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C.P.A.T. --> HOME PAGE --> N. 29/2000

QUADERNI DI PSICOLOGIA,
ANALISI TRANSAZIONALE
E SCIENZE UMANE

Dal n° 29 - 2000


Aspetti del farsi dell'esperienza clinica:
appunti per una teoria dinamica


Marco Sambin




Riassunto

Viene proposta una teoria dinamica a partire da quattro punti di vista: l'esperienza, l'oggetto, il soggetto, gli strumenti concettuali. L'insieme di punti di vista così ottenuti costituisce un ponte tra una teoria dell'esperienza in generale e i modelli di tipo clinico. Viene inoltre illustrato come alcuni aspetti di Analisi Transazionale implementano le linee teoriche qui esposte.

Abstract

Aspects of the clinical experience in progress: suggestions for a dynamic theory
It is suggested a dynamic theory based on four point of view: experience, object, subject, conceptual instruments. The set of statements here exposed constitutes a bridge between a theory of experience in general and the clinical models. It is shown that some aspects of Transactional Analysis are implementing the theorical features here depicted.



Nel momento in cui un essere umano interviene nel reale, e anche non intervenire è una forma di attività, se ne fa un modello e quindi costituisce, benché embrionale, una teoria.
È un processo ineludibile nelle varie forme di attività umane ivi compresa quella che ci interessa ora: l'intervento psicoterapeutico.
Questo scritto ha il compito di mostrare un possibile modo con cui si può guardare a quell'insieme di conoscenze e di operazioni che stanno alla base del fare dello psicoterapeuta e che a volte non sono messe in evidenza.

Possiamo individuare quattro grandi aree. Parleremo di esperienza, di oggetto, di soggetto e di strumenti concettuali per intervenire nell'esperienza. Invero ognuno di questi punti può costituire ambito di indagine per intere vite di studiosi. Il punto di vista qui presentato ha il difetto di non tener conto esplicitamente delle intere vite di studiosi e il vantaggio di essere più concettualmente maneggevole e quindi di preservare energia per tenersi in collegamento con gli aspetti operativi.


1. Esperienza

1.1 Introduciamo una prima affermazione generale: esperienza è tutto ciò che avviene
Wittgenstein (una citazione dovuta nonché una vecchia frequentazione) apre il suo Tractatus logico-philosophicus affermando: il mondo è tutto ciò che accade (Wittgenstein, 1922). Preferisco usare il termine esperienza per cercare di evitare qui rischi di dualismo che sono annidati persino in una concezione antimetafisica come quella del positivista primo-Wittgenstein. Non ho intenzione di filosofeggiare, bensì di usare strumenti concettuali utili per ciò che ci interessa: il mondo della psicoterapia.
Dunque, esperienza è tutto ciò che accade, contiene quindi eventi di ogni ordine e grado: cose, oggetti, pensieri, emozioni, ricordi, il tutto con minore o maggiore grado di consistenza fenomenica, che si presenta cioè in modo solido ben formato sulla scena della nostra vita oppure in maniera vaga non ben definita, appena appena presente.

Come mai una definizione così ampia? Per un preciso motivo. Perché ci interessa vedere come le modalità del formarsi delle cose semplici a noi tutti note, come per esempio il libro che stai tenendo in mano, o la finestra da cui guardi fuori o la matita con cui si scrive, sono le stesse modalità del formarsi di oggetti complessi che sappiamo maneggiare con minore facilità come l'attaccamento che dimostro nei confronti del partner, le liti con i figli, il desiderio di una vita migliore, il senso di quello che sto facendo. Se riusciremo a vedere che le modalità del formarsi dell'esperienza permangono invariate al variare della complessità e del tipo di porzione di esperienza che prendiamo in esame potremmo fare una seconda operazione, esportare nel mondo degli oggetti complessi ciò che sappiamo di quello degli oggetti semplici.
Se non riusciremo e quindi non raggiungeremo il contenuto di ciò che ci stiamo prefiggendo, il nostro cammino ha egualmente un senso: nel processo avremo messo sotto esame pezzi di esperienza che diamo per scontati. Il bello del viaggio sta nel viaggiare.

1.2 Possiamo introdurre una seconda convenzione: chiamiamo oggetto una porzione qualsiasi di esperienza
Questa affermazione ci conduce a prendere in esame alcuni stereotipi, calcificazioni di ordine linguistico. Nella nostra cultura è facile scambiare il termine oggetto con il termine cosa e quindi ritenere che sono oggetti solo quelli che hanno le caratteristiche possedute dalle cose.
In realtà la nostra esperienza, per fortuna, è popolata di molti oggetti che non sono cose. Ne è un esempio colto l'uso del termine oggetto in quella branca psicodinamica detta “relazioni oggettuali”, ove oggetto non è certamente una cosa.
Ma cos'è una cosa? Possiamo individuare due fondamentali qualità che sono comuni alle cose.
Le cose sono materiali ed esterne rispetto all'Io. Una penna è una cosa, un ricordo no. Un ricordo è un oggetto, appunto, una porzione di esperienza.
Quindi possiamo incontrare (incontrare nel senso fenomenologico, cioè esperire con solidità; vedi Metzger, 1971, capitolo I) oggetti che sono interni e non materiali: l'amore per l'amata, la noia per il pomeriggio vuoto di una domenica, il desiderio di vicinanza, il ricordo di un'espressione familiare.
Non ci è molto naturale, viste la nostra formazione e la tradizione da cui provenivamo, riferirci a porzioni di esperienza interna e non materiale intendendoli come oggetti. Ci è più facile adottare la superficiale equazione: solo ciò che è esterno, toccabile, visibile, a contatto con i nostri sensi ha dignità di essere chiamato oggetto. E con questo termine compiamo un'altra indebita equazione: quella di associare al termine oggetto misura di esistenza per sé, di oggettività appunto, come se fosse indipendente da altre possibili condizioni; e di solito facciamo coincidere queste condizioni con le aleatorietà generate dal soggetto, fonte della soggettività appunto.
Certo è più facile definire una matita, che il senso di nostalgia per i sapori dell'infanzia; ma non è questo che rende la prima più oggetto del secondo.

Proviamo a vedere la questione non dal punto di vista della definizione, ma degli effetti funzionali.
Che sul mio tavolo ci sia o no una matita non ha grandi conseguenze sul piano della mia esistenza; che non riesca a liberarmi del senso di nostalgia per i sapori dell'infanzia può avere un peso ben diverso per me: mi costringe a fantasticare su quali erano le componenti che caratterizzavano quel tal risultato finale così desiderato, a pensare in che modo ripetere quelle condizioni, ad agire di conseguenza dedicandovi tempo e attenzione.
Gli effetti della matita risultano insignificanti rispetto alla quantità di energia messa in moto dal semplice senso di nostalgia per i sapori dell'infanzia. Il senso di nostalgia per i sapori dell'infanzia oltretutto è una porzione di esperienza descritta, almeno nella nostra lingua, da una perifrasi, non c'è nemmeno un termine appropriato e sintetico per indicarla, eppure è un oggetto con effetti funzionali ben superiori a quelli trascurabili di una matita.
E noi viviamo più in un mondo di desideri, di nostalgie, di affetti e di valori, oppure di matite e di gomme da cancellare?
Ci è più facile pensare alle cose perché abbiamo un linguaggio reificante, e abbiamo un linguaggio reificante perché alle nostre spalle c'è un pensiero che ha la tendenza a privilegiare la separazione, il dualismo, la distinzione tra res cogitans e res extensa. Tutte straordinarie conquiste della nostra mente, confermate dai successi tecnologici e dalla abbondanza materiale (in senso economico e in senso di problema di eliminazione delle cose che non interessano più), le quali però dimenticano il processo da cui provengono: la cosa, la res extensa, il dato esterno è solo uno dei possibili insiemi di oggetti e per di più è un insieme di oggetti che può esserci solo se ci sono anche gli altri: gli oggetti non-cose. Ma ciò sarà chiaro tra un po'.

A questo punto probabilmente siamo più disposti ad accettare l'idea che porzioni di esperienza possano essere divenute oggetti, però rimane qualcosa in sospeso: gli oggetti, le porzioni di esperienza possono variare ampiamente rispetto alla consistenza con cui appaiono.
Le cose in genere sono solide, ben presenti, fenomenicamente incontrate, gli oggetti come porzioni di esperienza oltre che consistenti come le cose possono anche comparire con molto meno vigore. Una fugace impressione, la sensazione di leggero fastidio, l'incertezza serpeggiante sul da farsi sono oggetti molto meno consistenti dell'odio verso di te perché sei diverso, l'amore parentale, l'esplicita invidia per i tuoi successi. L'interessante a questo punto è osservare come anche le cose che sembrano così solide in realtà sono solo un insieme indebitamente privilegiato. Le cose hanno la qualità di essere esterne e materiali, possiamo cioè trovare fuori di noi delle condizioni particolari che riusciamo a descrivere in termini fisicalisti (Metzger direbbe più correttamente «metaempirici») e che riteniamo concomitanti se non generanti la cosa che stiamo percependo. Bene, ci sono condizioni esterne e materiali che non sono in grado di generare cose. Difficilmente nel linguaggio comune diciamo che il fumo della sigaretta, le nuvole, un fulmine, una bruciatura sono delle cose. Eppure ciascuno di questi pezzi di esperienza è esterno e materiale e oltretutto oggetto di serie indagini da un punto di vista metaempirico (scienza).
Le qualità quindi di ciò che andiamo percependo del mondo come ci appare nei suoi vari oggetti, cose e non cose, non dipendono da condizioni descrivibili materialmente ma da altri principi. Li vedremo tra breve, ora prendiamo un'altra direzione.
I pensieri finora espressi hanno avuto come esemplificazione porzioni di esperienza tratte dal quotidiano, oggetti relativamente semplici come la matita, le nuvole o la sensazione di felicità quando finalmente ti incontro. Cosa succede se le idee finora espresse le osserviamo con un'angolazione di tipo clinico?

Riprendiamo alcune frasi in questa nuova ottica.
All'inizio di questo paragrafo abbiamo affermato che l'esperienza è tutto ciò che avviene, ora se come clinico sono interessato al formarsi dell'esperienza del mio interlocutore e mia, la logica conseguenza è che tutto ciò che avviene ha senso clinico.
Detto così suona meno ovvio di quanto di solito ci viene ammannito dai nostri maestri.
Diviene quindi oggetto di osservazione clinica quello che tu sei, fai, senti, dici, pensi; quello che io faccio, sento, dico, penso, sono; quello che noi insieme diciamo, facciamo, sentiamo, pensiamo, siamo. La circoscrizione a un ambito temporale (setting) o a uno concettuale (modello teorico e tecnico di appartenenza) sono utili strumenti che rimangono utili se rimangono strumenti. Se sono interessato al formarsi della tua esperienza, agli oggetti che costituiscono il tuo mondo preferisco non essere limitato da confini determinati in un luogo (teorico, di tradizione, di consuetudine) che è estraneo al farsi dell'esperienza tra me e te. Il limite cessa di essere protettivo quando non è in sintonia con ciò che sta succedendo tra noi e d'altra parte proprio perché limite può essere la condizione necessaria al formarsi di ciò che sta avvenendo tra te e me.
Quindi in clinica adotterò lo stesso atteggiamento indicato da Metzger a proposito del dato fenomenologico (Metzger, 1971): «Accettare semplicemente il “dato immediato” così come esso è; anche se appare come non abituale, inatteso, illogico o insensato e anche se contraddice a convinzioni indiscusse o ad abitudini di pensiero molto familiari. Lasciar parlare le cose stesse, senza lasciarsi fuorviare da quanto ci è noto o abbiamo appreso, dallo “ovvio”, dal sapere implicito, dalle esigenze della logica, dagli stereotipi linguistici o dalla povertà del nostro vocabolario. Accostarci alla natura con rispetto e amore e riservare semmai il dubbio e la diffidenza verso le premesse e i concetti con i quali si è tentato tradizionalmente di comprendere il mondo dei dati».

Anche la seconda affermazione «chiamiamo oggetto una porzione qualsiasi di esperienza» può essere riformulata in senso clinico e affermare che possiamo considerare oggetto clinico una porzione qualsiasi di esperienza.
Detto così è un po' generico e già affermato più sopra. Però vediamone le conseguenze.
A proposito degli oggetti non clinici avevamo visto come la consistenza dell'oggetto non dipende da condizioni materiali e che la conseguenza è che l'oggetto si forma secondo leggi proprie dell'esperienza del soggetto e non secondo canoni di ordine esterno. Tradotto in termini clinici ci dice che la solidità, il grado di consistenza dell'oggetto clinico non sono legati necessariamente a condizioni di tipo esterno. Il mio stato interno (più o meno solido e consistente che sia) non è generato da qualcosa che è fuori, può essere a esso legato, avere fattori facilitanti in condizioni esterne, però non ne è determinato. (Un approfondimento di queste affermazioni si trova in Bozzi, 1989; altre conclusioni in Sambin, 1994).

Da ciò la conseguenza che il passato è solo uno dei fattori che concorrono al mio presente ma non ne è il determinante. Un'indagine “archeologica” (Musatti, 1949, 1976) se intesa come un modo di attribuire valore causale a eventi del passato, è fuorviante perché attribuisce a un altrove ciò che invece è sotto gli occhi. Non è importante tanto che tua mamma ti picchiasse da piccolo (certo, nell'ipotesi che sia avvenuto possiamo pensare che se non lo avesse fatto forse, forse, sarebbe stato meglio) quanto il fatto che tu adesso dici che da piccolo la mamma ti picchiava e che cosa succede adesso tra me e te quando tu mi racconti queste cose, quale è il modo di organizzarsi della nostra esperienza, quali oggetti si stanno formando. È a partire da quanto avviene ora sul piano dell'esperienza che si forma l'oggetto, che abbia o no corrispondenza con eventi più o meno storicamente determinabili. È proprio vero che tua mamma ti picchiava? E se lo faceva come lo faceva? In che momenti, in che contesto, con che toni, con che parole? E poi cosa succedeva? E tu cosa sentivi? Cosa pensavi? Che opinioni ti sei costituito a partire da questi eventi? La risposta a queste possibili domande varia nel tempo al variare dei modi con cui ti stai costruendo l'esperienza, cioè al variare della tua vita. (Per gli analisti transazionali può essere interessante riferirsi al copione e agli attuali dibattiti sul suo significato; vedi tra gli altri Cornell, 1988).
Perciò se proprio di archeologia dovessimo parlare sarebbe una archeologia del presente. Una contraddizione in termini che però ci mette sull'avviso della forte influenza del presente sul passato.
Ha senso fare dell'archeologia perché ci sono porzioni del passato che mi porto ora nella mia esperienza, non ha senso farlo in modo positivista, notarile, indiziario, perché non interessano i fatti esterni. I fatti esterni, quelli che interessano a un occhio indagatore ed estraneo, sono solo delle larve degli accadimenti interni a essi connessi.

Anche in ambito clinico, così come in quello dell'esperienza più in generale (ma ha poi senso questa distinzione?), avremo degli oggetti aventi diversi gradi di consistenza, di solidità, di modo ben formato con cui si presentano. Un esempio: è perché la mamma ti picchiava da piccolo che ora hai paura a venirmi vicino. È una modalità di formare oggetti che possiamo osservare abbastanza frequentemente; qui è descritta in termini molto semplici.
L'understatement cerca di contrastare descrizioni sovradeterminate che troppo spesso si trovano in letteratura (si veda il gustoso esempio riportato da Lai in Conversazione felice, 1985).
Questo oggetto “hai paura a venirmi vicino” (è evidente che vicino va coniugato nel senso di prossimità esperienziale e non semplicemente spaziale) può avere gradi di consistenza diversi. Agli inizi probabilmente non è nemmeno presente, o meglio non così presente come lo sta diventando ora nella nostra storia. Poi a te viene un'intuizione, io ricordo qualcos'altro, tu fai una connessione e io ti ascolto (cognitivamente ed emotivamente). L'oggetto si viene formando e potrà diventare (o non potrà, ma anche se non può sto formando un oggetto) un qualcosa di più pregnante sul piano della nostra esperienza. Se arriveremo a renderlo un oggetto solido, una porzione di esperienza che puoi maneggiare ti sarà più facile decidere cosa fare: mettere da parte la paura, decidere se vuoi venirmi vicino, rivederti con tua mamma. Sono vari modi in cui si può ristrutturare l'esperienza (Lewin per queste situazioni ha adottato un linguaggio dinamico introducendo il concetto di campo e delle sue ristrutturazioni, 1955). È una questione di economia. Tenere in piedi un'esperienza non pregnante richiede un dispiego di energie (in linguaggio psicoanalitico: investimento; Weiss, 1991) ben maggiore di quello necessario a possedere un oggetto ben formato. La soluzione per insight (Wertheimer, 1959) è molto più economica perché è una forma pregnante.
I modi con cui si forma il reale sono abbastanza ben descritti dai principi di unificazione dei gestaltisti (Wertheimer, 1923), e possono essere estesi anche a oggetti di ordine più complesso quali l'Io e il suo ambiente (Koffka, 1935).


2. Oggetto

Quanto ci siamo detti finora a proposito dell'oggetto aveva lo scopo di avvicinarci a un modo di guardare all'esperienza. Ora, date le indicazioni di base, possiamo esporre più sistematicamente altre osservazioni.
Abbiamo già visto come l'oggetto non sia legato alle condizioni materiali che gli sono concomitanti.
Possiamo infatti osservare tre categorie di situazioni. C'è un primo tipo di situazioni in cui la presenza di cause esterne non è accompagnata da risultati sul piano fenomenico. Un esempio di questo tipo è dato dalle situazioni di mascheramento. La mantide religiosa che si atteggia a foglia per ingannare la preda, riuscendoci, è una condizione in cui una presenza sul piano materiale non è accompagnata da corrispettivo risultato sul piano fenomenico: l'apparato del malcapitato insetto non “vede” (ma anche noi non vediamo) qualcosa che c'è.
Un secondo tipo di situazioni è caratterizzato da un quadro opposto: sul piano delle condizioni esterne non c'è alcuna presenza mentre sul piano fenomenico osserviamo un risultato. Un esempio del genere è dato dalle figure anomale (Kanizsa, 1974; oppure, per un modello dinamico: Sambin, 1987) in cui si vede una figura dove non c'è stimolazione che la generi.
Infine un terzo tipo di situazioni è dato dalle illusioni ottico-geometriche. La stimolazione ha una sua configurazione che è diversa dalla configurazione mostrata dal risultato. Tutti noi conosciamo le figure delle illusioni ottico-geometriche in cui parallelismi geometrici non appaiono come tali, eguaglianze di grandezze vengono viste come disuguaglianze, chiarezze compaiono diversamente dai parametri fisici che le descrivono.

Questi tre tipi di situazione presi nella loro globalità ci dicono che le condizioni sul piano materiale non vanno in parallelo ai risultati che a esse si accompagnano. Possiamo chiamare “realismo ingenuo” quella posizione, qui smentita, che attribuisce parallelismo tra i due ordini di eventi materiale (metaempirico) e fenomenico (empirico).
Traduciamo ora queste affermazioni in ambito clinico. Avremo tre tipi fondamentali di situazioni.

1) Nella prima, come abbiamo visto, accade qualcosa sul piano esterno che però non viene registrato sul piano dell'esperienza del soggetto. Si tratta di tutte quelle forme di scotomizzazione che, con diverse intensità e modalità, mirano a negare un evento. L'operazione difensiva è quella del “lascio fuori”: rimuovo, nego, se usiamo termini psicoanalitici; in termini di Analisi Transazionale può essere riscontrata in una modalità di comunicazione caratterizzata dalle spinte “sii forte”, “sbrigati” e le connesse possibili ingiunzioni.

2) Nella seconda avviene il contrario, costituisco una porzione di realtà che non c'è, che non ha fondamento in ciò che provo direttamente: allucino. L'operazione difensiva descritta in termini psicoanalitici avviene attraverso il “mettere dentro”: identificazione, introiezione; secondo l'Analisi Transazionale può essere indicata da una spinta a compiacere e da una ingiunzione a non essere se stesso.

3) Nella terza le condizioni esterne originano risultati che non corrispondono: distorco. L'operazione difensiva è quella del “cambiare il reale”: razionalizzo, intellettualizzo, regredisco, sposto. In Analisi Transazionale possono essere molte le configurazioni di spinte e ingiunzioni che portano a una distorsione del reale.

L'aspetto interessante è il sostanziale parallelismo. Quello cioè che accomuna la costruzione degli oggetti del quotidiano agli oggetti che ritroviamo nell'ambito clinico: sul piano dell'esperienza si vengono cristallizzando condizioni (che chiameremo oggetti e saranno più o meno consistenti quanto più elevato è il grado di cristallizzazione) secondo processi che sono connessi, ma non in maniera causale, a condizioni esterne. E ciò avviene sia nel momento in cui guardo la matita sul tavolo che quando finalmente capisco che “ce l'ho con le donne” perché mia madre mi maltrattava da piccolo.

Possiamo fare un passo avanti e sancire linguisticamente l'indipendenza dell'oggetto dalle condizioni metaempiriche. Potremo dire (Kohler, 1947) che l'oggetto è geneticamente soggettivo. Con il termine geneticamente soggettivo si intende che è il soggetto il luogo di origine dell'oggetto e non le condizioni metaempiriche. Una posizione opposta a quella sostenuta dal realismo ingenuo.
Geneticamente soggettivo non ha nulla a che fare con aleatorio, casuale, imprevedibile. Se tu e io in questo momento stiamo guardando una matita gialla e tu mi dici che vedi un elefantino rosa l'unica ipotesi che mi posso formulare è che stai mentendo (e le ragioni non ci sono per ora note), non posso invocare il formarsi “geneticamente soggettivo” per rispondere di una stranezza simile. L'oggetto si genera sul piano dell'esperienza di un soggetto secondo modalità grandemente intersoggettive e descrivibili nel loro versante fenomenologico dalle già citate leggi di unificazione di Wertheimer. Gran parte della nostra esperienza è condivisibile, ben poco è soggettivo nel senso personale, idiosincratico, non comunicabile. Oltretutto per poter individuare una porzione idiosincratica di realtà occorre far riferimento ad aspetti comuni, condivisi con altri soggetti e questa porzione di esperienza è molto consistente.
Come vedremo, questa intersoggettività non è rintracciabile sul piano metaempirico (le condizioni esterne, materiali) ma si realizza nelle modalità di farsi dell'esperienza che percorrono trasversalmente i soggetti, spesso indipendentemente dalla loro storia.

Queste osservazioni si traducono direttamente in alcuni aspetti clinici. Le posizioni di tipo realismo ingenuo, quelle cioè che attribuiscono la formazione dell'oggetto a condizioni esterne, tradiscono un fatto fondamentale: anche l'oggetto clinico è geneticamente soggettivo. Tutte le forme di organicismo, o riduzionismo, sono delle sconfitte per chi desidera osservare il reale nel suo complesso. Ciò che avviene nella relazione è solo infinitesimamente riconducibile a condizioni esterne, più o meno come ciò che percepiamo non muta al variare del colore degli occhi di chi sta percependo. Semmai vale la direzione opposta, è a partire da ciò che costituisco sul piano dell'esperienza che il reale prende forma. Per esempio un'inibizione intellettiva non è generata da un deficit di base che si ripercuote sulle capacità della persona, è piuttosto un modo di fare esperienza che si riflette all'esterno in una scarsa prestazione intellettiva. La faccenda è radicalmente diversa: non esiste una disfunzione rispetto alla norma (oltretutto non sappiamo ancora come e dove venga sancita questa norma), ma un funzionamento che risulta disfunzionale. Quindi, se vuoi cambiare, non puoi andare a procurarti altrove quella sostanza fisica, chimica, cerebrale o altro che ti manca, non c'è un luogo esterno che possiede ciò che non c'è in te (deficit); il cambiamento non è una donazione, un trasferimento; piuttosto è a partire da come si organizza la tua esperienza che può avvenire il cambiamento; si tratta di una ristrutturazione del campo, più o meno repentina, che nel linguaggio corrente chiamiamo apprendimento.

Un passo ulteriore. Se le cose stanno come ce le siamo dipinte finora si può fare un'affermazione più azzardata: l'oggetto esiste solo se è presente sul piano dell'esperienza di almeno un soggetto. In altri termini, il mondo per esserci deve essere esperito da almeno un apparato percettivo.
Sembra che ciò contrasti con le nostre consuete esperienze in cui un mondo sembra esistere lì fuori indipendentemente da me e dalla mia esperienza.
È difficile dimostrare la dipendenza del mondo dall'esperienza che ne facciamo, ci sembra più ragionevole per aspetti complessi quali quelli di ordine culturale: io sento Vivaldi diversamente da te, noi occidentali non abbiamo una visione energetica dell'anatomia, i boscimani non sanno che cosa sono gli atomi; modi diversi di farsi oggetti di ordine culturale e quindi di avere mondi diversi. Più difficile accettare che la dipendenza dal soggetto avvenga anche per oggetti materiali.
Per poterlo fare dovremmo uscire dalla nostra esperienza allo scopo di verificare la dipendenza dell'oggetto metaempirico dalle condizioni presenti sul piano fenomenico (= la nostra esperienza). Per esempio ipotizziamo che l'esistenza della matita gialla posta sul tavolo di questa stanza dipenda dal suo comparire sul piano dell'esperienza di Marco. Marco la vede quindi c'è. Marco ora se ne va e scompare nell'ipotetico nulla (anche se il nulla da un punto di vista fenomenico non esiste). Entra nella stanza Anna che, indaffarata in altre cose, ha ben altro a cui badare e non vede la matita gialla. La matita esiste o no?

Secondo l'assunto che cerchiamo di dimostrare la matita non esiste. Infatti se andiamo a osservare cosa avviene sul piano dell'esperienza di Anna non troviamo alcun accadimento che registri la presenza della matita. Anna dichiara che non ci sono matite, ed è nel vero. Marco è nel nulla e non possiamo osservarlo. Stanti così le cose, la matita non c'è.
Perché ci sembra assurdo? Per un motivo molto semplice che deriva proprio da ciò che vogliamo dimostrare.
Se osserviamo gli apparati percettivi denominati Marco e Anna non abbiamo presenze di matite rispettivamente per irreperibilità dell'apparato o per assenza del fenomeno. Però non ci sono solo quegli apparati. Ci siamo almeno io che scrivo e tu che leggi che sappiamo che sul tavolo di quella stanza c'è una matita gialla. “Sappiamo della matita gialla” è una descrizione linguistica di un accadimento che è avvenuto in qualche apparato percettivo, il mio e il tuo. È questo accadimento che genera la matita, nient'altro. Ed è proprio quello che volevamo dimostrare: la dipendenza dell'oggetto dal soggetto. Tutto qui. Il giro logico è proprio quello ora indicato. In un altro scritto (Sambin, 1994) ho esposto gli stessi passi attraverso un cammino più lungo, raccontando più storia, soffermandomi in varie osservazioni, probabilmente ottenendo risultati più convincenti. Questa meta-osservazione conferma ulteriormente il nostro assunto. È solo quando avviene un movimento sul piano fenomenico che compare l'oggetto. Nel nostro caso non sono i passaggi logici che rendono l'altro convinto, ma piuttosto è il riuscire a far accadere qualcosa sul piano della sua esperienza. E ciò richiede altre condizioni quali il tempo, la ripetizione, il dettaglio, la formazione di immagini, l'uso di esempi, il tono emotivo del parlante.


3. Soggetto

Rivolgiamoci ora al soggetto partendo con un'affermazione parallela: il soggetto dipende dall'oggetto (nel senso che non c'è soggetto se non c'è oggetto).
È l'esatto converso della affermazione che attribuiva l'esistenza dell'oggetto alla presenza nel piano fenomenico del soggetto. Le due affermazioni che indicano la dipendenza dell'oggetto sono due punti di vista che denotano un unico fatto: l'intensa interazione dinamica da un lato tra quelle cristallizzazioni energetiche (porzioni di esperienza) che alla fine vengono chiamate “oggetti” e dall'altro quelle altre cristallizzazioni energetiche (anch'esse porzioni di esperienza) che alla fine decidiamo di chiamare “soggetti”.
Qui osserviamo il fenomeno dalla parte del soggetto.
Per capire l'importanza degli oggetti ai fini della consistenza, e perfino dell'esistenza del soggetto, facciamo degli esperimenti mentali. Proviamo a toccare gli oggetti e vediamo quali sono le conseguenze mentali per i soggetti, se ci accorgeremo che mutamenti sul piano degli oggetti (variabile manipolata) hanno conseguenze per il soggetto (variabile osservata) abbiamo buoni motivi per pensare che la loro interdipendenza sia marcata.

Esperimenti riconducibili a questa struttura sono stati fatti in più campi.
Consideriamo le situazioni di deprivazione sensoriale: mediante opportuni accorgimenti sperimentali (uniformità del campo visivo, acustico, cenestesico) si fa in modo che non avvengano, o siano ridotti al minimo, quegli scambi di energia esterno-interno che gli studiosi chiamano stimolazioni. In assenza, o quasi assenza, di stimolazioni il soggetto introduce comportamenti anomali (allucinazioni) che a volte fanno interrompere gli esperimenti per motivi etici. Ne possiamo inferire che un “nutrimento” non appropriato sul piano della stimolazione è in grado di intaccare l'integrità del soggetto, o almeno un suo buon funzionamento.
Senza ricorrere ai laboratori scientifici, i carcerieri conoscono bene gli effetti destrutturanti dell'isolamento.
E fin qui abbiamo accennato a oggetti non particolarmente complessi quali il poter vedere, sentire, toccare qualcosa. Immaginiamo ora che il nostro esperimento si faccia più crudele e che sottragga al soggetto un oggetto caro che fa parte integrante della sua esistenza: un affetto (figlio, partner, genitore). Spesso la vita si incarica di condurre siffatti esperimenti. Ebbene, ci sono condizioni in cui la sottrazione di un oggetto così significativo è talmente devastante per l'interscambio interno-esterno che il soggetto non riesce a ricostruire la lacuna, rimane mutilato, in linguaggio psicodinamico: non rielabora il lutto. Eppure gli è stato sottratto solo un oggetto, significativo, ma solo quello.

Ora, continuando nei nostri esperimenti mentali, immaginiamo di sottrarglieli tutti, che ne sarà del nostro soggetto? È una situazione nemmeno pensabile.
Appunto che si tratti di una situazione non pensabile ci dice che connaturata alla presenza di un soggetto è quella di oggetti che a lui si riferiscono. Proprio come nel fenomeno figura-sfondo (Rubin, 1921; Koffka, 1935) non si dà figura se non c'è sfondo, allo stesso modo il soggetto può costituirsi come figura (porzione pregnante di esperienza) solo sullo sfondo di oggetti. L'Io si forma a partire da un sistema di riferimento rispetto al quale potersi differenziare (vedi per esempio le fasi di individuazione-separazione della Mahler in campo clinico, o la relazione Io-ambiente di Koffka in campo di psicologia sperimentale o i processi di assimilazione e accomodamento di Piaget da un punto di vista evolutivo).
Il soggetto quindi non è nient'altro che un oggetto, più complesso, con una storia più articolata, ma un oggetto. E ciò vale sia per te che mi esperisci (vedi, senti, tocchi) sia per me che mi esperisco (vedo, sento, tocco). Io per me sono un oggetto, forse l'oggetto con cui ho più dimestichezza (ma non è detto), certo l'oggetto che mi porto continuamente dietro e rispetto al quale si viene formando il mondo esterno, ma anche interno. È un oggetto così denso di esperienza per me che finisco per chiamarlo soggetto, io, persona, sé. Tutte etichette che coronano un addensarsi di energie, appunto un soggetto.

Il privilegio che l'oggetto “Io” gode nei miei confronti è meramente temporale, non ontologico. Io sono abituato da più di cinquant'anni a convivere con quell'insieme di esperienze che annovero nella casella “Marco”, ed è stata una storia non sempre facile. Alcune di queste esperienze non sapevo se situarle dentro o fuori, se erano mie o dell'altro; nella casella Marco alcune non le volevo, altre le ho cercate con grande impegno. Tutto ciò alla fine è stato inglobato, variamente gerarchizzato, in quell'insieme di energie che io e te possiamo osservare ed etichettare con il nome che porto da quando sono nato. Ma non ho privilegi particolari nell'osservare questo oggetto se non quello di esserci a contatto più degli altri.
Questo addensarsi di energie che tu e io possiamo osservare (e non è escluso che tu possa osservarlo meglio di quanto io non sia in grado di fare) è una zona dell'esperienza delimitata da un confine, appunto il confine dell'Io (vedi Federn, 1953; Weiss, 1991, in campo psicodinamico; Metzger, 1941, in ambito di psicologia generale).
A creare questo confine è l'investimento, cioè l'estendersi dell'energia, il suo occupare una zona dell'esperienza piuttosto che un'altra. Le vicissitudini degli investimenti sono la nostra storia nel suo formarsi perché l'Io è i suoi investimenti, cioè i suoi confini, ciò che tiene e ciò che lascia. Stato dell'Io, mutabilità degli stati dell'Io, tipi di confine, modalità di passaggio da uno stato all'altro, viaggio nell'Io, tutte queste sono metafore per indicare come il soggetto, al pari dell'oggetto, non è nient'altro che un cristallizzarsi di energie, l'emergere di una forma rispetto a un campo. Le qualità fenomeniche che ci fanno dire questo è un oggetto oppure questo è un soggetto sono l'epifenomeno, linguisticamente sancito, che indica appunto una condizione di particolare distribuzione energetica.

3.1 Conseguenze

Le conseguenze che si possono trarre sono molte, qui ne accenniamo solo alcune. Innanzitutto sul piano evolutivo. Se il soggetto è un oggetto che si viene formando, allora una teoria evolutiva deve essere una storia dei progressivi modi di accumulazione ma anche di disaccumulazione (Massironi, 1998) di energia qualunque sia la metafora che utilizza: stadiale, per fasi, sequenziale o gerarchizzata, semplice o per linee complesse; che riguardi aspetti percettivi, cognitivi, affettivi, di socializzazione o più generalmente psicodinamici. Non solo, poiché non smettiamo di accumulare esperienza, una buona teoria evolutiva cessa di dire qualcosa dell'individuo non a una determinata fase temporale, adolescenza più o meno protratta, gioventù, maturità, prima seconda terza vecchiaia, ma con quell'atto finale di raccolta di energie che è la chiusura della propria vita: la morte come esperienza tra le esperienze, l'ultima, il modo di dar senso a una sequenza di altri momenti. Non un evento a sé che incombe, ma la conseguenza delle condizioni precedenti e quindi come tale oggetto di possibile teorizzazione (copione di vita).
Altre conseguenze le possiamo trarre sul piano clinico. Se il soggetto è l'addensarsi gerarchizzato di oggetti (Federn lo chiamerebbe il senso dell'Io) una teoria psicodinamica deve essere in grado, qualunque tipo di metafore o di linguaggio usi, di fornire indicazioni sui modi con cui l'oggetto chiamato soggetto si va attualmente formando (mondo interno e realtà esterna per usare Kernberg) e come mantiene il suo metabolismo energetico (investimenti, disinvestimenti, difese, attaccamento).
Non solo, dovrebbe anche fornirci indicazioni precise sulla connessione tra versante psichico e somatico. Con questi due termini la nostra civiltà dicotomica rende falsamente duale un processo che originariamente è unitario. Il riversarsi su un versante somatico piuttosto che su quello psichico (nell'ipotesi che abbia senso questa distinzione) è solo un evento sintomatico di un sottostante processo di formazione dell'oggetto. Perciò una buona teoria dinamica non riconduce una modalità a un'altra (lo psichico al somatico, piuttosto che viceversa) ma, almeno nei suoi fondamenti, è in grado di render conto di tutti e due, perché unico è il processo con cui si viene costruendo l'esperienza che sfocia in risultati descrivibili materialmente o meno.
Infine una conseguenza generale. Se al formarsi dell'Io (soggetto) concorrono investimenti che inglobano cristallizzazioni di energia (oggetti) sarà significativo il modo con cui questi oggetti si presentano all'Io: dovranno cioè permettere quel progressivo stratificarsi di esperienze che chiamiamo a seconda dei punti di vista, apprendimento, crescita, introiezione, costanza dell'oggetto, autonomia (se mai ce n'è una). Quindi non è sufficiente una figura parentale (mente forte) perché si formi il soggetto nella relazione oggettuale. È solo uno dei terreni indispensabili per creare le condizioni necessarie al lungo processo di formazione del soggetto. Per ritornare al linguaggio che abbiamo introdotto a proposito dell'oggetto: non sono le condizioni materiali, le cose, l'esterno che esauriscono il formarsi dell'oggetto; non è la presenza di un adulto femmina o maschio che permette la formazione del soggetto, ma è lo scambio di esperienze con una “madre” e un “padre” (e naturalmente, nel tempo, con altre figure) che catalizza il complesso insieme di energie che ognuno di noi è, o sta diventando.


4. Strumenti concettuali

4.1 Criteri di consistenza dell'esperienza

In questo quadro può sembrare che gli oggetti perdano la loro oggettività; cioè che nella interdipendenza soggetto-oggetto non si verifichino le condizioni necessarie perché l'oggetto abbia un criterio definito che ne stabilisca appunto l'oggettività, l'invarianza, l'indipendenza da fattori esterni soprattutto dal soggetto fonte ipotetica di aleatorietà, assenza di stabilità, dipendenza dal particolare, appunto soggettivo.
Nel modello finora esposto non ci sono criteri esterni che fondino l'oggetto, tutto si realizza e si chiude sul piano dell'esperienza e poiché non si presuppongono luoghi o entità al di fuori dell'esperienza i criteri di oggettività dell'oggetto vanno ricercati nel processo di interazione con il soggetto. È andato perso quell'autoinganno rassicurante mediante il quale pensiamo di rendere esterne all'esperienza alcune porzioni di esperienza che poi usiamo come sicuri criteri per definire la solidità di altre. Nel nostro campo per esempio una diagnosi psichiatrica (come quella del DSM IV) è un tentativo di oggettivare un pezzo di realtà dinamico sulla base di presunti criteri oggettivi, che però anch'essi hanno una storia e quindi affondano le radici in fatti (tant'è vero che siamo alla quarta edizione del DSM, e chissà quante saranno quelle a venire; se ci fosse un criterio “oggettivo” non sarebbero necessari questi continui cambiamenti).
La stessa struttura con analoga rassicurazione illusoria avviene anche nelle forme di scienza dura (teorie forti).

Torniamo ai possibili criteri che sorgono dall'interazione soggetto-oggetto.

1) Il primo è quello di prestare fiducia al dato (Metzger, cap. I, 1971). Prima di ogni teoria vengono i dati dell'esperienza. In un'illusione di Muller Lyer so che i due tratti orizzontali sono di uguale lunghezza, ma vedo che sono di lunghezza diversa. Che io li veda di lunghezza diversa è un dato dell'esperienza, che io sappia che sono geometricamente uguali è un altro dato dell'esperienza. Come tali ambedue hanno cittadinanza. La teoria che spiega questi due livelli è più complessa e creativa di quella che ne squalifica uno perché in contrasto con l'altro.
Se continuo a litigare con mia moglie, sarà bene che mi separi nonostante i dettami della fede a cui credo. Il disaccordo è un dato, l'indissolubilità del matrimonio una teoria per dare una certa forma al mondo. A volte la forma è buona, a volte no. Sono i dati che ce lo dicono, non le teorie.
Quindi la base, il criterio fondamentale, è la valorizzazione del dato ove dato è tutto ciò che compare. Ciò che vedo, sento, esperisco, e come vedo, sento, esperisco. Se esperisco con dubbio, non c'è pronta la mamma (teoria, criterio esterno) che mi tranquillizza dicendomi come veramente è fatto il mondo: vuol dire che il dato è con dubbio perché così mi si presenta, e non c'è mamma (teoria) che tenga.

2) Un secondo criterio serve per consolidare ciò che sfugge al primo. Il primo criterio dice: guarda i fatti, nel compiere questa operazione puoi ritenerti soddisfatto se l'esperienza appare ben formata (= oggetti solidi) altrimenti rimani “con dubbio”. In questo caso, con la semplice osservazione non si riesce a definire l'oggetto.
Allora si può adottare un'osservazione più complessa: saggiare l'invarianza del dato. Introduco cioè punti di vista diversi per verificare l'oggetto che ho davanti.
Per esempio sposto la testa per verificare se quella macchia non è invece un'ombra, oppure aspetto un po' di tempo per vedere se è vera la prima impressione, non mi separo subito da te ma verifico in più situazioni se non riusciamo ad andare d'accordo. Tutte queste sono possibili operazioni con cui saggiare un oggetto, semplice come una macchia-ombra o complesso come un vivere assieme, per verificarne la consistenza. Se il reale si presenta con dubbio (forma non ben formata, assenza di pregnanza) metto in atto le possibili operazioni per ottenere una forma migliore.
Le operazioni indicate in questo secondo criterio sono quelle di variare l'interazione oggetto-soggetto. Ciò può avvenire per reciproco spostamento spaziale o temporale, per ricorso a modalità sensoriali diverse (udire piuttosto che toccare o vedere, provare affetto piuttosto che sensazioni che aspetti cognitivi), per semplificazione (in genere restringimento) o per complessizzazione (in genere allargamento) del campo di interazione.
È curioso notare come i problemi in campo clinico spesso vengano risolti complicando piuttosto che semplificando. Una tendenza opposta a quella scientifica adottata nel mondo del laboratorio ove invece si tende a risolvere il problema semplificandolo.
A volte però non è sufficiente nemmeno la variazione (e l'energia) introdotta con le operazioni contemplate dal secondo criterio.

3) Occorre ricorrere al terzo.
Mentre i primi due criteri sono attuati nella diade oggetto-soggetto, il terzo criterio fa ricorso a più soggetti, viene quindi definito della intersoggettività. “Tu cosa vedi qui?” oppure “Su questo punto cosa te ne pare?” sono delle modalità molto quotidiane di aumentare il livello di energia ai fini di definire con maggiore sicurezza la consistenza dell'oggetto. La presenza di più soggetti che interagiscono con l'oggetto è una potente garanzia per il formarsi dell'esperienza. Questo tipo di operazione è estremamente diffuso nelle pratiche umane dove via via si chiama: consiglio, parere, consulenza, consulto, supervisione, arbitrato, giudizio, esperimento. Diversi nomi per indicare diverse metodologie con cui regoliamo l'interazione tra più osservatori intenti a ottenere un risultato condivisibile. È interessante notare come, nonostante la diversa complessità dell'oggetto (da un banale consiglio tra amici, all'esperimento di fisica subatomica, alle scelte di vita) e il diverso grado di raffinatezza delle metodologie (dalla semplice osservazione al complesso strumentario tecnico e formale), il procedimento è sempre sostanzialmente simile: gli appuntamenti sostanziali avvengono con la partecipazione di altri soggetti. E ciò naturalmente ci riporta alle nostre prime esperienze, proprio quelle agli albori della nostra storia.
Abbiamo quindi visto che i criteri di consistenza dell'oggetto sono interni alla dinamica oggetto-soggetto, non nascono in un luogo diverso, sono essi stessi un aspetto del processo di formazione dell'oggetto.

4.2 L'esperienza richiede forma: problemi e cambiamento
Se ci muoviamo all'interno di un modello dinamico in cui ciò che appare come oggetto lo si deve a un emergere energetico, ci sembrerà conseguente descrivere l'esperienza come un prendere forma di oggetti secondo un processo continuo che ha delle invarianze. La matita gialla la percepisco sempre come matita gialla, ma possiede anche molte zone mutevoli, mi è più o meno appetibile a seconda delle mie necessità. Il processo di continua formazione è più allo scoperto nel caso di oggetti complessi. Per esempio l'attaccamento a una persona è un oggetto che richiede continua forma pena l'usura e il decadimento (lontan dagli occhi, lontan dal cuore).
Questo bisogno di “nutrimento” (non solo assenza di deprivazione, ma anche presenza di stimolazione restauratrice) avviene in continuazione ma emerge in alcune condizioni. Ci sono situazioni in cui l'esperienza non è autoorganizzantesi, le forze che la costituiscono non trovano un loro equilibrio. Nel linguaggio quotidiano siamo soliti definire questo tipo di condizioni con un termine diffuso, le chiamiamo problemi. Nel senso che è un problema scegliere il proprio terapeuta così come decidere cosa mangiare questa sera.

Evidentemente di peso diverso (e non è detto, potrei ossessivamente impiegare energie spropositate nel mio rapporto con il cibo), ma ambedue accomunati dal bisogno di raggiungere un oggetto ben formato: “il dottor Tal dei Tali” così come “pappardelle alla boscaiola”.
Altre volte il bisogno di forma è meno evidente poiché viene introdotto da un processo più lento in cui le variazioni impercettibili si celano nell'ampiezza temporale del processo. In genere chiamiamo queste condizioni “cambiamento”. In esse il prendere forma ha un'estensione temporale meno impellente di quella mostrata dai problemi che urgono per una soluzione (una ristrutturazione del campo, un insight), eppure non è meno necessaria. Ipotizziamo un bambino che non prenda forma, cioè non cambi (in questo caso diciamo colloquialmente: non cresce); ci accorgiamo ben presto come ciò sia un problema (richiede cioè una forma immediata).
Appunto in un modo o nell'altro, l'esperienza richiede una forma, e ciò avviene in continuazione. E non può essere che così, poiché l'oggetto (così come il soggetto) non sono dati una volta per tutte ma si formano in tutti i loro aspetti, anche quelli che ci sembrano più stabili e scontati, secondo un processo di continuo equilibrio tra forze.

Gli esempi dei modi con cui l'esperienza prende forma, ora indicati, ci portano a una possibile distinzione.
Ci sono situazioni in cui l'esperienza prende forma spontaneamente secondo processi di autodistribuzione dinamica. Gran parte della nostra esperienza si attua in questo modo, raggiunge cioè una buona forma spontanea, non ci accorgiamo di alcun problema. I principi di organizzazione dell'esperienza individuati dai teorici della Gestalt (Wertheimer, 1923, e tutti i successivi lavori dei gestaltisti) sono l'esplicitazione analitica delle modalità con cui si forma il reale.
Ci sono poi modi di prendere forma che non essendo autodistribuzioni dinamiche richiedono un intervento esterno. Sono tutte quelle situazioni che per trovare un equilibrio richiedono l'immissione di una qualche energia. Per esempio l'apprendimento è una forma di distribuzione in cui, in genere, occorre la presenza di un intervento esterno: l'insegnante, un libro, delle condizioni che contribuiscono al cambiamento. Le situazioni di cambiamento sono forme di apprendimento. Fare terapia, per esempio, è una modalità di dar forma all'esperienza che prevede immissione di energia, di solito nello scambio tra il modo di costruire oggetti del terapeuta e il modo di organizzarsi dell'esperienza del paziente.

4.3 Teoria come energia
Appare evidente che non è sufficiente l'immissione di energia tout court perché l'esperienza assuma una forma diversa. Sarebbe un mondo troppo confuso e mutevole quello in cui oggetti permangono fino a che non sono esposti a emergenze, anche non critiche, di energia. Quindi perché l'immissione di energia modifichi l'oggetto facendogli assumere la forma desiderata, occorre avere un quadro del disequilibrio e del possibile equilibrio, cioè di cosa manca per ottenere la forma desiderata. Questo quadro è, per sé, una teoria. È cioè la previsione di una possibile forma in base a ipotesi sulla distribuzione energetica. L'interessante è che anche la costruzione di ipotesi è a sua volta una formazione d'oggetto il quale, benché in fieri, ha tutte le caratteristiche della distribuzione dinamica e quindi per esempio sottostà alle leggi di formazione del reale individuate da Wertheimer. Cioè un'ipotesi deve avere buona forma, somiglianza, continuità, destino comune, e così via, in relazione alla situazione a cui si rivolge. Vista in questo modo, la teoria corre meno rischi di rimanere svincolata dal reale a cui si riferisce, è più premunita nei confronti dei rischi cui si sottopone.
Se la teoria è un'immissione di energia, ne segue che deve tener conto del luogo a cui è diretta e dei risultati che origina. Cioè la teoria è un pezzo di un processo più ampio: il reale richiede forma, non la realizza spontaneamente, fa ricorso a un ambito più ampio (introduzione della teoria) e raggiunge, o non raggiunge, un nuovo risultato.

La teoria è solo uno strumento, è un passaggio all'interno di un processo più ampio. Nasce nei fatti, è giustificata dai fatti, e necessariamente muore nei fatti. Non può esserci una teoria in sé, esattamente come non c'è un oggetto in sé, ma in relazione a un campo su cui emerge. Quindi i caveat più evidenti per una teoria riguardano l'essere vicina ai fatti, l'avere funzione strumentale, l'essere prona alla verifica dei risultati. Sono dei modi di dire con altro linguaggio ciò che ora stiamo inserendo in un quadro dinamico (energetico): la teoria è un processo di immissione di energia volta al cambiamento auspicato.
Rispetto all'immissione di energia nel reale (far teoria) possiamo indicare due posizioni estreme, che evidentemente sono esagerate per motivi retorici. Potremmo riscontrare una specie di astensione, di timore di intervento, di osservazione dall'esterno. È l'assenza di teoria, e come tale lo è già. È un “atteggiamento” che rinuncia al pensiero, in cui si dà per scontato (non esplicitamente) che il reale sia comunque autoorganizzantesi e che il nostro intervento, ininfluente, si anneghi in un'assenza di punti fermi.
Dall'altro lato troviamo un atteggiamento di controllo, “ossessivo”, in cui la sicurezza rispetto alla dinamicità del reale viene scovata nell'arroccarsi nell'ortodossia, la salvezza pagata in rigidità e limitazione. Mentre l'“isterico” costruisce una teoria debole appena appena distinguibile dai fatti, confluente e timida, l'“ossessivo” erge una struttura forte spesso predeterminata che violenta la creatività e procura controllo. Non c'è un medio in cui stia la virtus. Le due modalità si compenetrano, sovrappongono, gerarchizzano a seconda delle facce dinamiche che presenta l'interazione tra la situazione che richiede e il soggetto che risponde alla necessità di immissione di energia. Un punto ha senso: essere consapevoli che inevitabilmente in ogni nostro intervento ci facciamo una teoria embrionale e debole oppure articolata e forte e che questo è uno degli strumenti che abbiamo per introdurre forma dove ci viene richiesta.
Per definizione non si può non fare teoria, quindi è meglio incrementare il grado di consapevolezza sulla teoria che si sta facendo.


5. E l'Analisi Transazionale?

Proviamo a pensare alle possibili conseguenze in ambito di Analisi Transazionale che possono derivare da un castello teorico come quello che ora abbiamo sinteticamente delineato. Poiché i collegamenti sembrano articolati si possono per facilità dividere in almeno due livelli. Uno di carattere molto generale che mette in evidenza le principali idee che sono presenti in una teoria dinamica, come nello specifico quella ora esposta, e che percorrono anche l'Analisi Transazionale. Il secondo si rivolge ai concetti e agli strumenti di intervento più specifici dell'Analisi Transazionale e ne individua possibili parallelismi o legami con quanto ci siamo detti in queste pagine. (Pensieri in questa direzione sono formulati da Rotondo, 1991.)

Sul piano delle idee guida o delle Weltanschauung potremmo sottolineare un aspetto fenomenologico. Il modello dinamico qui esposto è fondamentalmente basato sull'attenzione al dato, quella attenzione che, da Mach fino ai gestaltisti, privilegia l'esperienza diretta. Autori di impianto fenomenologico spesso iniziano le loro trattazioni con «sono in una stanza e attorno a me vedo...» e consolidano così i dati su cui costruiranno la loro teoria; allo stesso modo Berne, quando vuole introdurre un concetto si rifà a situazioni di osservazione diretta. E così la nascita degli stati dell'Io all'interno dell'Analisi Transazionale è accompagnata da un quadro clinico che solo un occhio fenomenologico può rendere in maniera così diretta, sintetica, articolata e breve. Tra i tanti esempi possibili ne scegliamo uno; all'inizio del secondo capitolo di Analisi Transazionale e psicoterapia, Berne presenta gli stati dell'io: «La signora Primus...» (1961). Rileggerlo può darci la misura della dimensione fenomenologica che caratterizza il pensiero del suo autore.
Un'altra idea guida (benché ora appena accennata) potrebbe essere fornita da quell'insieme di pensieri che possiamo etichettare come “conseguenze ideologiche”. In Analisi Transazionale il punto portante del credo filosofico è sintetizzato, e anche abusato, nella formula: “Io sono ok, tu sei ok”. Il che è una frase in grado di condensare in uno slogan la pari dignità degli interlocutori, il diritto e la possibilità di un benessere, la necessità di una vita sociale e un attaccamento reciproco.

Nel nostro modello dinamico questi elementi sono tutti possibili, benché in nuce; potremmo sviluppare il primo.
La pari dignità degli interlocutori può essere vista come un'idea di ordine filosofico, etico o ideologico che caratterizza una vasta corrente di pensiero, ivi inclusi alcuni modelli terapeutici, e tra questi l'Analisi Transazionale. Senza nulla togliere a questo punto di vista, la pari dignità degli interlocutori può anche essere letta come una struttura specifica del farsi dell'esperienza: il formarsi del soggetto è dipendente dall'oggetto e il formarsi dell'oggetto è dipendente dal soggetto. E ciò vale per oggetti così semplici come le cose materiali, ma ancor più per oggetti più complessi come la reciproca determinazione nel momento in cui due soggetti entrano in relazione. Se non fosse troppo sintetico potremmo dire che l'io è quell'oggetto che emerge, diventando soggetto, sullo sfondo di altri oggetti che sono l'altro. Il Me è formato da dei Tu e viceversa, quanto più sono adeguati (ok) tanto più la reciproca identità (il formarsi del soggetto) sarà soddisfacente.
Questi accenni di pensieri etico-filosofici hanno un doppio versante: da un lato richiedono uno sviluppo teorico a cui di solito sono addetti degli specialisti (che chiamiamo filosofi, ideologi, pensatori, opinion makers...) e dall'altro possono essere incarnati nella formula “Io sono ok, Tu sei ok” che richiama nella sua sinteticità aspetti di ideologia quotidiana, di idee guida professionali, di precetti laici, di buonsenso relazionale nonché di superficiale buonismo.

Un terzo punto di contatto tra il modello dinamico qui esposto e l'Analisi Transazionale viene suggerito dalla parola “teoria”. Poiché, come ci siamo detti, la teoria può essere intesa come un modo di dar forma all'esperienza, il suo uso è un buon rivelatore del tipo di modello con cui abbiamo a che fare. In altri termini: con la parola teoria abbiamo inteso un modo di immissione di energia (spiegare è riorganizzare, ricostruire equilibri, spostare forze) che ha lo scopo di creare una forma nuova; il dato ora è comprensibile, ha una forma buona; con tutte le conseguenze sul piano emotivo che derivano dall'aver tolta l'incertezza. Per queste ragioni una teoria può essere valutata in base al dispendio energetico che richiede per svolgere la sua funzione: dare una nuova organizzazione al dato. L'Analisi Transazionale ha un apparato teorico piuttosto semplice, purtroppo a volte usato in maniera semplicistica, con termini tratti dal quotidiano e relativamente poco discosto dai dati a cui si rivolge. Non è una teoria “forte” ma è piuttosto rispettosa, almeno nelle intenzioni di chi la ha costruita, del dato di osservazione. I costrutti ipotetici che utilizza sono relativamente chiari e non richiedono una grande quantità di energia per essere appresi e applicati. Per questo motivo il rapporto con il problema (cioè con l'esperienza) è a favore del dato piuttosto che della cristallizzazione teorica: la parte di forma data dall'intervento è strumentale all'individuazione della forma dell'esperienza in generale. E quindi il punto di consistenza resta per scelta teorica e per pratica clinica nel dato non nella sua modalità di descrizione. L'energia richiesta dalla teoria è riversata nel dato proprio perché la teoria non richiede troppo investimento per essere sostenuta, vive nella relazione con l'esperienza.

Ora passiamo a un livello più specifico e prendiamo in considerazione alcuni strumenti concettuali più caratteristici dell'Analisi Transazionale. Il punto di vista generale è che possiamo intendere la teoria dinamica qui esposta come una sorta di base generale e trasversale ai vari approcci che viene implementata diversamente a seconda di quello che si sceglie.
L'Analisi Transazionale può essere considerata come un modello in grado di incarnare molti degli aspetti del modello dinamico che ci interessa.
Consideriamo per esempio, e non poteva non essere che così, lo strumento concettuale denominato “stati dell'io”. Dal punto di vista della teoria dinamica, gli “stati dell'io” possono essere considerati come un modo specifico di indicare come si viene organizzando il soggetto. E ciò sembra banale. Forse lo è meno se si pensa che ogni modello teorico ci dice qualcosa su come si costituisce l'io, la persona, il sé, il soggetto (nomi che variano a seconda delle intenzioni della teoria). È interessante osservare che ognuno di essi ha radici comuni nel fatto che il soggetto è un luogo di esperienza in continua formazione, cioè è un oggetto a cui è stato data la corona di chiamarsi soggetto, e che questa continua formazione può essere variamente descritta dai diversi modelli, uno dei quali è l'Analisi Transazionale.
Visti in questa ottica gli “stati dell'io” sono un descrittore del farsi, in senso evolutivo generale ma anche microevolutivo (cioè delle variazioni continue), del soggetto.
Nel caso degli stati dell'io, poi, si verifica l'ulteriore caratteristica che sono dei descrittori particolarmente vicini, come ci siamo già detti, ai fatti a cui si rivolgono. Nella determinazione delle energie che vengono costituendo la complessità di esperienze che chiamiamo soggetto, una buona mappa ci è fornita da quell'insieme di forme che vengono evocate, diversamente ma anche egualmente per ognuno di noi, quando facciamo interagire il termine “stato dell'io” con l'esperienza a cui lo riferiamo (il processo di diagnosi secondo l'Analisi Transazionale).

L'economia di questo scritto non ce lo concede per intero, però potremmo estendere le osservazioni qui fatte a proposito degli stati dell'io anche agli altri strumenti concettuali o di intervento clinico tipici dell'Analisi Transazionale. Troveremo allora che possono essere letti come specificazioni, ovviamente colorate di linguaggio, filosofia, ideologia proprie dell'Analisi Transazionale, di un processo dinamico generale sottostante che ne costituisce l'antecedente teorico, una sorta di fondamento trasversale ai modelli.
Un esempio che si può citare più sinteticamente degli altri. Tutta la teoria sui riconoscimenti, che in Analisi Transazionale è sviluppata rapsodicamente con idee al confine tra la genialità e la faciloneria, può essere letta come un modo di descrivere l'interscambio energetico tra interno ed esterno, tra io e tu o, con il linguaggio che abbiamo utilizzato qui, tra soggetto e oggetto. Nelle modalità di esposizione tipiche della letteratura di Analisi Transazionale per riconoscimento, o per carezza (una parola tutto zucchero e niente sale), si intende un'unità di scambio in cui l'altro riceve qualcosa che gli può servire a sentirsi “nutrito”. L'energia riversata sull'interlocutore può avere molte modalità di manifestarsi (le classificazioni dei riconoscimenti), può essere recepita diversamente (l'idea di filtro), può essere diversamente metabolizzata (l'idea di banca dei riconoscimenti), può rispondere alle differenti esigenze energetiche di ciascun individuo (l'Idea di intensità, fonte e riciclaggio dei riconoscimenti). Si tratta di modalità descrittive diverse, l'una utilizza l'idea di energia, l'altra si basa su metafore legate alle carezze. Il descritto, cioè il dato, è quel processo di interscambio soggetto-ambiente che è la nostra storia, la costruzione della nostra struttura, la nostra esperienza, noi (e anche questi, benché di altro livello, sono dei descrittori).

L'interesse di leggere l'interscambio mondo interno/realtà esterna mediante un modello dinamico sta nella possibilità di evitare alcune cristallizzazioni (e inevitabilmente se ne formano altre); nel nostro caso si traduce nella possibilità di porre maggiore attenzione al processo interattivo. Nel momento in cui ti riconosco mi riconosco. L'energia rivolta all'esterno è in parte costitutiva dell'interno. Non c'è soggetto senza oggetto (o altro soggetto) e viceversa. Le conseguenze cliniche sono sotto gli occhi di tutti: l'altro da me modifica la sua esperienza in relazione a me e per converso io ricevo energia perché sono oggetto dell'esperienza del mio interlocutore. Il riconoscimento è reciproco.


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