni di attaccamento irrisolte dei terapeuti sono proprio fonte di reazioni di controtransfert (Hayes et al., 1998). Risultati preliminari indicano che l’esperienza infantile della reattività emotiva dei genitori è associata con la tendenza a disassociarsi da determinati clienti (Hilliard et al., 1995). Si è detto che lo stile di attaccamento dei supervisionati influenza la relazione di supervisione (Pistole, Watkins, 1995), ma per quanto io sia a conoscenza non vi sono prove empiriche di tale questione. Quindi, poche ricerche sono state svolte per verificare gli elementi del modello SCIP relativi a differenze individuali tra terapeuti. Queste differenze sono alcune tra le aree che potrebbero rappresentare fruttuose vie di ricerca per il futuro.

Future direzioni di ricerca su attaccamento e modello SCIP
A livello di ricerca di base, al momento stiamo analizzando dati che fanno riferimento ad un’indagine condotta tra varie centinaia di studenti per esaminare una più ampia varietà di collegamenti del modello SCIP in un solo studio (Mallinckrodt, Wei, 2000). Stiamo analizzando i collegamenti tra legami parentali, ansia ed evitamento nell’attaccamento adulto, competenze sociali, problemi del circomplesso interpersonale e temi centrali delle relazioni. Questo studio include una misura supplementare dei legami parentali chiamata Scala della privazione dell’amore (Love Withdrawal Scale) elaborata per valutare i ricordi di reattività parentale condizionata, simile al concetto di Rogers di condizione di valore. La struttura familiare e la teoria interpersonale (Tyeber, 1997) ci spingono a prevedere che la privazione di amore possa avere un’influenza particolarmente dannosa sulle competenze sociali. In un secondo progetto in corso con un taglio più applicativo (Chen, Mallinckrodt, 2000) stiamo analizzando il modo in cui i membri di gruppi di terapia con diversi stili di adattamento si percepiscono reciprocamente in termini di comportamento del circomplesso interpersonale.
Un’ulteriore questione di ricerca applicata parte dalla distinzione che il modello SCIP fa tra capacità e predisposizioni sociali. L’importanza di questa distinzione può essere illustrata per mezzo di un’analogia che deriva dal campo della programmazione informatica. I programmatori devono spesso confrontarsi con dei difetti di funzionamento del software, nascosti da qualche parte in mezzo a milioni di righe di codice. Le condizioni in cui si verifica il malfunzionamento e gli effetti specifici del difetto sono molto più facili da determinare che il posizionamento del difetto stesso all’interno del codice. Spendendoci una quantità considerevole di tempo e di energia, un programmatore potrebbe riuscire a localizzare la fonte del problema, ma una soluzione più opportuna è quella di limitarsi a innestare nel software una nuova porzione di codice, una “scorciatoia” per contrastare l’effetto del problema senza correggere la causa del malfunzionamento. Dopo questo tipo di riparazione, sia il difetto, sia la soluzione/scorciatoia coesistono all’interno del programma. La soluzione potrà non essere elegante ma è pratica ed adeguata.
L’analogia tra computer ed esseri umani non andrebbe troppo estesa, ma il concetto di scorciatoia è pertinente in psicoterapia, in un’epoca di gestione manageriale della sanità e razionamento dei servizi. Spesso, e semplicemente, i terapeuti non hanno a disposizione le risorse per affrontare la causa dei problemi interpersonali (cioè le disposizioni sociali nell’ottica del modello SCIP). Una questione pratica che ha bisogno di essere studiata è in che condizioni e fino a che livello sia possibile in una terapia breve utilizzare una scorciatoia confrontando i deficit di capacità sociali invece che cercare di raggiungere importanti cambiamenti nelle disposizioni sottostanti? Per esempio, è possibile offrire un significativo aiuto ai clienti con strategie di attaccamento iperattivanti insegnando loro delle capacità pratiche di regolazione degli affetti e gestione dell’ansia, senza cercare un significativo cambiamento nel loro modello operativo negativo relativo al sé e alle strutture delle relazioni? E, al contrario, è possibile che affrontare nella terapia breve i deficit di capacità abbia un effetto secondario positivo sullo stile di attaccamento?
A un livello di base della ricerca si sa poco rispetto al grado in cui i pattern di attaccamento maladattativi cambino nel corso della terapia e quali possano essere gli ingredienti attivi del cambiamento. Cambiano prima le capacità e poi le disposizioni oppure il contrario? È necessaria ulteriore ricerca per studiare i processi di cambiamento coinvolti nel CCAPS (cioè maggiore coinvolgimento per i clienti deattivanti e il mantenimento del distacco adeguato con i clienti iperattivanti). In che modo queste esperienze emotive potenzialmente correttive nell’attaccamento del cliente al terapeuta alterano i modelli operativi relativi al sé e agli altri? Per esempio, un coinvolgimento controcomplementare del terapeuta può spingere il modello operativo negativo deattivante da parte del cliente verso una struttura più positiva? L’insistenza supportiva controcomplementare sull’indipendenza, da parte del terapeuta, può spostare il modello negativo del sé di un cliente iperattivante verso una valutazione più positiva? In che modo gli elementi di gratificazione, sollievo, ansia e frustrazione terapeutica (T-GRAF) sono correlati con la profondità, piacevolezza, positività e intensità di una seduta?
Solo ora i ricercatori stanno cominciando a considerare la reazione di controtransfert del terapeuta verso lo stile di attaccamento del cliente (Gelso, Hayes, 1998). I teorici hanno sostenuto che dal momento che i clienti con stili di attaccamento sprezzante, cioè deattivanti, chiudono fuori il terapeuta dalle loro esperienze personali o dal costruire relazioni di mutua collaborazione, il terapeuta stesso è abbandonato alla sensazione di essere senza speranza rispetto alla prospettiva del cambiamento o del raggiungere intimità con il cliente – in essenza la sensazione che il cliente stesso ha provato nell’infanzia di essere «arrabbiato, non riconosciuto, sciocco e inetto» (Slade, 1999, p. 588) –. I clienti con stili di attaccamento preoccupati (cioè iperattivanti) possono invece porsi di fronte al terapeuta con la loro dipendenza ed uno schiacciante senso di crisi divorante, lasciando al terapeuta la sensazione che il cliente provò da bambino di sentirsi «travolto, arrabbiato, impotente, confuso e senza regole» (Slade, p. 588). Per ora, non ci sono dati empirici a sostegno di questa interessante ipotesi.
Sable (1997) ha sottolineato il beneficio di aiutare i clienti con pattern di attaccamento insicuro ad accettare che i loro modelli operativi e le reazioni affettive che hanno sviluppato erano comprensibili risposte adattative, dato il comportamento dei loro care givers. Una terapia efficace implica l’aiutare il cliente a riconoscere che tali pattern erano adattamenti efficaci, benché ingenui, da bambini ma che tali modelli operativi sono stati esageratamente generalizzati da adulti. Uno spostamento verso modelli operativi più adattativi e flessibili deve essere accompagnato dall’aiutare il cliente ad elaborare l’esperienza emotiva legata al primo adattamento da cui in precedenza ci si era difesi e che si era esclusa dalla piena coscienza (Slade, 1999). Schemi operativi inflessibili non conducono solamente all’esclusione difensiva delle passate esperienze traumatiche, ma possono anche condurre all’incapacità di avere fiducia e di integrare le attuali condizioni di relazione positiva offerte dal terapeuta se queste non combaciano col modello del cliente relativo agli altri. Studi futuri potrebbero dimostrare che le qualità di base del terapeuta, quali la trasparenza e la genuinità, sono efficaci perché favoriscono un feedback interpersonale che consente al cliente di correggere gradualmente l’accuratezza delle interpretazioni automatiche (ed erronee) – mediate dall’attaccamento – degli eventi relazionali in terapia. La tecnica dell’interpretazione psicodinamica del transfert può essere considerata e studiata nei termini della teoria dell’attaccamento con il progredire della comprensione da parte del cliente dei suoi modelli operativi e dei pattern affettivi innescati dallo schema.
Di conseguenza, se nel corso della terapia i clienti integrano gradualmente componenti affettive relative a forme di attaccamento passate che non erano ancora state elaborate e cambiano i loro attuali schemi di relazione, necessariamente i cambiamenti includeranno un fondamentale riallineamento delle strutture cognitive e dei modi di regolazione dell’affetto (Safran, Segal, 1990). Quindi il processo di cambiamento implica una graduale assimilazione, nell’ambito del riaggiustamento del modello operativo del cliente, di schemi che inizialmente venivano percepiti come non adeguati a me o non adeguati alla maggior parte degli altri. Un modello di assimilazione potrebbe fornire la struttura per avviare questo processo di cambiamento (Stiles, 1999; Stiles et al., 1990). Indubbiamente la teoria dell’attaccamento offre una spiegazione a una importante fonte di esperienze problematiche non assimilate. Coerentemente con la struttura che ho delineato in questo articolo, io credo che alcune delle esperienze che sono maggiormente fonte di cambiamento, che il paziente deve assimilare, dipendano da esperienze correttive relative alla relazione terapeutica. Si introduce una dissonanza nel modello deattivante negativo, relativo agli altri, quando il cliente percepisce il terapeuta (o un altro partecipante al gruppo di terapia) come degno di fiducia, coerente, disposto pazientemente a coinvolgersi e quando una riduzione nella prossimità porta un liberatorio sollievo dall’isolamento, invece degli esiti temuti. Allo stesso modo, si vive una dissonanza nel modello del sé iperattivante quando il terapeuta risponde in modo supportivo ma includendo la possibilità che il cliente abbia una considerevole capacità di affrontare i problemi senza il suo aiuto e quando, al posto della temuta esperienza di abbandono, questa distanza adeguata porta una rinvigorente sensazione di autoefficacia.
Sono convinto che siamo entrati in un interessante periodo per la ricerca in psicoterapia nel corso del quale l’insight che ci viene dalla teoria dell’attaccamento potrà condurre sia a una migliore comprensione delle forze che danno origine ai problemi interpersonali, sia a come aiutare i clienti che vivono tali problemi per mezzo degli attaccamenti correttivi che si formano durante il processo psicoterapeutico. Spero che il resoconto di come sono arrivato a questa convinzione possa essere utile ad altri coinvolti in questo genere di ricerca, compresi quanti potranno ancora ricevere in futuro l’SPR Early Career Award.


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* Attachment, social competencies, social support, and interpersonal process in psychotherapy, tradotto e ristampato in «Journal of the Society for Psychotherapy Research», X, 3, 2000, pp. 239-66, con il permesso dell’autore e della Oxford University Press.
** Brent Mallinckrodt, Department of Educational and Counseling Psychology, Università del Missouri. Ha ricevuto, nel 1996, l’Early Career Award Paper dalla S.P.R. (Society for Psychotherapy Research).
«Sono molto lieto e onorato di ricevere il Society for Psychotherapy Research Early Career Award. La ricerca a cui si rivolge questo riconoscimento è frutto di uno sforzo cooperativo con studenti, colleghi e mentori. Con loro divido questo riconoscimento e a loro porgo la mia più profonda gratitudine. Ringrazio Charles Gelso, Jeff Hayes, P.Paul Heppner e Lester Luborsky per i loro utili commenti alle prime stesure di questo manoscritto. Infine, vorrei ringraziare la mia famiglia, Susan, David e Hilary la cui allegra tolleranza per i miei lunghi orari di lavoro ha reso possibile questa ricerca.»



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