PSYCHOMEDIA --> HOME PAGE
CINE@FORUM--> HOME PAGE - REPORT



REPORT




Siamo stati al II Festival Europeo di Psicoanalisi e Cinema a Londra e ve lo raccontiamo

di Elisabetta Marchiori


Dal 30 ottobre al 2 novembre 2003 si è svolto a Londra il secondo Festival Europeo di Psicoanalisi e Cinema, che aveva avuto la sua prima edizione nel 2001. Ideato ed organizzato, per conto della Società Psicoanalitica Britannica, da Andrea Sabbadini, è un tipo d’evento unico nel suo genere in Europa, “aperto a chiunque abbia un interesse per i film, la psicoanalisi o entrambi”. Infatti, permette l’incontro tra esperti di “psiche” e cinefili e “gente di cinema”, registi, attori, sceneggiatori, diventando un ricco terreno di scambi culturali, affettivi e creativi. Presidente Onorario il regista Bernardo Bertolucci.
I partecipanti, numerosi ed attenti, provenienti da tutta Europa, dagli Stati Uniti, dai Paesi dell’Est e da Israele, hanno potuto godere dell’ineccepibile organizzazione e di una piacevole ospitalità, in un clima sereno e, nello stesso tempo, vivace. Era palpabile il desiderio di ciascuno di mettere in gioco il proprio lavoro e le proprie competenze in modo creativo e con la disponibilità di un autentico confronto.
L’Italia, grazie soprattutto a Paola Golinelli che ha lavorato come consulente, è stata ben rappresentata: è stato proiettato e discusso il film di Roberto Faenza “Prendimi l’anima” ed è stato presentato un panel sul cinema italiano coordinato da Stefano Bolognini. A quest’ultimo abbiamo partecipato anche noi redattori di cine@forum, Elisabetta Marchiori e Roberto Goisis (eravamo presenti anche alla prima edizione come “spettatori”), con il collega Massimo De Mari. Quanto quindi riportato è frutto della partecipazione attiva ai lavori del convegno, e ringrazio subito Goisis e De Mari per aver contribuito alla stesura di questo report, che altrimenti non avrebbe potuto essere completo, perché molti panel si sono svolti contemporaneamente.

Il programma, che si è svolto in modo piuttosto preciso, è stato molto impegnativo, dal mattino a sera inoltrata, con l’attenta ed attiva supervisione dell’instancabile organizzatore Andrea Sabbadini: a sessioni plenarie sono seguiti panels paralleli, sono stati proiettati video, spezzoni di film e film completi, e tutti prevedevano la discussione. Quest’ultima non sempre è stata, purtroppo, del tutto soddisfacente, a causa della lunghezza di alcuni interventi programmati. Tuttavia l’intera mattinata di chiusura dei lavori è stata dedicata ad una discussione generale molto libera, dove sono emerse riflessioni sul Festival e proposte per le prossime edizioni.

Il Festival non ha sviluppato un unico tema specifico, ma ha spaziato attraverso un’ampia gamma di tematiche, anche se è stato possibile, come vedremo, cogliere alcuni fili conduttori. Rispetto alla precedente edizione, sono stati proposti anche film di animazione. Questi, soprattutto nella cultura anglo-americana, sono spesso considerati da bambini o sostanzialmente di divertimento o di satira. Diversamente, in Russia, Francia e Giappone c’è una tradizione dove l’animazione è considerata più seriamente e tenta di sviluppare quelli che ne sono gli infiniti potenziali creativi. Su questa tradizione è nata una nuova generazione di artisti-animatori.
Proprio la cerimonia di apertura è stata accompagnata dall’eccezionale proiezione del film di animazione del russo di origine ebraica Yuri Norstein “Tales of Tales” (1979), acclamato come “il migliore film di animazione di tutti i tempi” dalla “Commission of the Academy Awards” a Hollywood nel 1984. Quest’artista, la cui opera prima risale al 1968, ha prodotto una serie di lavori di animazione usando tecniche specifiche, colori e movimento per rendere la verosimiglianza, piuttosto che la veridicità, delle sue storie, basate sulle memorie dell’infanzia. Ciò che le immagini trasmettono sono emozioni così intense da non aver bisogno di essere spiegate.
Il titolo, Tales of Tales, è un verso del poeta turco Nazim Hikmet. Il film consiste in una serie di libere associazioni attorno a due canzoni ricorrenti:una ninna nanna e un tango, popolare negli anni ’30 “Bruciato dal sole”. Le parole della ninna nanna, le uniche nel film, suonano, tradotte, più o meno così: “Dormi, bambino, ma non sdraiarti troppo vicino alla sponda del letto, altrimenti il piccolo lupo potrebbe rapirti mentre dormi e portati nel bosco buio”. Il protagonista del film è infatti un piccolo lupo che ruba un manoscritto che sta per bruciare e lo restituisce ad un bambino. Le immagini del mondo dell’infanzia, della famiglia unita e serena, dei giochi dei bambini, del bambino che succhia il seno, del piccolo lupo, sono intervallate da brevi visioni angosciose, dove, per esempio, in coppie di ballerini che danzano, improvvisamente l’uomo scompare e rimane a volteggiare solo la donna, che riceve poi il telegramma che annuncia la morte del proprio partner.
Ci rendiamo conto che riferire di questo film non può trasmettere quello che si può provare guardandolo, ma solo destare il desiderio di non perdere l’occasione di vederlo, se questa si presentasse.
Tales of Tales rimanda alla nostalgia per il mondo dell’infanzia e alla durezza del mondo reale, portando magicamente lo spettatore in una dimensione che potremmo forse definire preconscia. Quando le luci in sala si accendono, è come essere strappati a forza dall’inizio di un sogno.
La mattina successiva sono stati presentati alcuni “shorts” di animazione di Ruth Linford, una delle maggiori rappresentanti della nuova summenzionata generazione.Assieme all’artista hanno discusso la scrittrice Ian Christie e la psicoanalista Helen Taylor Robinson.
Si tratta di opere di forte impatto emotivo, dove immagini e musica si fondono per esprimere tutta la gamma degli affetti. Su disegni in bianco e nero compaiono magicamente chiazze di colore, che sembrano sgorgare dallo schermo: il rosso del sangue, il blu degli occhi, il giallo del sole o della spada splendente. Le donne e gli uomini che popolano le sue storie danzano, hanno rapporti sessuali, lottano, s’incontrano e si scontrano.
Un lavoro, quello della Linford, come sua ammissione, di “confessione, terapeutico, che gode della logica del sogno, che porta molti terrori, perché il risultato può andare oltre il personale, può essere spiacevole e addirittura imbarazzante”. La sensazione che si vive assistendo alla proiezione di questi film è di precipitare in un mondo sensuale che manca della distanza mantenuta normalmente dai film. Sebbene il processo di animazione sia scrupoloso ed estremamente razionale, lo spettatore lo sperimenta come qualcosa di molto vicino alla fantasia o al gioco, obbligato ad accettare che la sintassi che utilizza è quella del lavoro del sogno.
La Robinson ha efficacemente evidenziato le differenze fra le costruzioni immaginarie artistiche e quelle psicopatologiche che emergono in analisi, definendole una sorta di “animazione”, una modalità per riconoscere e ricostruire i vissuti affettivi in modo appropriato.

Nella stessa sala è seguita la proiezione del film “Solo for Clarinet”, del regista tedesco Nico Hofmann. Insieme al regista hanno commentato il film e condotto la discussione due psicoanalisti tedeschi, Gerhard Schneider e Ralf Zwiebel.
Il film è tratto da un racconto della psicoanalista americana Elsa Lewin e racconta la storia, ambientata a Berlino, di un poliziotto, Bernie, che indaga sull’efferato omicidio di un uomo trovato morto sul proprio letto, con il pene tagliato. Le indagini portano Bernie, appena lasciato dalla moglie, sulle tracce di Anna, una giovane e affascinante donna da poco divorziata, con cui si accende una forte passione. La conclusione della storia è tragica: Bernie apprende dalla stessa Anna che è lei l’assassina, e non riesce ad impedirne il suicidio. Bernie decide così di abbandonare il suo lavoro di poliziotto.
La discussione ha evidenziato le tematiche fondamentali del film: la perdita ed il lutto. Entrambi i protagonisti sono stati lasciati dal proprio partner e sembrano alla ricerca di qualcuno con cui colmare il vuoto. Una ricerca spasmodica e istintiva, fatta di avvicinamenti e fughe, accompagnata dalla difficoltà, per i protagonisti, di farsi conoscere per quello che sono (entrambi mentono sulla propria identità). Schneider ha cercato di vedere quest’opera come se fosse una persona reale, un “quasi oggetto”, sostenendo che, come i protagonisti non riescono ad affrontare il lutto e la perdita, perdendo la possibilità di vivere un nuovo amore, così il film non riesce a sviluppare queste problematiche, ma si disperde in una serie di eventi che introducono altri temi e confondono le acque.
Si tratta di un film dall’atmosfera angosciosa, trasmessa dalle scene buie, spesso girate in interni squallidi, che lascia in effetti lo spettatore con la pesante sensazione che accada il peggio senza che nulla possa essere risolto.

Hanno avuto grande richiemo le proiezioni, in successione, di due film che hanno come protagonista Sabina Spierlein “Prendimi l’anima” di Roberto Faenza, e “Il mio nome è Sabina Spielrein” di Elisabeth Marton. Hanno partecipato al panel di discussione, nel primo pomeriggio, la Marton, accompagnata dalla psicoanalista svedese Franziska Ylander, l’italiana Paola Golinelli, lo scrittore svedese Ronald Britton ed il produttore di prendimi l’anima, intervenuto al posto di Faenza, impegnato a girare il suo ultimo film.
Nonostante il soggetto sia lo stesso, le due opere lo approcciano in modo molto diverso.
Sabina Spielrein, una giovane russa di origine ebraica, è la prima paziente analizzata da Jung, ne diventa l’amante e quindi, conclusasi la relazione, decide di formarsi come medico e psicoanalista. Morirà uccisa dai nazisti in Russia, dopo aver lavorato presso il famoso “asilo bianco”. La sua figura, per lungo tempo rimasta nell’ombra, è riemersa con la pubblicazione delle lettere tra lei, Jung e Freud, che ha reso possibile riconoscerla come donna coraggiosa e rivalutare il suo lavoro ed i suoi scritti
Il film di Faenza (come si può leggere nell’intervista già pubblicata in questo sito), già presentato al congresso della SPI di Trieste del 2002, ha avuto un grande successo lo scorso anno. Assai ben documentato, si sviluppa tuttavia sostanzialmente come un’appassionata storia d’amore e di riscatto.Offre l’opportunità di riflettere sui rischi del lavoro dei pionieri della psicoanalisi, che scoprivano la portata del transfert e del controtransfert, rischiando in prima persona di esserne travolti.
La Marton ha usato uno stile documentaristico, ma ugualmente intenso, utilizzando attori silenziosi per visualizzare il contenuto del diario di Sabina e l’affascinante corrispondenza tra lei, la sua famiglia, Jung e Freud.
L’assistere alla proiezione in successione delle due opere ha fatto riflettere sulle diverse possibilità di raccontare una storia e ha permesso di sviluppare diverse interpretazioni sul conflittuale intrecciarsi di dipendenza, amore ed emancipazione nella vita di una delle prime donne psicoanaliste di notevole spessore umano e scientifico.
La discussione ha evidenziato i complessi rapporti tra realtà storica e finzione. La Marton ha sottolineato alcune imprecisioni storiche del film di Faenza, ma si è stupita del fatto che alcune scene del suo film fossero estremamente simili a quelle girate da Faenza.

Nel pomeriggio di questa prima giornata si sono svolti altri tre panel.
Il primo, intitolato “La rappresentazione delle minoranze etniche nei film europei”, ha ospitato la regista spagnola Chus Gutierrez, accompagnata dalla lettrice spagnola presso la Roehampton University of Surrey di Londra, Isabel Santaolalla, con al suo attivo diverse pubblicazioni centrate su problematiche relative alle minoranze etniche nella letteratura e nel cinema.
Sono stati proiettati alcuni trailers tratti dall’ultimo film della regista, West (2002), incentrato, come lei stessa ha affermato “sul mondo dell’immigrazione, poiché ne siamo tutti il prodotto”. La storia si svolge in Almeria, nel sud della Spagna, dove una landa desolata è stata trasformata in una fabbrica, presso cui lavorano duramente moltissimi immigrati, in condizioni disumane.
La discussione ha fatto emergere interessanti riflessioni su temi universali rispetto “all’identità dell’esiliato”, quali i sentimenti di sradicamento e di perdita.
Nel secondo panel, “Scene da un’altra vita: la rappresentazione della Russia dopo l’era Sovietica”, è stata presentata l’opera del regista russo Evgeny Tsymbal. Con quest’ultimo erano presenti Milena Michalski e Ian Christie, professore inglese di storia del cinema, in particolare esperto di cinema russo, vice-presidente della EU Organization Europa Cinemas. La discussione si è incentrata sul contributo, di Tsymbal e di altri registi della sua generazione, alla riflessione sul costo psichico dello stalinismo e di come il popolo russo ha reagito al cambiamento portato dalla perestroika. Il passaggio da una situazione di repressione ed oppressione alla possibilità di espressione ha consentito a questi artisti di ritornare a documentare gli eventi del passato, per rielaborarlo e , così, gettare un ponte verso il futuro.
Il terzo panel, quello italiano, “L’inquieta identità di due generazioni di registi italiani”, ha avuto come chairman lo psicoanalista bolognese Stefano Bolognini. Sono stati presentati tre lavori, incentrati sulla complessa relazione, e continuità, tra passato e presente nel cinema italiano. Maria Vittoria Costantini e Paola Golinelli hanno portato un lavoro sul film di Tornatore “La leggenda del Pianista sull’Oceano”, tratto dall’omonimo racconto di Alessandro Baricco. Il protagonista, nato e cresciuto in una nave, diventa un eccezionale pianista, ma lo sviluppo della sua identità è paradossalmente bloccato dal suo virtuosismo musicale. Anche il linguaggio del film, così ricco di immagini fantastiche, sembra gravarsi di aspetti estetizzanti e sensoriali, che ne bloccano la vitalità.
Elisabetta Marchiori, Roberto Goisis e Massimo De Mari hanno presentato un “blob”, accompagnato da una voce fuori campo, incentrato sulla relazione padre-figlio, attraverso l’opera di due generazioni di registi italiani: Luigi Comencini e le figlie Cristina e Francesca, e Dino Risi e i figli Claudio e Marco (come già detto, una presentazione più estesa di questo lavoro viene proposta in una sezione a parte).
Infine, Angelo Battistini ha letto un lavoro su Antonioni, incentrato sul film l’Avventura, sottolineando gli aspetti psicopatologici di una tormentata relazione di coppia, dove la personalità narcisistica dell’uomo e quella ansiosa della donna, tormentata dai dubbi e dai sensi di colpa, impediscono lo sviluppo di una relazione d’amore profonda.

La sera sono stati proiettati due film “Broken Wings” (2002) di Nir Bergman e “L’adversaire” (2003) di Nicole Garcia, discussi la mattina successiva.
Il primo film, israeliano, racconta di una fase della storia di una famiglia, composta da una madre e tre figli, successiva alla morte improvvisa del padre. Ciascuno dei protagonisti reagisce in modo diverso: la madre si adopera al lavoro per sbarcare il lunario, trascurandosi e, involontariamente, trascurando i figli e responsabilizzando la maggiore, adolescente, alla cura dei più piccoli. La giovane, trascorrendo del tempo con un amico, dimentica di andare a prendere a scuola la sorellina, che si attarda a giocare con il fratello. Quest’ultimo, nel tentativo di fare un salto pericoloso, cade ed entra in coma. Il lieto fine non è scontato, ma il passaggio attraverso l’esperienza del dolore si trasforma in un’elaborazione del lutto, permettendo un cambiamento, nei protagonisti e nelle loro reciproche modalità relazionali, che si percepisce come interiore e profondo.
Lo psicoanalista Emanuel Berman, il produttore del film, Assaf Amir, lo psicologo clinico Shimshon Wigoder e la scrittrice e regista di documentari Timna Rosenheimer, tutti israeliani, hanno esplorato le intense dinamiche emozionali connesse alla creazione e alla visione di questo film, così delicato e forte, animando una partecipata discussione.
Il regista ha spiegato che il suo film può essere visto anche come una metafora della reazione di Israele all’uccisione di Rabin, dopo la quale il suo popolo ha dovuto impegnarsi nella ricerca di nuovi equilibri, micro e macrosociali. Il film uscirà in Italia, e merita davverodi essere visto.

L’Adversaire, già distribuito in Italia la scorsa primavera, è, invece, un film molto pesante dal finale tragico, basato sull’omonimo libro di Emmanuel Carrere. Racconta la storia, vera, di un uomo che per diciannove lunghi anni ha vissuto una doppia vita. Medico, ricco, con una bella moglie e due figli, era in realtà un impostore, che passava le sue giornate tra hotel e parcheggi e derubava i genitori facendo loro credere di investire i loro soldi. Sentendosi in procinto di essere smascherato, nel 1993 ha ucciso i genitori, la moglie e i figli, tentando, senza riuscirci, di suicidarsi.
Il regista tratta questo materiale in modo distaccato, come se volesse catturare quello del protagonista della storia, così lontano da se stesso e dal mondo circostante. Egli riesce e rendere la cortina di freddezza che copre la menzogna e che impedisce il reale contatto con l’altro. Durante la proiezione lo spettatore rimane sedotto da questo mondo fittizio, ma anche turbato, quasi disgustato dal senso di falsità e di incomprensibilità di ciò che accade al protagonista e a quanti gli stanno vicini e non hanno voluto, o potuto, vedere oltre l’apparenza.
Un film inquietante, la cui comprensione, così come la comprensione della psicopatologia di questo assassino, è stata materia su cui hanno discusso, insieme al regista, lo psicoanalista Alain de Mijolla, lo psicoanalista esperto in casi giudiziari Denis Toutenou, che ha condotto una perizia sul caso e Sophie de Mijolla-Mellor, psicoanalista professoressa universitaria a Parigi, criminologa.

Il mattino successivo si è potuto assistere alla proiezione di “L’uomo senza passato” di Aki Kaurismaki, uscito in Italia lo scorso anno. La storia è quella di un uomo che, colpito per essere derubato, al suo risveglio ha perso memoria della sua identità. Aiutato da una famiglia povera, che gli offre un container dove dormire, si mette a lavorare con l’esercito della salvezza, intrecciando una relazione amorosa con una collega. Coinvolto casualmente in una rapina, interrogato dalla polizia, viene alla fine riconosciuto in una foto dalla moglie, ma ormai è un’altra persona.
Hanno condotto la discussione gli psicoanalisti Donald Campbell, presidente della Società Psicoanalitica Inglese e Segretario Generale dell’I.P.A., Aune Raitasalo e Christel Airas. Queste ultime hanno sottolineato come il regista rappresenti fedelmente la società e il popolo finlandese, il suo modo di essere e di pensare. Riguardo al lavoro di Kaurismaki, si è evidenziato come egli in primo luogo sia attento nel rendere l’ambiente ed il contesto sociale in cui si muovono, quasi in punta di piedi e molto silenziosamente, i personaggi. I dialoghi vengono messi in secondo piano: d’altra parte i finlandesi sono schivi, non amano parlare, come il regista stesso, che, proprio per queste sue caratteristiche, non ha voluto partecipare di persona al congresso.
E’ un film poetico, disarmante nella sua semplicità, che pure sottende tematiche universali, come quella del senso dell’identità, della memoria, della consistenza delle relazioni interpersonali.
Successivamente si è svolto il panel intitolato “Nascita, sesso e perdita: riflessioni su Milk (1997, Andrea Arnold)”. Milk è il titolo di uno scioccante cortometraggio che racconta la reazione di una madre alla perdita, per un inaspettato aborto, del primo figlio. Il latte è quello che sgorga dal seno della donna che, disperata, mentre il marito scorta la piccola bara del figlio nel suo unico viaggio terreno, vaga per la città, incontra un giovane ed ha un rapporto sessuale con lui. Nell’ultima scena la donna fa succhiare, all’amante occasionale, il seno, carezzandogli la testa e sussurrandogli “bambino mio”. Quest’opera di soli 10 minuti sintetizza e mette di fronte lo spettatore con la sessualità, la gravidanza, la morte, la perdita ed il lutto: quale migliore materiale per un proficuo dibattito psicoanalitico? In questo caso, con il regista americano Andrea Arnold, hanno commentato il film e animato la discussione gli psicoanalisti Joan Raphael-Leff, Earl Hopper e Carol Topolski.

Successivamente si è potuto assistere alla proiezione del film “Lucia e il sesso”, del regista spagnolo Julio Medem. Si tratta di un’opera che drammatizza in stile brillante le reazioni e gli aggiustamenti emotivi che una persona può avere rispetto alle richieste, ai cambiamenti e alle differenze del proprio oggetto del desiderio. La storia è quella di una cameriera che fugge da Madrid per rifugiarsi in un’isola del mediterraneo, dove intreccia una relazione amorosa con un romanziere, che la coinvolge nella stesura dei suoi lavori. Dopo alcuni anni, quest’ultimo ha una relazione sessuale con un’altra donna, mettendo in crisi la coppia. La discussione con lo storico del cinema Peter Evans, la psicoanalista Carol Topolski e l’esperto e scrittore di cinema Rob Stone, che attualmente sta scrivendo un libro su Medem, si è focalizzata sui temi dell’ossessione, sottesa dall’ansia della perdita di controllo, e della dipendenza.

Nel pomeriggio si è svolto uno degli eventi più importanti del Festival: la proiezione e la discussione del cortometraggio di Bernardo Bertolucci “Histoire d’Eaux”. Erano presenti in sala il regista, Andrea Sabbadini, suo caro amico, e Laura Mulvey, professore universitario di cinematografia e direttore del AHRB Centre of British Film and Television Study.
Il breve film, che fa parte di un’antologia che ha come tema il tempo, ha come protagonista la Bruni. In soli 10 minuti Bertolucci riesce a condensare le immagini per una storia che si svolge in tempi molto lunghi. Un giovane straniero giunge, assieme ad altri connazionali, in Italia. Mentre camminano lungo una strada di campagna si accorge di un vecchio, che suona seduto sotto un albero, che gli chiede da bere. Il giovane si allontana dal gruppo e per la strada incontra una ragazza, con il motorino rotto. Glielo aggiusta e vanno insieme al bar di cui lei è padrona: dopo quest’incontro brevi scene ci raccontano che la coppia si innamora, aspetta un bambino, si sposa ed alla festa di matrimonio alla ragazza si rompono le acque. I due lavorano duramente, ingrandiscono il locale, il figlio cresce, loro invecchiano e, finalmente, comperano un’auto nuova. Ma, al loro primo giro di prova, fanno un incidente e la macchina precipita nel fiume. L’uomo si allontana, arrabbiato e triste, e trova, sotto lo stesso albero, il vecchio suonatore, che gli chiede dove lui sia stato, aspetta ancora l’acqua, è assetato. A questo punto, l’uomo si inchina piangendo dinnanzi al vecchio.
Questo struggente film apre a vasti orizzonti questioni esistenziali sul senso della vita e, soprattutto, sulle diverse possibilità di percezione del tempo. Bertolucci, estremamente disponibile, ha raccontato la sua esperienza nel girare questo film, sottolineando come il tempo in sé non esista, ma ognuno di noi il possa esperire in modo personale. Sabbadini ha evidenziato come il cinema abbia infinite possibilità di trasmettere lo scorrere del tempo, ricordando che nella scena del primo dialogo tra il giovane e la futura sposa in sottofondo ci fosse una canzone di Mina, le cui parole dicono “e capirai in un solo momento cos’è un anno d’amore”. Questa osservazione ha colto di sorpresa il regista, che non aveva fatto coscientemente quella scelta per un motivo specifico.

In seguito si sono svolti parallelamente due panel impegnativi.
Il primo, “Squisita armonia, silenzio e discordanza traumatica”, è stato condotto da tre psicoanalisti, Alexander Stein, Diana Diamond e Harriet Kimble Wrye, tutti appassionati di film e musica. I primi due hanno esplorato, in lavori complementari, le implicazioni tra musica, trauma e sopravvivenza psicologica partendo dal film di Polanski “Il pianista” (2002). Il film è tratto dal diario di Wladyslaw Szpilman, un conosciuto pianista ebreo, che racconta come sfuggì al genocidio da parte dei nazisti grazie alla sua musica.
Sono stati esaminati i meccanismi psichici coinvolti nella sopravvivenza di Spilzman, non solo fisica ma, soprattutto, in riferimento alla sua identità di musicista, mostrando gli elementi implicati nelle relazioni tra la vita mentale del pianista e la sua arte. Tra questi, sono stati messi in luce da Stein la disciplina, la tolleranza della solitudine e dell’isolamento, la creatività, la fantasia, la peculiare relazione con il proprio strumento. Egli ha inoltre mostrato come nel film la musica di Chopin sia stata utilizzata in maniera simbolica.
La Diamond ha evidenziato, nella personalità di Szpilman, la capacità di contare sull’amore, un forte ideale dell’Io, la fiducia nel potere di redenzione della musica come modalità per salvaguardare la coesione del sé e comunicare le proprie esperienze agli altri, la convinzione che sia possibile fare da testimone per le vittime di eventi così traumatici ed inspiegabili, la capacità di attraversare i confini tra il dentro e il fuori del ghetto, tra Polacchi e Ebrei e tra identità presente e passata.
L’ultima relatrice, la Kimble Wryne, si è soffermata sul film “La pianista” (2001) di Michael Haneke, che fa immergere lo spettatore nel labirintico ed angoscioso labirinto di un perverso legame tra madre e figlia. Il ritratto conflittuale della protagonista porta ad esplorare la tensione dialettica tra dipendenza e autonomia, attaccamento materno e l’invidia, la creatività e la distruttività, il sadismo e il masochismo, il desiderio di intimità e la morte, la perversione sessuale, il controllo repressivo e la psicosi.

Parallelamente, si è svolto il panel dal titolo “Il tema del bambino in pericolo. Da manoscritti inediti e appunti dell’archivio privato di Ingmar Bergman”, coordinato dalla psicoanalista Cecilia Hector. Maaret Koskinen, storica e critica del cinema dell’Università di Stoccolma, l’unica persona ad avere accesso all’archivio privato di Bergmann, ha rivelato l’importanza delle esperienze infantili del regista, spesso permeate di paura e aggressività, che si possono ritrovare nei suoi film. Questo tema, battezzato come quello del “bambino in pericolo”, è ricorrente anche nei manoscritti conservati nell’archivio.
Elizabeth Crowie, lettrice universitaria e scrittrice, ha contribuito con un lavoro sul film “Persona” (1966), sulla storia dello strano rapporto che si instaura tra un’attrice divenuta afasica e la sua loquace infermiera. Si tratta di un dramma esistenziale sul tema del doppio e della maschera, scritto dal regista durante un ricovero in ospedale. Le due donne escono dai ruoli che hanno ricoperto fino a quel momento e si specchiano l’una nell’altra, fino alla perdita completa di sé. Un film intenso e ricco che fa riflettere sul concetti fondamentali quali l’identità, l’identificazione, l’imitazione. E’ un film impregnato anche di timori angosciosi, come il conflitto tra l’essere chi si è e l’essere la creazione di un altro, il possedere e l’essere posseduti, Il bambino, nel film, che tocca alternativamente le facce delle due donne, è lo stesso Bergman, e le problematiche delle due donne riflettono le sue stesse problematiche.

La discussione plenaria conclusiva, presieduta da Andrea Sabbadini, è stato un momento particolarmente vivace e prolifico, in cui è emerso il generale apprezzamento per l’evento. Le critiche sono state rivolte essenzialmente nei confronti dell’elevato costo della quota di iscrizione, che ha impedito sicuramente la partecipazione di categorie quale quella degli studenti.
Inoltre, alcuni hanno sottolineato l’impossibilità di assistere a panel di grande interesse, in quanto si poneva la necessità di scegliere fra eventi paralleli.
Sabbadini ha mostrato molta soddisfazione per l’qlta qualità dei contributi, invitando, per il futuro, a portare più materiale filmico piuttosto che di lettura, magari supportato da materiale cartaceo da distribuire al pubblico. Ha inoltre, con nostro orgoglio, ribadito l’apprezzamento per il panel italiano.

Per concludere, desidero soffermarmi ad evidenziare alcuni filoni tematici che mi sembra di aver potuto individuare scrivendo questo resoconto.
In primo luogo, è stato possibile sperimentare il fatto che le immagini dei film possano utilizzare la sintassi dell’inconscio, soprattutto assistendo alla proiezione sia dei film di animazione sia del cortometraggio di Bertolucci. Per queste opere ogni spiegazione risulta insufficiente e non consonante, ma è possibile indagare sulle risonanze emotive che provocano in ciascuno di noi.
L’importanza dei suoni, delle canzoni, della musica, che accompagnano le immagini, è stata inoltre sottolineata nella discussione del film “Il pianista” di Polanski.
Un altro tema fondamentale è stato quello del rapporto tra ricostruzione storica e finzione, trattato in particolare nel panel sui due film su Sabina Spierlien.
Il problema dell’identità individuale e sociale, connesso a quelli dell’immigrazione, delle minoranze etniche, dell’isolamento sociale e della repressione politica sono emersi, in ottiche diverse, in più occasioni.
La tematica del trauma, sia personale, come la perdita del padre o una violenza subita, che connesso a eventi di portata massiva, come l’olocausto, ha fatto da sfondo costante nella maggior parte dei panel.
Infine, la sessualità, la funzione genitoriale, il rapporto padre-figlio sono stati discussi alla luce di diverse opere cinematografiche.
Tuttavia, mi rendo conto che questo elenco non è esaustivo, e continuarlo non mi pare utile: ciascuno di noi, vedendo i film e ascoltando l’opinione di altri in proposito, avrebbe altro da aggiungere.
Spero piuttost di essere riuscita a trasmettere quanto il cinema può offrire, in termini di luogo e possibilità di pensiero, a chiunque si occupi della psiche delle persone, e viceversa.



PSYCHOMEDIA --> HOME PAGE
CINE@FORUM--> HOME PAGE - REPORT