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C.P.A.T. --> HOME PAGE --> N. 30/2000

QUADERNI DI PSICOLOGIA,
ANALISI TRANSAZIONALE
E SCIENZE UMANE

Dal n° 30 - 2000


Come sono arrivato alla mia teoria

Joseph Weiss




E' un grande piacere essere qui a Milano. Ed essere nello stesso panel con Migone e Liotti. Paolo Migone è il miglior traduttore che io conosca. Quello che farò oggi sarà una cosa un po’ diversa da quello che ho fatto altre volte, cioè svilupperò la mia teoria in modo storico per vedere come sono arrivato alle mie posizioni. Una volta un professore di fisica mi disse che quando vedeva una teoria completa era difficile comprenderla appieno, ma quando riusciva a vedere come i concetti venivano sviluppati storicamente per arrivare alla teoria completa allora riusciva a capirla. Solo così riusciva a capire come erano importanti quei concetti o come erano collegati all’osservazione. Spero che così riuscirò a darvi una comprensione più intuitiva della mia teoria.

Il pianto a lieto fine
Incominciai a teorizzare queste cose alla fine degli anni ’40 prima che molti di voi potessero ancora essere nati, cercando di capire il fenomeno paradossale del “pianto a lieto fine”. Questa fu una scelta importante, come vedrete, per il modo con cui ho spiegato questo fenomeno. Ci sono due importanti caratteristiche del funzionamento mentale inconscio: la prima è che le persone sono altamente motivate, inconsciamente, a risolvere i propri problemi, e c’è una capacità inconscia altamente sofisticata di risolvere questi problemi. Ho esemplificato il fenomeno del “pianto a lieto fine”, di chi cioè va al cinema e assiste a un dramma e non piange, per esempio, quando gli amanti litigano, ma piange alla fine del film quando gli amanti si riuniscono. Il motivo è che quando gli amanti si riuniscono non ha più ragione di difendersi, e quindi può esprimere le emozioni che prima aveva dovuto controllare. Quindi è contento alla fine del film, ma si rende conto che esprime la tristezza che aveva provato prima. Chi va al cinema spesso dice che non si tratta di rimozione, ma di repressione. La mia spiegazione del fenomeno del “pianto a lieto fine” implica che al momento del lieto fine possono emergere dei materiali prima profondamente rimossi.

Mi entusiasmai di questa mia idea del “pianto a lieto fine” e ne parlai ai miei colleghi. E una mia collega, una certa Louise, fu molto interessata a parlarmi della sua esperienza riguardo a un episodio di “pianto a lieto fine” da lei stessa vissuto. Questa donna nove anni prima, al suo primo matrimonio, aveva perso un bambino di due anni. Era sopraffatta dal lutto e dal dolore, e aveva reagito rimuovendo tutti i ricordi del suo bambino. Una volta sfogliò l’album di fotografie di famiglia e, vedendo la fotografia del bambino, disse: «Chi è questo?». In un secondo matrimonio, dieci anni dopo, partorì un secondo figlio. Quando il bambino fu portato nella sua stanza, e mentre stava parlando con l’infermiera, con sua grande sorpresa, Louise scoppiò a piangere in modo incontrollato. Incominciò subito a ricordare moltissime cose riguardo al primo bambino, ricordò quanto lo aveva amato e ricordò quanto era triste quando lui morì.
Mi spiego questa cosa nello stesso modo in cui io spiego il fenomeno del “pianto a lieto fine” al cinema. L’arrivo del secondo bambino aveva ricompensato la perdita del primo bambino, così Louise non si sentì più così triste e fu capace di fronteggiare la tristezza che aveva rimosso per tutti quegli anni.

Questa osservazione clinica solleva altre importanti osservazioni, domande, implicazioni.
Ho detto che Louise poté, finalmente, fronteggiare in modo sicuro la sua tristezza. Ma perché, solo per il fatto che si sentiva sicura, doveva piangere immediatamente? Puoi sentirti più sicuro, ma non necessariamente devi piangere immediatamente. Siccome pianse immediatamente, doveva aver avuto delle motivazioni potenti per farlo. La mia assunzione è che lei era motivata a padroneggiare tutte le esperienze tristi riguardanti la perdita del primo bambino. Quindi si sentiva sicura di poter esprimere la tristezza in quel preciso momento, e appena l’aveva potuto fare lo aveva fatto. Questa Louise, che era tra l’altro una collega, una psicologa, disse che aveva acquisito una sensazione di padroneggiamento (mastering), disse che fu capace di pensare, dopo che aveva pianto, a un periodo della sua vita di cui aveva rimosso tutti questi ricordi. Aveva riguadagnato una sensazione di continuità nella sua vita. Paragonava la sua sensazione di libertà a quella di una persona che aveva paura a entrare in una certa stanza della sua casa, e adesso era capace di farlo, di entrare in quella stanza.

Un’altra domanda suggerita dall’esperienza di Louise è la seguente: che cosa è accaduto nella testa di Louise tra questi due eventi, il momento in cui ha visto il bambino e il momento in cui ha cominciato a piangere? Quello che è accaduto era inconscio perché lei stessa fu sorpresa dal suo pianto. Quello che è accaduto non poteva essere automatico, le richiedeva di valutare e rendersi conto che l’arrivo del secondo figlio aveva ricompensato la perdita del primo. Un diverso tipo di esperienza felice non l’avrebbe fatta piangere. Da quest’esperienza è possibile inferire che vi è un potente desiderio di padroneggiamento e una grande capacità cognitiva inconscia di compiere valutazioni. Uno potrebbe però chiedersi: in che misura questa persona che “piange a lieto fine” lo fa in parte per tristezza? Dipende da un numero di fattori. Se la nuova esperienza rende la persona felice allora può sentire che piange di gioia, ma se la tristezza non può essere completamente superata dalla nuova esperienza, la persona può essere consapevole che piange sia per la felicità che per la tristezza. Alcune volte, quando vi è questo fenomeno del “pianto a lieto fine”, l’elemento predominante è la tristezza. Prima di andare avanti voglio puntualizzare che l’idea che le persone, quando si sentono sicure, portano nuovo materiale, è stata esplicitata da Freud ne L’interpretazione dei sogni (1899): ipotizzò per esempio che quando dormi sei paralizzato ed è più sicuro esprimere gli impulsi perché sai che non puoi agire su di essi. Questa idea di Freud non divenne significativa per me se non quando mi resi conto che poteva spiegare anche l’esperienza di tutti i giorni.

La motivazione
La fase successiva della mia teorizzazione iniziò quando fui introdotto allo studio attento delle note tratte dalle terapie dei pazienti da parte di uno dei miei due maestri di allora, e trovai che lo studio sequenziale delle note sui pazienti è molto utile. L’ho trovato così utile che ho impiegato parecchi anni a studiare le note processuali delle terapie. Quando leggevo tutte le note prese dai terapeuti sulle loro terapie avevo sempre in mente i concetti di “pianto a lieto fine”, di desiderio di padroneggiamento, e così via.
Il primo caso che ho studiato era un paziente che aveva fatto notevoli progressi senza alcun aiuto da parte mia. Il paziente era un laureato in Fisica di trentacinque anni, psicologicamente paralizzato: non poteva finire la sua tesi, non era uscito con una donna da dieci anni, stava a casa a guardare la televisione, si masturbava. Venne da me col suo stato di paralisi, ma cento sedute dopo stava molto meglio. Usciva con donne, aveva finito la sua tesi, aveva un lavoro. Com’è che Ð mi sono chiesto Ð si va dalla paralisi all’attività senza alcun aiuto da parte mia? Avevo sviluppato allora solo poche idee, e adesso vi spiego quali erano. Tutta la storia di questo paziente può essere raccontata dicendo che aveva acquisito un maggiore controllo su un suo modo di pensare ossessivo. All’inizio della terapia lui non riconosceva nessun tipo di pensiero ossessivo, era inconscio. Parlava volutamente in un modo molto lento, temendo che se avesse parlato più velocemente sarebbe entrato in confusione. Se gli facevo una domanda del tipo «Parlami di tua madre» lui faceva così: «Mia madre...», e intanto pensava e aspettava prendendo tempo prima di rispondere come se la sua mente ponderasse in modo ossessivo cosa dire. Dopo un po’ di tempo si rese conto lentamente che era ossessivo, ma che non era confuso. Appena aveva un’idea sviluppava l’idea opposta immediatamente, quindi non poteva fare nessun piano o progetto, non poteva mantenere una sola idea. Attorno alla cinquantesima seduta non aveva ancora detto un gran che, ma era diventato molto più consapevole della propria ossessività. Aveva un lavoro, cercava di spiegarsi perché non lavorava bene e disse: «Forse è perché sono testardo, no, forse è perché sono pigro, no, forse è perché sono testardo, no...» e andava avanti e indietro tra questi due pensieri per quindici minuti. Incominciai a interpretare e dire: «Appena hai un’idea subito ne hai un’altra». Per una quindicina di sedute continuai a elaborare quest’interpretazione: «Appena hai un’idea finisci con averne subito un’altra opposta». Alla fine fu capace di usare questa mia interpretazione arrivando ad avere un certo controllo sulla sua ossessività e a essere capace di mantenere una stessa idea senza scivolare in un’altra.
Io e Harold Sampson facemmo una ricerca formale sulle sedute analitiche di questo paziente. Usammo la metodologia di ricerca standard (giudici indipendenti, doppio cieco ecc.) e vedemmo che questo paziente attraversò tutte le fasi di cui abbiamo parlato. Abbiamo anche mostrato che, mano a mano che il paziente riusciva a controllare la sua ossessività, era capace di provare potenti emozioni per la prima volta. Si sentiva più sicuro ad avere emozioni potenti, e poi poteva, deliberatamente e consapevolmente, passare a un’altra idea. La nostra impressione fu che questo paziente rese le sue emozioni completamente consce cosicché io potessi aiutarlo a capire. Mi sono fatto quest’idea da questo primo caso che ho studiato perché lui ha fatto questi passi senza un mio reale aiuto, lui fece questo percorso da solo, come se avesse una motivazione sua.

I test inconsci
Il secondo caso che ho studiato mi ha reso consapevole dell’idea del test inconscio. La paziente, Roberta, era un’avvocatessa di trentatré anni, era stata molto respinta da bambina, i genitori erano entrambi molto depressi. La madre anziché fare da mangiare apriva semplicemente una lattina di cibo e la metteva sul tavolo, e c’era ben poca conversazione in casa. Quando venne da me lavorava come assistente in uno studio legale ed era pagata poco, aveva pochi amici, quasi nessuno. Aveva paura di essere respinta. Durante i primi tre/quattro anni di analisi la paziente aveva fatto progressi molto lenti, aveva parlato di queste cose, però i progressi erano minimi. Poi mi disse un giorno, verso il quarto anno di analisi, che aveva fatto una buona analisi, che era contenta e che voleva terminare nel giro di sei mesi, cioè entrare nella fase di termination. Io ero consapevole invece che aveva fatto un miglioramento minimo, e così pensai che non doveva smettere. Feci tutta una serie di interpretazioni per spingerla a continuare, dissi che lei pensava di non meritare di continuare la terapia, dissi che lei cercava di respingermi prima che io potessi respingere lei, e così via. Lei trovava queste interpretazioni interessanti, ma non la fermavano dall’idea di voler smettere la terapia. Quando venne la scadenza le dissi ancora: «Perché vuoi smettere? Tu puoi permetterti economicamente la terapia, hai tempo e hai ancora bisogno di aiuto. Vorrei che tu continuassi». Lei disse in modo riluttante: «Va bene, va bene allora!». Due giorni dopo portò un ricordo molto doloroso: viveva in una città industriale e c’era un grosso sciopero, con violenze nelle strade, aveva sei anni, le altre mamme in quel periodo mandavano i bambini a nascondersi in cantina, invece la sua mamma le disse: «Va fuori al negozio, comprami da mangiare». Lei pensò che la mamma volesse che lei fosse uccisa. Dopo aver detto questo pianse a lungo. Questo può considerarsi un esempio di “pianto a lieto fine” perché lei voleva, secondo me, che la costringessi a stare in terapia. Lei insomma piangeva per la tristezza di tanto tempo fa. Dopo di che la paziente decise di stare in terapia, e un po’ di tempo dopo disse: «Sono molto contenta che lei mi abbia fatto restare». Io le dissi che se le avessi detto di interrompere la terapia sarebbe stata devastata. Un anno dopo circa la paziente mi disse che aveva consciamente messo alla prova, testato un amico. Gli disse: «Non vengo al cinema con te», e fu molto contenta quando l’amico le disse: «No, vieni». Conclusi che la paziente aveva minacciato di interrompere la terapia allo scopo di testarmi. Voleva dimostrare a se stessa se mi impegnavo a capirla e aiutarla. Il test era fatto molto bene, infatti lei disse che era molto soddisfatta dalla terapia. A me sarebbe stato molto facile lasciarla andare, dato che aveva detto che era contenta della terapia. Apparentemente non aveva potuto riportare ricordi dolorosi, del fatto che la madre la voleva abbandonare, finché lei non aveva potuto trovare in me un alleato fidato. Solo quando ha potuto fidarsi di me, solo allora aveva potuto rammentare meglio quel ricordo. Lei aveva molto paura che io potessi fare come la madre ed essere d’accordo sul fatto che lei poteva essere respinta.
Rimase in terapia per altri cinque anni, quindi ebbe un’analisi di nove anni, e fece molti progressi. Negli ultimi due anni della terapia espresse sensi di colpa perché lei stava andando molto meglio di quello che avevano fatto i propri genitori. L’analisi di questa paziente fornisce le prove dell’idea che tu, come terapeuta, non devi essere neutrale. E anche fornisce prove contro l’idea originaria freudiana che se frustri un desiderio, il desiderio diventa più conscio; se avessi frustrato il suo desiderio di essere accettata, questo non sarebbe assolutamente diventato conscio. Come si vede questi dati non supportano il primo modello freudiano della pulsione che cerca solo gratificazione. La paziente è diventata consapevole di quel desiderio perché io l’ho accettato, perché io l’ho soddisfatto.

Le credenze patogene
Fino a ora vi ho semplicemente raccontato qualcosa dei primi anni del mio percorso, l’ipotesi che ho sviluppato partendo dagli studi sulle note processuali prese dalle sedute dei pazienti. Non vi ho parlato cioè dei motivi per cui i pazienti originariamente sviluppano questi problemi, ho accennato solo al loro desiderio di padroneggiamento, non del perché avvengono i problemi.
Nel domandarmi perché i pazienti avevano sviluppato questi problemi, sono arrivato quindi alla mia idea delle credenze patogene. Ho ipotizzato che la paziente, Roberta, fosse arrivata al punto di credere di essere una persona che meritava di essere respinta, e che avesse sviluppato questa credenza patogena a causa del comportamento dei genitori che credevano che lei fosse così, quindi mi sono fatto l’idea che le credenze patogene, che sono alla base della psicopatologia, si sviluppano nei primi anni di vita nel rapporto coi genitori.
Queste credenze producono vergogna, colpa, bassa sicurezza di sé, e impediscono di attuare scopi nella vita ragionevolmente positivi. Questa paziente arrivò a credere che lei era inutile, meritevole di essere respinta ecc.
Invece nel caso del paziente di prima, lui è arrivato a credere che doveva essere paralizzato per non essere troppo forte rispetto ai propri genitori in quanto i genitori erano deboli, e se lui fosse stato capace di attuare un piano in modo deciso lui sarebbe stato troppo forte per loro, mentre doveva mantenere la loro autorità. Quest’idea mi ha permesso di riformulare il test della paziente avvocatessa: lei testava non solo me, ma testava anche la credenza stessa, la credenza di dover meritare di essere respinta.

Adesso passo a parlare delle ricerche empiriche che abbiamo fatto basate sull’idea del “pianto a lieto fine”. Abbiamo mostrato che ogniqualvolta un paziente si sente sicuro allora mostra insight. In altre parole, quando si mette il paziente in una condizione di sicurezza allora emerge la consapevolezza, l’insight, il ricordo. Quando i pazienti si sentono sicuri, essi fanno emergere non soltanto sentimenti positivi, ma anche negativi, cioè rabbia ecc. Esprimono, esperiscono le cose in modo più vivido. Abbiamo fatto un esperimento, prendendo due segmenti della terapia ciascuno della durata di un minuto, uno prima e uno dopo l’interpretazione, e i valutatori non conoscevano qual era il minuto prima e qual era il minuto dopo, e altri valutatori dovevano giudicare se l’interpretazione era stata efficace. Abbiamo dimostrato che dopo quest’interpretazione il paziente ha più insight, fa progressi, porta nuovi ricordi ecc.
Vi mostro un lucido che mostra le variabili misurate sia per il paziente che per il terapeuta lungo tutta la terapia: il battito cardiaco (cioè il polso), la pressione ematica, la conduttanza cutanea che misura l’ansia, ecc. L’ipotesi è che quando la pelle è più umida c’è più ansia. Per esempio (ne ho parlato brevemente questa mattina nel gruppo ristretto agli studenti della scuola), ho portato la seduta di una paziente di trentadue anni che aveva molti sensi di colpa riguardo al fatto di avere successo e di essere superiore ad altre persone, e che si subordinava a suo marito. Il marito stava seguendo un training post lauream mentre lei era una donna di casa. Anche la madre della paziente non aveva avuto una vita molto soddisfacente, non aveva avuto una carriera. Questa è la dodicesima seduta. La paziente dice in terapia che ha deciso di non andare a una serata di pattinaggio a cui doveva andare col marito perché il marito era troppo bravo a usare gli schettini, e lei non voleva fare brutta figura. Invece era vero il contrario, cioè lei non ci voleva andare perché non voleva oscurare il marito in quanto lei era una brava pattinatrice, e oltre a pattinare bene era anche una donna attraente e simpatica.
Quindi fu fatto l’intervento pro-plan (che, nel nostro linguaggio, significa “intervento consono al piano”, cioè favorevole al piano inconscio). Dopo quell’intervento del terapeuta, questi valori si sono abbassati (per esempio il battito cardiaco si è abbassato), la paziente è stata meglio. Eppure in quel minuto la paziente non aveva accettato l’interpretazione. Non è così importante, ma noi riteniamo che inconsciamente lei l’avesse accettata. Dopo quel minuto dice: «La mia mente adesso sta andando da tutt’altra parte», e le viene in mente la morte della madre avvenuta sei mesi prima, e vuole condividere quanto aveva sofferto. A quel punto il battito cardiaco si è alzato più della media, dopo cinque/dieci minuti dice che ricordava un modo di fare della madre, quello di misurare con un cucchiaino la farina mentre cucinava. Dopo un paio di minuti dice ancora: «Non penso che il pattinare sia così importante, ma di fatto penso che io sia più intelligente di mio marito».

Che tipo di indicazioni cliniche si possono sviluppare da quello che ho detto?
La prima cosa è che il terapeuta deve aiutare il paziente a sentirsi sicuro, a esperimentare una condizione di sicurezza. L’idea è, oggi, quella di trovare un criterio per sapere se il terapeuta è nel giusto binario oppure no. Se il paziente risponde sentendosi più sicuro, se porta nuovo materiale, se fa dei progressi, allora con buona probabilità questo significa che il terapeuta è nel giusto binario, se d’altra parte il paziente è in uno stallo, o diventa ansioso, o più difensivo, è probabile che il terapeuta sia fuori binario, abbia sbagliato qualcosa. Per ora mi fermo.



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