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C.P.A.T. --> HOME PAGE --> N. 32-33/2001

QUADERNI DI PSICOLOGIA,
ANALISI TRANSAZIONALE
E SCIENZE UMANE

Dal n° 32-33 - 2001


Protagonisti, luoghi e modi del Counseling

Laura Pentimalli Vergerio * e Ugo De Ambrogio **



Riassunto

Si comunicano i risultati di un’indagine promossa dal Centro di Psicologia e Analisi Transazionale di Milano con lo scopo di evidenziare alcuni indicatori della specificità del counseling nelle esperienze dirette di alcuni counselor con una formazione, tra le altre, analitico transazionale.


Abstract

Protagonists, places and manners of counseling
The results of a survey promoted by the Center Psychology and Transactional Analysis of Milan are reported below in order to highlight some indicators of counseling in specific, through the direct experience of a number of counselors who have also trained in Transactional Analysis in addition to other training.


Introduzione

Nel corso degli ultimi quindici anni sono state date alcune definizioni di counseling e di counselor sufficientemente chiare nel definire la finalità generale di questa professione e alquanto riduttive o generiche, invece, nell’indicare i fattori che ne denotano la specificità e i confini.
Il counseling è un insieme di tecniche, abilità e atteggiamenti per aiutare le persone a gestire i loro problemi utilizzando le loro risorse personali. (Reddy, 1994)
Il counseling in Analisi Transazionale è una forma metodologica tesa a ottenere un cambiamento attraverso una tecnica appropriata basata sul qui-e-ora; l’intento è favorire il recupero autonomo di soluzioni più produttive rispetto a quelle precedentemente adottate. In un setting di consulenza sono risolte problematiche prevalentemente di tipo cognitivo. (Vinella, 1990)
... il suo ethos dominante è quello di agevolare, piuttosto che offrire consigli. (Feltham e Dryden, 1993)
La finalità del counseling, nei suoi molti aspetti (prevenzione del disagio, promozione della salute, reinserimento sociale...), è di promuovere lo sviluppo e la crescita delle persone, in una relazione e in un’azione che tenga conto della dimensione psicologica ed esistenziale, nel corso di un tempo definito. (Grégoire, 1994)
Il counseling analitico transazionale è un’attività professionale all’interno di una relazione contrattuale. Il processo di counseling permette ai clienti o sistemi di clienti di sviluppare consapevolezze, opzioni e capacità di gestione dei problemi, facilita lo sviluppo personale nella vita quotidiana, attraverso il potenziamento dei loro punti di forza e delle loro risorse. Scopo ultimo è incrementare l’autonomia in relazione al proprio ambiente sociale, professionale e culturale. Il campo del counseling è scelto da professionisti che lavorano in ambiti psicosociali e culturali, per esempio, assistenza sociale, sanità, lavoro pastorale, prevenzione, mediazione, facilitazione di processo, lavoro multiculturale e attività umanitarie. (E.A.T.A., 1995)


Counseling

E' un processo di apprendimento interattivo, che si stabilisce tra counselor e clienti, siano essi individui, famiglie, gruppi o istituzioni, che affronta con metodo olistico problematiche sociali, culturali, economiche e/o culturali.
Il counseling può occuparsi di come indirizzare e risolvere specifiche questioni, prendere decisioni, affrontare le crisi, migliorare le relazioni, affrontare problematiche evolutive, promuovere e sviluppare una maggiore consapevolezza personale, lavorare con sentimenti, pensieri, percezioni e conflitti interni ed esterni. L’obiettivo principale rimane quello di fornire ai clienti un’opportunità di procedere in modo più autonomo, verso una vita più soddisfacente e piena di risorse, come individui e membri di una società più ampia. [Definizione di Counseling adottata dalla European Association for Counseling (EAC) nel 1995]


Counselor

Colui che offre un servizio di counseling a dei clienti, in linea con la definizione di counseling data dall’EAC, e che possiede il livello di abilità e di training specificato dagli standard posti dall’EAC.
Cliente. Una persona, coppia, famiglia, organizzazione, in situazione di bisogno o di domanda che necessita di essere indirizzata tramite una guida, un orientamento, delle operazioni di supporto, di incremento dell’insight, di training o di sostegno nello sviluppo personale.
Relazione professionale. Una relazione tra un counselor e un cliente con un comune intento di trattamento, ricerca, orientamento, guida, supporto, training o sviluppo personale... (Di Fabio A.M., Counseling, Giunti, 1999, pp. 319-20)
Il counselor è la figura professionale che, avendo seguito un corso di studi almeno triennale, e in possesso pertanto di un diploma rilasciato da specifiche scuole di formazione di differenti orientamenti teorici, è in grado di favorire la soluzione di disagi esistenziali di origine psichica che non comportino tuttavia una ristrutturazione profonda della personalità. L’intervento di Counseling può essere definito come la possibilità di offrire un orientamento o un sostegno a singoli individui o gruppi, favorendo lo sviluppo e l’utilizzazione delle potenzialità del cliente. All’interno di Comunità: ospedali, scuole, università, aziende, comunità religiose, l’intervento di Counseling è mirato da un lato a risolvere nel singolo individuo il conflitto esistenziale o il disagio emotivo che ne compromettono una espressione piena e creativa, dall’altro può inserirsi come elemento facilitante il dialogo tra la struttura e il dipendente. [S.I.Co. (Società Italiana di Counseling), 2000]

L’insieme di queste definizioni ci dice, essenzialmente, che la finalità specifica del counseling è quella di agevolare la prevenzione del disagio, la promozione del benessere e il reinserimento sociale e che gli obiettivi coerenti con tale finalità sono perseguiti all’interno di una relazione contrattuale, in un tempo definito.
Le diverse definizioni appaiono meno omogenee e meno esplicative per quanto riguarda la metodologia e le tecniche. Si va da enunciazioni piuttosto ampie e generiche come quella di Reddy: «un insieme di tecniche, abilità e atteggiamenti per aiutare le persone a gestire i loro problemi utilizzando le loro risorse personali» ad affermazioni più specifiche, come quella della E.A.C. «un processo di apprendimento interattivo [...] che affronta con metodo olistico problematiche sociali, culturali, economiche e/o culturali», o della S.I.Co. «lavorare con sentimenti, pensieri, percezioni e conflitti interni ed esterni», che comunque lasciano aperto il problema della specificità del counseling rispetto alla psicoterapia. D’altra parte, l’accento posto sull’uso di «tecniche basate sul qui-e-ora [...] per agevolare la soluzione di problematiche prevalentemente di tipo cognitivo» forse non aiuta a capire in che cosa il counseling differisca dalla formazione.

Gli articoli pubblicati su questo stesso numero dei «Quaderni» aiutano a riconoscere altri indicatori del counseling.
Ci riferiamo in modo particolare all’articolo di William F. Cornell e Jenni Hine, dal quale estraiamo alcuni passi esplicativi di un aspetto del counseling: il lavoro con i processi emotivi, svolto con tecniche differenti da quelle adottate in campo clinico.
... un aspetto essenziale dei contratti di counseling basati sull’Analisi Transazionale è che essi formino un’alleanza di lavoro con gli aspetti progressivi del funzionamento emotivo. Siamo pertanto convinti che, anche se la forma dei loro interventi sarà diversa, clinici e counselor debbano avere un’approfondita conoscenza teorica del ruolo delle emozioni nello sviluppo, nella salute e nella capacità di rapporto degli esseri umani...
Gli psicoterapeuti con una formazione clinica possono avere l’immagine del funzionamento umano orientata prevalentemente all’individuazione della psicopatologia, mentre i counselor con una formazione centrata sulla crescita personale e sui problemi sociali possono avere un’immagine “troppo razionale” del funzionamento umano, tendendo a ignorare o a razionalizzare il substrato emotivo [...]
... Allo scopo di informare la teoria psicoanalitica contemporanea delle implicazioni delle attuali ricerche nel campo delle neuroscienze, Pally recentemente osservava: La neuroscienza ci dimostra che l’emozione e l’espressione dell’emozione sono presenti in tutte le attività umane più importanti, incluse quelle che non siamo soliti considerare emotive, come per esempio il processo decisionale razionale [...] L’emozione facilita un comportamento adattativo, contribuisce a risolvere problemi in modo adattativo e organizza i rapporti sociali importanti [...]

Nel processo di counseling, lavorare esclusivamente con le funzioni sociali e cognitive comporta il rischio di rafforzare nei clienti una limitazione dell’esperienza e dell’espressione di sé separate dalla ricchezza e dalla vitalità di una base emotiva. Se il lavoro si limita a un intervento a livello cognitivo/comportamentale si riesce a ottenere una certa comprensione e un certo controllo dei sintomi, ma l’Analisi Transazionale auspica l’integrazione del pensiero, dei sentimenti e del comportamento per poter sviluppare un funzionamento intimo e autonomo. I counselor lavorano prevalentemente con il pensiero e il comportamento del cliente, ma questo non significa che le emozioni debbano essere escluse dal processo di counseling. Il punto è come lavorare con le emozioni nel counseling per aiutare i clienti, o i sistemi clienti, a sviluppare la consapevolezza e le capacità per trovare e valutare alternative per la soluzione dei problemi e per la crescita personale, facilitando in questo modo gli innati processi di maturazione e di vitalità dei clienti.
Per Cornell e Hine, dunque, un indicatore forte della specificità del counseling condotto secondo il modello teorico dell’Analisi Transazionale è un’alleanza di lavoro con gli aspetti progressivi del funzionamento emotivo, costruita con e attraverso lo stato dell’Io Adulto.

Il Centro di Psicologia e Analisi Transazionale di Milano ha promosso un’indagine, finalizzata a identificare alcuni indicatori della specificità del “fare counseling” secondo la prospettiva dell’Analisi Transazionale, avendo come fonte di informazione l’esperienza concreta di alcuni counselor.
Sono stati interpellati, attraverso un questionario semistrutturato ed eterosomministrato, analisti transazionali certificati e in formazione del Centro di Psicologia e Analisi Transazionale di Milano, del Centro Giovanni Castagna di Bergamo e del Form.AT di Genova, con l’invito a fornire informazioni sulla loro identità professionale e su una loro esperienza di counseling.
Il campione esaminato è risultato alla fine composto da quarantatré professionisti intervistati. Si tratta di un campione limitato, che ovviamente non ha pretese di significatività statistica, ma che comunque offre uno spaccato interessante delle diverse articolazioni delle possibilità evolutive e degli aspetti critici del fare counseling.
Rivolgiamo un vivo ringraziamento ai counselor intervistati, per il loro prezioso contributo, e a Francesco Dettori, ricercatore dell’IRS, per aver realizzato le elaborazioni statistiche e tradotto in tabelle e grafici i dati quantitativi.
Ringraziamo infine Anna Rotondo, Dela Ranci e Susanna Ligabue del Centro di Psicologia e Analisi Transazionale di Milano, per aver sostenuto l’idea che vale la pena investire risorse nella riflessione e nella ricerca sul counseling.


Eterogeneità dei professionisti e del campo di intervento

I counselor che hanno risposto al nostro questionario si presentano come caratterizzati da forti eterogeneità per quanto riguarda:

1. la formazione di base
2. i campi applicativi
3. i destinatari (target) del loro intervento.


1. Rispetto alla formazione di base la tabella 1 e la figura 1, relative al titolo di studio, ci dicono, come era prevedibile, che i counselor provengono da esperienze di studio molto diverse: medicina, psicologia, scienze sociali, scienze dell’educazione, dell’organizzazione.
Sembrerebbe pertanto che «counselor non si nasce, si diventa», poiché la formazione di base non è di per sé caratterizzante il futuro percorso professionale dei counselor. Il counselor, più di altri professionisti, acquisisce le competenze specifiche della sua professione dopo la laurea o il diploma, nei corsi di specializzazione a orientamento clinico o psicosociale, e sul campo.


Si tratta di una diversità per molti versi simmetrica alla varietà dei campi di applicazione del counseling.

2. Rispetto ai campi applicativi, infatti, dai dati raccolti si evince che il counseling viene praticato in un’ampia varietà di contesti: scuole pubbliche o private, carceri, università, cooperative sociali che si occupano di prevenzione (per esempio, attraverso centri di aggregazione per adolescenti o ludoteche) o di recupero (per esempio, di tossicodipendenti), cliniche pediatriche, aziende, associazioni di volontariato studi privati, amministrazioni comunali, provinciali, regionali.
Per quanto riguarda l’ambito lavorativo prevalente, osserviamo che c’è un sostanziale equilibrio tra counselor impegnati nelle istituzioni pubbliche (41,5%) e counselor impegnati nel privato sociale (41,5%), mentre in azienda, o nel privato for profit, è impegnato il 10% (fig. 2).

Il counseling emerge pertanto come esercitato, pur con diversa intensità, in tanti campi applicativi; non si definisce pertanto in relazione a un campo particolare, ma come funzione professionale versatile, che si adatta a molteplici settori di intervento.
Il counselor stesso non ricopre quasi mai esclusivamente questo solo ruolo professionale, egli è, infatti, simultaneamente counselor e formatore (nel 60,5% del nostro campione), counselor e docente (nel 37%), counselor e terapeuta (nel 32,6%), counselor e ricercatore (nel 25,6%).

3. In relazione, infine, ai destinatari degli interventi, dall’indagine emerge che il counseling non ha un target specifico. Chi fa counseling può rivolgersi a categorie deboli, con particolari disagi e bisogni (malati di AIDS, tossicodipendenti, persone senza fissa dimora, detenuti, immigrati, prostitute...); altri counselor si rivolgono invece a specifiche categorie sociali caratterizzate da esigenze legate ai propri bisogni evolutivi (adolescenti), o al ruolo sociale ricoperto (genitori...); altri ancora si dedicano in particolare a specifiche professioni o ruoli organizzativi, per esempio assistenti sociali o educatori, fra le professioni, e dirigenti, insegnanti, formatori, fra i ruoli organizzativi (fig. 3).

Da questi primi dati si direbbe pertanto che la nostra indagine empirica conferma quanto affermato da Timms e Timms (1982): «Il counseling è difficile da definire, ma spunta fuori un po’ da tutte le parti».


Una funzione professionale soddisfacente e in espansione

Un terzo circa dei nostri intervistati fa counseling da meno di tre anni, un terzo da tre a otto anni e un terzo da dieci e più anni. Si tratta pertanto di professionisti che, nella larga maggioranza dei casi, hanno già consolidato una loro competenza e una loro “identità” di counselor.
Fra costoro, circa uno su 3 (il 27,9%) ha dichiarato di essere molto soddisfatto della propria attività di counseling; il 60,5% si è dichiarato abbastanza soddisfatto di tale attività, solo il 7% si dichiara poco soddisfatto; nessuno si è dichiarato per nulla soddisfatto.
Fare counseling pertanto piace (molto o abbastanza) alla quasi totalità dei professionisti interpellati, che evidentemente traggono da questa funzione riconoscimenti e gratificazioni che danno vitalità e energia alla loro pratica professionale.
Inoltre, tre professionisti su cinque, a una precisa domanda relativa allo sviluppo della propria attività di counseling nel prossimi anni, all’interno dell’economia professionale di ciascuno, hanno dichiarato che nel prossimo quinquennio la loro attività di counseling aumenterà sensibilmente.

Il campione intervistato presenta pertanto una visione espansiva e positiva nei confronti delle potenzialità di sviluppo del counseling. Si ritiene infatti che fra cinque anni si farà più counseling di oggi, perché tale pratica si va consolidando sia attraverso successi professionali diffusi, sia per l’aumento della richiesta specifica di interventi di counseling.
Dalla lettura di questi primi dati quantitativi dedotti dal questionario, sembra che il counseling, considerato come una funzione soddisfacente e in espansione, sia definibile nella sua specificità non tanto in relazione ai contesti, campi applicativi e destinatari (che si sono rivelati decisamente eterogenei) né in relazione alla specifica formazione di base dei professionisti. In che cosa si determina allora la specificità del Counseling?
L’ipotesi interpretativa che abbiamo approfondito nella seconda parte dell’indagine è che la specificità del counseling si determini attraverso le peculiarità metodologiche dell’intervento.
Per esplorare questa dimensione e verificare tale ipotesi, nella seconda parte del questionario abbiamo posto una serie di domande aperte, tendenti a raccogliere informazioni sulla metodologia che caratterizza gli interventi di counseling.
Di seguito presentiamo i risultati di questa esplorazione.


Scopi, modi, esiti del counseling

Le esperienze illustrate sono tutte fondate sulla logica del potenziamento della normalità ed evidenziano due livelli di counseling.
Un primo livello interessa gli interventi tendenti a potenziare l’efficacia della comunicazione e a facilitare l’evoluzione di dinamiche interpersonali bloccate, anche ai fini del miglioramento delle prestazioni in termini di qualità ed efficacia.
Un secondo livello riguarda interventi specialistici, sempre sul versante della prevenzione, mirati all’ampliamento della consapevolezza dell’esistenza di aree problematiche non croniche e al superamento dello stress emotivo prodotto da perdite o da indecisione, ambiguità e confusione rispetto ad alcune scelte importanti (separazione coniugale, scelte scolastiche e professionali, gestione del ruolo genitoriale...).
Le esperienze presentate aiutano a focalizzare l’attenzione su alcuni aspetti rilevanti del fare counseling: l’elaborazione della domanda, la gestione del rapporto con i committenti e l’attenzione al contesto.
Tali aspetti non sono messi in evidenza nelle definizioni prese in considerazione in apertura, quantunque siano decisivi rispetto all’esito dell’intervento.


La domanda

Sembra utile evidenziare un dato confermato dall’indagine: la professione del counselor non è ancora oggetto di un sistema univoco di aspettative che orienti i fruitori, perciò uno dei compiti del counselor è quello di facilitare lo sviluppo della capacità della committenza di richiedere interventi professionali adeguati alla professione.
Spesso, chi chiede l’intervento non è colui che paga, né il destinatario ultimo dell’intervento stesso. La committenza multipla e la scissione committenza-utenza è uno dei fattori di complessità della conduzione di alcuni interventi.
Si ha a che fare con la complessità anche quando il committente è unico, dal momento che non di rado chiede di «curare un altro», più che di sostenere un processo di crescita e di sviluppo.
La domanda, per il counselor, è comunque viva e importante. Quasi sempre è motivata dalla sofferenza e rimanda all’integrazione degli individui entro i contesti sociali, essendo generata da problemi di relazione interpersonale, anche quando riguarda le singole persone. Spesso manifesta l’incapacità del cliente di formulare la domanda stessa in termini di rapporto tra individuo e contesto.
Nel caso in cui evidenzi l’assenza di consapevolezza, chiarezza e definizione, il counselor si dà l’obiettivo di «focalizzare le contaminazioni circa il problema e arrivare a una domanda di aiuto più consapevole e definita».


Il contesto

L’attenzione al contesto e al processo che dà origine al problema posto dal committente è fondamentale per la comprensione dei bisogni specifici degli individui e dei gruppi che fruiscono del counseling: i problemi di convivenza non sono affrontabili tramite un intervento con utenti scissi dal contesto entro il quale si è posto il problema, specialmente se l’obiettivo dell’intervento è il ripristino di funzioni adattative.


Obiettivi dei counselor

I diversi counselor si danno, oltre agli obiettivi specifici della particolare richiesta di aiuto, obiettivi comuni, coerenti con i principi fondamentali della psicologia umanistica.
Alcuni di questi riguardano la costruzione delle premesse per l’alleanza di lavoro:

«creare un clima di fiducia e intimità...»;
«creare un legame significativo».
Altri riguardano la costruzione e lo sviluppo della capacità di contrattare:
«... conoscere e definire il problema, fornire informazioni, esporre ciò che si è in grado di affrontare con il cliente e verificare con lui ciò che è disponibile ad affrontare»;
«condurre committente e cliente a un obiettivo condiviso; lavorare su quello».
Nella fase contrattuale e in quelle successive tutti i counselor tendono a:
«energizzare l’Adulto»;
«valorizzare le risorse»;
«favorire il recupero di opzioni relazionali più produttive rispetto a quelle usate precedentemente»;
«fare acquisire nuove capacità comunicative»;
«favorire nel cliente un processo di auto-aiuto in termini di consapevolezza e spinta all’attivazione personale in vista di un riposizionamento professionale».

Talora il counselor si pone un obiettivo molto elevato, come quello, per esempio, di aiutare alcuni detenuti stranieri «ad amare qualcosa (alcuni valori sociali, la poesia, la propria terra di origine, l’Italia)». E succede che i destinatari dell’intervento, dopo pochissimi incontri, si percepiscono come «un gruppo democratico»: una percezione che può preludere «all’amare qualcosa» e, quindi, al superamento della disperazione propria di chi ha perso la libertà, dopo aver interrotto il legame con la sua terra, suo malgrado.


Esiti degli interventi secondo i counselor

Abbiamo osservato quanto vari siano i luoghi, i modi e i protagonisti del counseling. Rileveremo ora, attraverso le stesse parole dei counselor, la varietà degli esiti raggiunti.
Alcuni risultati riguardano la costruzione dell’alleanza di lavoro:

«la persona è in atteggiamento di ascolto»;
«affidamento e disponibilità alla relazione»;
«chiarificazione e definizione del problema».
Altri risultati si riferiscono alla decontaminazione dell’Adulto, al potenziamento del Bambino libero e del Genitore affettivo interno:
«maggiore consapevolezza»;
«esito discreto rispetto al riflettere sul proprio ruolo genitoriale e sul proprio malessere...»;
«sviluppo di risorse nascoste e di legami»;
«valorizzazione e integrazione delle risorse umane; potenziamento della capacità di darsi obiettivi realistici e condivisi»;
«un’immagine più realistica del padre e della loro storia familiare»;
«diminuzione dello stress e delle paure»;
«forte diminuzione del ricattamento»;
«è diminuita l’ansia da prestazione»;
«il cliente ha riconosciuto il suo bisogno di formazione»;
«la coppia ha imparato a riconoscere la natura dei giochi messi in atto e a interromperli. È uscita dalla crisi, riscoprendo e accrescendo le proprie risorse»;
«... l’investimento emotivo si sposta e muta d’intensità. Il problema si ridimensiona. I genitori si rasserenano. Si attivano risorse. Si mostra curiosità per le caratteristiche evolutive del figlio. Si concorda con la necessità di rispettare la sua crescita e i suoi tempi. Muta, in mia presenza, la relazione tra i coniugi e tra questi e il figlio, che anche a scuola va meglio»;
«integrazione/aumento delle conoscenze, aumento della consapevolezza dei propri comportamenti; comprensione dell’importanza di tutelare la propria salute in prima persona e della necessità di attuare comportamenti preventivi»;
«il superamento di un passaggio faticoso della crescita»;
«c’è stato un buon cambiamento complessivo: il cliente si prende cura di sé, lavora”, “...spinta all’attivazione (per esempio, ingresso in formazione e attuazione di un progetto professionale)»;
«superamento delle impasse, riduzione del disagio, nuovo modo di vedere il “problema”, quindi maggior capacità di affrontarlo in modo autonomo; per le situazioni più gravi, spesso il lavoro di rete o di coinvolgimento dei genitori non è stato sufficiente o possibile. In questi casi ho dato ascolto e ho aiutato ad acquisire una maggiore consapevolezza del disagio, sul quale io stessa mi sto interrogando, visto che il mio vissuto è stato quello di aver aiutato a guardare dentro un pentolone in ebollizione, senza avere strumenti adeguati e tempo per...»;
«contenimento emotivo, possibilità di confrontarsi con l’altro, attivazione dell’Adulto»;
«cura di sé, appartenenza, riconoscimento dei limiti, parziale autonomia rispetto all’alcool»;
«presa di coscienza delle manipolazioni e delle responsabilità»;
«forse con più tempo questa persona avrebbe potuto prendere in mano la propria storia e anche iniziare una terapia»;
«la persona ha recuperato il controllo della propria esistenza con sufficiente stabilità. Attualmente svolge il servizio civile presso un centro per persone disabili»;
«... sta sperimentando scelte autonome con la famiglia di origine, con il marito, con i colleghi di lavoro».

La maggior parte di questi risultati non sarebbero stati possibili senza una elevata competenza del counselor relativamente al rispetto dei confini del counseling e alla costruzione di un’alleanza di lavoro con gli aspetti progressivi del funzionamento emotivo.
A dimostrazione di ciò, proponiamo la lettura di tre esempi dettagliati di intervento.
Il primo è un esempio di consulenza di processo, che ha reso possibile il raggiungimento degli obiettivi di un intervento formativo in azienda, articolato in sei incontri di due giornate consecutive, a cadenza mensile.
Il secondo è un esempio di counseling clinico. Il terzo è un esempio di counseling realizzato in area di intersezione con la formazione. Infatti, anche in un intervento di carattere formativo-informativo può avvenire qualcosa che permette di raggiungere un obiettivo specifico del counseling e della terapia: lo sviluppo della capacità di sentire, nominare, vivere le emozioni e, quindi, di comunicare e relazionarsi con se stessi e con gli altri in modo funzionale e soddisfacente.


Counseling organizzativo

Ho dedicato circa sessanta ore di lavoro agli incontri con il cliente, prima dell’intervento formativo, e dodici ore dopo. Ho inoltre impiegato mediamente sei, sette ore per la preparazione di ciascun incontro.
I committenti erano il Direttore Generale (il committente), il Direttore del Personale e della Formazione interna (committente diretto e mio interlocutore), il Responsabile della Formazione e il suo Assistente, impegnati a collaborare alla costruzione del progetto (committenti a latere).
I clienti erano gli stessi committenti, diretto e a latere, con il fantasma del Direttore Generale e con i conti da fare con i Responsabili di Settore, capi degli utenti, cui far approvare il progetto. Gli utenti erano funzionari aziendali, quadri e dirigenti.
La domanda iniziale era di fare un intervento formativo sul gruppo, al fine di fornire e sviluppare sensibilità e attenzioni per lavori di gruppo efficaci.
Nella riunione di presentazione dell’ipotesi di macroprogetto ai Responsabili di Settore, la reazione è stata ambivalente e ambigua: bello, però ora abbiamo bisogno di approfondimenti tecnici... ci sono priorità... si potrebbe fare così, nel tentativo di salvare capra e cavoli... Mentre i miei committenti litigavano, ho proposto qualcosa che tenesse conto delle esigenze di sviluppo delle competenze, che fosse trasversale e non settoriale, che toccasse comunque le capacità e le risorse degli utenti. Ho stabilito con i miei interlocutori che avrei condotto un intervento sulle competenze altre che rendono più o meno efficace l’esercizio del ruolo e le relazioni di ruolo.

La definizione del microprogetto era fondata, naturalmente, sugli obiettivi praticabili.
Obiettivo dei committenti era migliorare la consapevolezza delle risorse e abilità personali messe in gioco da ciascuno e fornire strumenti di scoperta. Il metaobiettivo era migliorare il clima interno, con un’attenzione e un ascolto specifico, e favorire la comunicazione tra settori diversi. I committenti desideravano soprattutto fare un intervento di successo: erano preoccupati e in ansia, perché l’intervento precedente aveva sollevato problemi e alimentato insoddisfazioni, arrivate anche alle orecchie del Direttore Generale, che era intervenuto.
Obiettivo degli utenti era innanzitutto migliorare e scoprire le proprie capacità, stando meglio con se stessi nel lavoro, quindi migliorare le relazioni orizzontali, con una comunicazione più aperta, e verticali, almeno per quanto riguardava la loro parte (non grande perplessità di alcuni sulla disponibilità dei gradi più elevati a modificare il loro comportamento).
Il mio obiettivo era migliorare la consapevolezza degli utenti e dei committenti rispetto alle responsabilità soggettive giocate nel ruolo e approfondire la consapevolezza delle risorse soggettive, usate e non usate, spesso talmente “ovvie” da risultare invisibili.

Per il raggiungimento di tali obiettivi, ho adottato le strategie seguenti:

1. Non accettare un tema che non era considerato “utile” o prioritario dall’insieme dei dirigenti (Direttori di Settore): farlo avrebbe significato stabilire un’alleanza non solo debolissima, ma addirittura di parte. (Avevo il sospetto che fosse un desiderio dei responsabili della formazione).
I miei committenti diretti avevano confuso il loro auspicabile con l’effettivo del contesto.
2. Salvare la faccia a tutti, con un argomento (le competenze “altre”) che rispondeva sia alle esigenze di “approfondimento tecnico” sia a quelle di attenzione alle “risorse umane”, sia alle esigenze di una formazione trasversale che coinvolgesse tutti i settori.
3. Proporre un intervento che prevedesse tempo e spazio adeguati per:
- l’elaborazione delle insoddisfazioni
- la costruzione con gli utenti dei passi del processo e di alcuni contenuti.
4. Ottenere una presentazione ufficiale dell’intervento a tutti gli utenti, con la presenza e l’intervento del Direttore Generale, del Committente diretto e del consulente.
La presentazione ha “collocato” l’intervento, gli ha dato alcuni confini condivisi, senza dire troppo rispetto ai contenuti, con la creazione di un “effetto mistero” che ha stimolato la curiosità (risultato quantitativo: la partecipazione è stata totale!).
5. Gestire l’aula in modo flessibile, con attenzione particolare ai processi e con l’utilizzo di accadimenti, temi e protagonismo degli utenti per una ricollocazione nel filo rosso del percorso (modalità dichiarata dall’inizio con linguaggio metaforico).
6. Usare quindi l’imprevisto come spostamento di quadri di riferimento, per permettere l’emergere di “altro”.
7. Pattuire l’utilizzo di materiali e informazioni dopo il corso: un coerente percorso di trasparenza.
8. Ottenere una presentazione ufficiale della relazione conclusiva, con la presenza e l’intervento del Direttore Generale, del consulente e di tutti i committenti, capi compresi.

(La relazione, corredata dai dati elaborati del feed-back finale, sarebbe stata data a tutti gli utenti, oltre che ai committenti.
La presentazione pubblica e ufficiale avrebbe permesso di sottolineare l’importanza della comunicazione e della trasparenza, per l’organizzazione; inoltre avrebbe reso visibile l’utilità della formazione. Infine sarebbe servita da introduzione agli interventi formativi previsti per quest’anno.)

Alla fine dell’esperienza formativa, il committente finale considera buoni i risultati dell’intervento. In particolare è soddisfatto per l’equilibrio della gestione, il coinvolgimento e la partecipazione degli utenti, l’individuazione chiara ed esplicita di alcuni punti nodali della comunicazione interna.
I committenti diretti si sentono sollevati e sono soddisfatti per diversi motivi: l’equilibrio, il coinvolgimento, la novità dell’intervento e il suo successo, il clima buono e la definizione chiara dei punti da “curare”, indicatori di interventi successivi.
Gli utenti esprimono una valutazione tra buono e ottimo. In particolare dichiarano di apprezzare molto la gestione d’aula, il processo di scoperta progressiva costruito con Gli utenti esprimono una valutazione tra buono e ottimo. In particolare dichiarano di apprezzare molto la gestione d’aula, il processo di scoperta progressiva costruito con loro, l’ascolto e il rispetto nelle relazioni, la trasparenza nella comunicazione e nelle prese di posizione.

Io considero soddisfacente l’esito dell’intervento rispetto agli obiettivi. Ritengo di aver lavorato sul fronte della committenza e dell’utenza stimolando e fornendo con chiarezza i canali per un incontro possibile. Considero meno soddisfacente il rapporto tra tempo dedicato e guadagno: spesso, nelle aziende, il tempo dedicato alla consulenza per successivi interventi formativi è considerato parte integrante, quasi ovvia, e retribuita con le giornate di formazione o, al massimo, con un riconoscimento per la progettazione, come in questo caso.
La valutazione globale è positiva, considerata la complessità del contesto. Da un intervento formativo, che alcuni volevano indolore e insapore, è scaturito un processo di maggiore comunicazione tra i ruoli. Il coinvolgimento diretto dei ruoli verticali e la chiarezza sui punti da affrontare per un miglioramento delle relazioni e della comunicazione interna è senza dubbio un punto di partenza qualitativamente importante.
Questo esempio di counseling organizzativo mostra come nel counseling orientato al cliente l’intervento necessiti di una duplice competenza: la competenza tecnica professionale, cioè la capacità di fornire risposte tecnicamente adeguate al problema posto dalla committenza e la competenza organizzativa, cioè la capacità di analizzare la domanda del committente e di integrare la competenza tecnica entro la problematica del committente stesso, in modo da tradurre la domanda in obiettivo perseguibile, attraverso una sapiente contrattazione.


Counseling clinico

Una bambina di sette anni non tollera la separazione dalla madre, mostra atteggiamenti regressivi e accentuate paure in presenza dei genitori, quantunque si gestisca con eccessiva autonomia durante le obbligate assenze per lavoro degli stessi.
I genitori chiedono una consulenza psicologica esprimendo il desiderio di una figlia serena, più autonoma e “donnina”.
Inizio la consulenza con l’obiettivo di facilitare il riconoscimento del bisogno della figlia di avere una base sicura e di essere vista come bimba.
Emergono però alcuni elementi che mi fanno decidere per un cambiamento di strategia: i coniugi sono immigrati quindici anni fa dalla Sicilia con l’obiettivo di ritornare alla terra di origine in capo a qualche anno, per questo motivo hanno chiesto più volte, senza successo, un trasferimento lavorativo. Al tempo stesso, recentemente, hanno acquistato un’abitazione al nord, anche se considerano provvisorio il loro trasferimento qui.
Immigrati quindici anni fa dalla Sicilia, i coniugi vivevano sospesi tra due mondi, con un forte attaccamento alla terra di origine, lasciata e idealizzata, e senza un legame con il luogo di vita attuale, senza appartenenza.

Ipotizzo che abbiano subito e non scelto la permanenza nella terra “nuova” e che vivano sospesi tra due mondi: il mondo lasciato, amato e idealizzato, e il mondo nel quale vivono, per necessità contingenti, senza legami significativi. Mi torna in mente che nei primi minuti del primo colloquio hanno parlato delle bellissime vacanze in Sicilia e mi hanno spiegato che a “casa” anche la loro bambina è serena e non mostra i comportamenti per i quali hanno chiesto la consulenza: forse la Sicilia a lei manca di più perché è l’unica persona della famiglia a non essere nata là.
Mi pare che l’acquisto della casa rappresenti il bisogno di radici che non riesce, tuttavia, a tradursi in appartenenza. Decido quindi di spostare l’attenzione dalle difficoltà inerenti la gestione del ruolo genitoriale al progetto migratorio, individuale e di coppia, e propongo ai coniugi la narrazione della storia migratoria.
L’obiettivo condiviso è che i coniugi possano sentirsi protagonisti del loro essere qui e che possano utilizzare le loro risorse per ridefinire il progetto migratorio e i suoi obiettivi, scegliendo di creare nuovi legami e di appartenere, anche, al luogo che abitano con i propri figli.

L’intervento si è sviluppato in dodici incontri con frequenza trisettimanale.
Attualmente la bimba è più serena ed è in grado di tollerare meglio la separazione dalla madre. I coniugi stanno superando l’idealizzazione della Sicilia e la svalutazione del luogo in cui vivono e iniziano a integrare in modo realistico limiti e risorse dei due contesti. Il marito, con il gruppo escursionistico locale, sta organizzando per il prossimo anno una vacanza sull’Etna: un segno della possibilità di mettere in contatto i due mondi, anziché transitare semplicemente dall’uno all’altro.
Questo caso mostra come sia possibile fare un intervento significativo, con verifica comportamentale, in tempi molto brevi. Il counselor, ponendo l’accento sul funzionamento normale piuttosto che sulla patologia, senza fare ricorso a tecniche regressive, a interpretazioni e al confronto delle difese, ha dato il Permesso di appartenere e, al tempo stesso, di andare, ritornare, integrare, accentuando la potenza e la responsabilità dei clienti nel qui-e-ora.


Area di intersezione formazione-counseling

Un’Associazione per l’infanzia, che dirige e organizza una Ludoteca, chiede un corso di quattro incontri di due ore ciascuno, a cadenza quindicinale, per genitori di bambini da zero a sei anni. La presidente dell’Associazione propone inizialmente una domanda molto complessa e ampia: riflettere intorno all’identità di genere.
Noi formatori iniziamo un lavoro di contrattazione con il committente per arrivare a definire obiettivi di lavoro possibili.
Così costruiamo insieme la seguente riflessione iniziale, che vuole tenere conto della motivazione generale che il committente riporta.
La richiesta di formazione nasce da considerazioni di ordine storico e sociologico. Infatti negli ultimi decenni i cambiamenti politici, economici e culturali della nostra società, l’accresciuto numero di donne che lavorano fuori casa, l’elevato grado di istruzione, la diminuzione della natalità hanno comportato un cambiamento nel modo di intendere i ruoli sessuali e hanno dato avvio a più modi di rapportarsi l’uno all’altro sia all’interno della coppia sia nella gestione delle competenze genitoriali. Attualmente non si osservano competenze rigide all’interno del ruolo paterno e materno, né compiti che riguardano nettamente la donna o l’uomo. Si conviene che, attraverso la interconnessione tra i due e la possibilità di entrambi di contare sull’appoggio dell’altro e sull’intercambiabilità dei ruoli, si può raggiungere una maggiore capacità di vivere in modo personalizzato la propria paternità e maternità. Andare oltre la rigida divisione dei compiti, che spettano al padre e alla madre, non significa ignorare le differenze che esistono tra i sessi, nel prendersi cura dei bambini, ma sottolineare la possibilità che ciascuno dei due componenti la coppia possa esprimere quanto finora censurato perché ritenuto di competenza dell’altro.

Successivamente alla chiarificazione del retroterra motivazionale del committente condividiamo la necessità di stabilire degli obiettivi intermedi:

1. ampliare la consapevolezza dei vissuti personali rispetto alla propria identità maschile e femminile;
2. ampliare la consapevolezza dei modelli materni e paterni interiorizzati;
3. ampliare la consapevolezza delle convinzioni che guidano nell’essere padre e madre;
4. consolidare la possibilità di personale il proprio ruolo paterno e materno costruendo nuove strategie.

Il passo successivo è quello della verifica della congruenza tra gli obiettivi del committente e quelli degli utenti, i quali durante il primo incontro esprimono la fatica di fermarsi sull’argomento relativo alle differenze di genere, mentre dichiarano di voler: conoscere altri genitori, condividere l’esperienza genitoriale, sviluppare insieme delle idee, imparare a collaborare. Un genitore esprime il bisogno di imparare qualcosa sulla gestione del ruolo paterno e materno.
Stimolati da alcune domande («Come ricordo il/la bambino/a che sono stato/a?», «Come ricordo i miei genitori?», «Cosa era solo di mamma? cosa era solo di papà?», «Come definisco oggi il ruolo paterno e materno?», «Cosa può fare, il papà, assieme alla figlia femmina e al figlio maschio?», «Cosa può fare, la mamma, assieme al figlio maschio e alla figlia femmina?»), lavorando in piccoli gruppi, i genitori hanno fatto un’esperienza cognitivo-emotiva che li ha aiutati a dare nuova energia a risorse sottoutilizzate: visualizzare, ricordare («Ho rispolverato ricordi che pensavo di aver dimenticato: come ero da bambino, come erano i miei genitori...»), fermarsi («È importante fermarsi, siamo sempre di corsa e non c’è mai tempo per noi»), dialogare, come coppia, con altre coppie («È bello che ci avete chiesto di venire in coppia, perché siamo sempre divisi per i troppi impegni, qui ci siamo ritrovati a parlare come coppia»).

Il committente ha espresso una valutazione positiva dell’intervento e ne ha chiesto la prosecuzione.

Noi formatori siamo soddisfatti, perché riteniamo di aver costruito assieme al cliente uno spazio per la persona, nel quale c’è la possibilità di stare insieme, di ascoltarsi e di condividere le esperienze, un luogo dove pensare tenendo conto anche dei vissuti emotivi. Riteniamo inoltre che i genitori abbiano ampliato la consapevolezza del loro ruolo sessuale nello svolgere il compito di mamma e papà e abbiano valorizzato il ruolo dell’altro, nella coppia, ruolo che inizialmente era invece visto come il più comodo.
In questo caso non è facile dire dove finisce la formazione e dove incomincia la consulenza. E forse non è necessario.
Da alcuni segnali («E' importante fermarsi, siamo sempre di corsa e non c’è mai tempo per noi...», «E' bello che ci avete chiesto di venire in coppia, perché siamo sempre divisi per i troppi impegni, qui ci siamo ritrovati a parlare come coppia...»), sembra che sia scattato un processo di consapevolezza emotiva, oltre che cognitiva, su cui può fondarsi un cambiamento comportamentale di tipo evolutivo.


Considerazioni conclusive

Ci sembra che nelle tre esperienze qui riportate in modo dettagliato siano stati rispettati gli “involucri di coerenza”, cioè i criteri suggeriti da José Grégoire per stabilire le frontiere dei diversi campi di applicazione dell’Analisi Transazionale: contratto coerente con le finalità del counseling; attenzione alla protezione offerta dal setting.
Gli esempi di counseling presentati mostrano come gli analisti transazionali, pur operando in contesti molto differenti, fondamentalmente applicano il metodo contrattuale e accompagnano la ricerca di opzioni comportamentali, in vista di livelli sempre più alti di autonomia, offrendo alle persone informazioni, Permessi, Protezione e Potenza.
Mostrano inoltre che, a seconda delle finalità specifiche, i counselor fondano la loro competenza su saperi propri della psicologia, delle scienze dell’organizzazione, dell’educazione o delle scienze sociali, sulla base di una matrice comune, caratterizzata dall’applicazione di alcuni principi della psicologia umanistica, che danno unicità al counseling.

Il primo di questi è l’accettazione dell’altro (okness), basata sul riconoscimento della competenza, della libertà e responsabilità di ogni essere umano.
Un altro principio fondativo è la non direttività della relazione, che permette al cliente di essere protagonista principale del percorso di autoconsapevolezza e del processo decisionale. Infatti il counselor si pone come risorsa che facilita lo sviluppo delle capacità dei clienti di raggiungere i loro obiettivi.
In stretta relazione con i precedenti principi è la particolare attenzione alla relazione. Infatti, in ogni setting, il counselor si qualifica come esperto di comunicazione-relazione. Per questo, il principale strumento di lavoro è l’ascolto empatico, che non sfocia in giudizi o interpretazioni, ma in un’alleanza di lavoro e in un colloquio maieutico attraverso il quale il counselor aiuta la persona o il gruppo ad “aiutarsi”, cioè a usare le proprie risorse provvisoriamente inutilizzate o bloccate, per definire il problema in termini di obiettivo concreto e per formulare, valutare e scegliere strategie che rendano possibile il conseguimento dell’obiettivo stesso.
Nel complesso, anche le informazioni di tipo qualitativo confermano la difficoltà a definire la specificità del counseling.

Ciò che avviene in un intervento di counseling non è sempre esclusivo di questa professione. Anche in un setting clinico o nella formazione è possibile rilevare alcuni degli indicatori di specificità segnalati dai counselor intervistati:

«obiettivi specifici e già programmati, anche se sono ricalibrati nel contesto»;
«uso di un linguaggio chiaro e comprensibile»;
«la contrattualità»;
«centralità della persona (lavorare con il cliente), dimensione contrattuale della relazione d’aiuto, attenzione alle transazioni, tenere presente la dimensione del sentimento, del pensiero e del comportamento».
Più specifici, ma anch’essi non esclusivi, appaiono i seguenti indicatori:
«restituzione costante di ciò che avviene in seduta e fuori; verifica a livello comportamentale»;
«setting definito nel tempo, meno nello spazio; tecniche berniane dirette all’Adulto, contratti di “controllo sociale”, cambiamenti attesi definiti e contrattati, alcuni compiti operativi (aspetti psico-educativi), alleggerimento delle “difese” iper-ragionevoli del paziente, senza smantellarle»;
«non regressione, non interpretazione, non confronto delle difese»;
«restituzione al cliente della propria competenza rispetto alla soluzione del problema; counselor come facilitatore»;
«alto livello di competenza e professionalità del counselor».

Sembra dunque difficile indicare in modo preciso ed esauriente le caratteristiche di una professione poliedrica ed emergente quale è il counseling. Forse non è neppure auspicabile definire questa professione, dal momento che il counseling ha il compito di agevolare l’evoluzione della sua stessa identità, oltre che delle persone.
Uno dei counselor intervistati ha compilato il questionario con la matita. La scrittura a matita potrebbe essere letta come una sorta di metafora dell’essenza e del fascino del counseling, una professione che oggi sfugge a definizioni puntuali e che, al tempo stesso, si caratterizza per gli interventi ben delimitati nel tempo, che prevedono la possibilità di inventare, scrivere, cancellare, reinventare nuove strategie, poiché ogni processo di espansione e di crescita non può che fondarsi sull’apertura a nuove intuizioni e, quindi, sulla provvisorietà della “scrittura”.

Ma anche questa è una caratteristica che dovrebbe essere di ogni professione, di ogni mestiere.
Forse c’è qualcosa che fa del counseling una professione con una fisionomia inconfondibile: paradossalmente, un indicatore di specificità nel counseling potrebbe essere proprio la non-definizione, o meglio l’impossibilità di definire in modo univoco, chiuso e rigido questa professione, a causa della forte “trasversalità” con altri campi di intervento (clinico, organizzativo, formativo...). Infatti, la funzione professionale di counselor viene esercitata da professionisti con specializzazioni molto differenti che, comunque, aiutano a “cancellare” tratti poco funzionali dell’esistenza (ancora una volta ci piace evocare la metafora della scrittura a matita), così che le persone possano disegnarne altri, più armoniosi e ricchi di senso.

Ci auguriamo che questo articolo stimoli un dibattito tendente a favorire la prosecuzione della ricerca sulla specificità e sulle frontiere del counseling, senza la presunzione che possa essere esaustiva e definitiva.
L’indagine potrebbe continuare, fra l’altro, con domande come «Quale immagine ha, di sé, il counselor?», «Quale immagine ha, del counselor e del counseling, l’utenza reale e potenziale?».
Dare alcune risposte a queste domande può servire a progettare azioni volte allo sviluppo qualitativo della professione.


Bibliografia

AA.VV., Simposio, in «Rivista di Psicologi e psicoterapeuti», 13, 2000.
Cornell W. - Hine J., Cognitive and social functions of emotions: a model for Transactional Analysis counselor training, in «TAJ», XXIX, 3, 1999; trad. it. Funzioni cognitive e sociali delle emozioni: un modello per la formazione di Analisti Transazionali nell’area del Counseling, in «Quaderni di Psicologia Analisi Transazionale e Scienze Umane», 32-33, 2001.
Di Fabio A.M., Counseling, Giunti, 1999.
Feltham C. - Dryden W., Dizionario di counseling, Sovera, Roma 1995.
Grégoire J., Sur quels critères fonder la cohérence et les frontières d’un champ d’application de l’A.T., ou de la formation?, in «Actualites en Analyse Transactionelle», XVIII, 72, 1994; trad. it. Confini e coerenza dei campi di applicazione e formazione dell’Analisi Transazionale: quali i criteri fondanti?, in «Quaderni di Psicologia Analisi Transazionale e Scienze Umane», 32-33, 2001.
Reddy M. (1987), trad. it. Il counseling aziendale, Sovera, Roma 1994.
Vinella P., Il setting nel counseling, in M. Novellino (a cura di), L’approccio clinico dell’Analisi Transazionale, FrancoAngeli, Milano 1998.


* Laura Pentimalli Vergerio, psicologa, analista transazionale in Counseling, didatta e supervisore in formazione. Centro Giovanni Castagna di Bergamo. Centro di Psicologia e Analisi Transazionale di Milano.

** Ugo De Ambrogio, sociologo, analista transazionale in campo organizzativo, responsabile dell’area Servizi Sociali e Sanitari dell’Istituto per la Ricerca Sociale (IRS), Milano. Collabora con il Centro di Psicologia e Analisi Transazionale di Milano.



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