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Articoli tratti dalla Rivista

PSICODRAMMA ANALITICO


Ermete Ronchi

UNA GIORNATA DI LAVORO CLINICO GRUPPALE TRA PSICODRAMMA ANALITICO E PSICOSOCIOANALISI

in: Psicodramma Analitico, n. 7, gennaio 1998, Torino.

 

Gioco: un piacere che deriva dall’esercitare funzioni
che stanno per svilupparsi completamente.
K. Buelher

Il gioco forza ogni categoria di cui disponiamo.
G. Bateson

Ho l’ingrato compito di introdurre nella discussione la parola “lavoro”,
e con essa un argomento molto banale, che però permea tutta la nostra società:
quando si chiede ad un membro della nostra società cosa sia un gioco,
risponderà per prima cosa che non è lavoro. (... ) un pregiudizio inconscio.
E. H. Erikson

Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può mandare,
l'amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi)
costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra:
ma questa è una verità che non molti conoscono ...
P. Levi

1. Sommario

Questo scritto è il seguito di un precedente lavoro dal titolo Dalla stanza d’analisi all’istituzione e ritorno. Lo psicodramma analitico osservato dal punto di vista della psicosocioanalisi, comparso in “Psicodramma analitico. Rivista per lo sviluppo dello psicodramma individuativo”, n. 6, dicembre ‘96. In quello scritto, di taglio teorico, ho provato a pormi in ascolto degli aspetti interessanti ed intriganti di entrambi i modelli mettendo in evidenza la necessità di tenere frequentemente monitorati e implementati quegli aspetti che tendono - inconsciamente - a suscitare le maggiori difese, ed ho proposto di sviluppare strumenti psicodrammatici quali:

  • l’individuazione/scelta dell’immagine significativa (fermo immagine),
  • la sua successiva animazione e trasformazione in un “gioco” gruppale,
  • l’individuazione e l’assegnazione di ruoli,
  • il cambio dei ruoli,
  • il rimando a scene del passato e del presente,
  • la valorizzazione di scene “future”,
  • il doppiaggio da parte del conduttore,
  • il doppiaggio da parte dei partecipanti,
  • l’ascolto e l’esplicitazione dei vissuti individuali,
  • l’inibizione all’uso del linguaggio verbale (e alle razionalizzazioni sottese),
  • l’osservazione finale

in modo che possano costituire un prezioso bagaglio anche per entrare nel difficile mondo dei vissuti di base che si generano - in specifico - nel fare, nel lavoro, quando i singoli ed i gruppi hanno il problema di “giocare” gli apprendimenti nati nella stanza d’analisi, in situazione di ruolo sociale, ossia quando, in ruolo, intervengono responsabilmente sulla “realtà esterna” per trasformarla.

In questo scritto mi addentrerò nella dimensione dell’operatività quotidiana, pescando nei materiali emergenti da una giornata di lavoro clinico. Proverò ad assumere entrambi i vertici di osservazione nell’ascolto di una sequenza di giochi di tipo psicodrammatico e proverò ad accostare momenti in cui i vissuti di base attivati dai giochi potrebbero aprire anche ad apprendimenti altri, nel caso potesse essere utilizzato l’approccio psicosocioanalitico. La scheda n. 1 offre una prima mappa per entrare in questi nuovi territori di ricerca e riprende inoltre alcune riflessioni già proposte nello scritto Dalla stanza d’analisi all’istituzione e ritorno (E. Ronchi, 1996)

(E. Ronchi, scheda n. 1)

Si farà specifico riferimento ai quadranti 3 e 4 della “finestra psicosocioanalitica”, (vedi oltre, schede n. 2 e 3), lasciando sullo sfondo le caratteristiche della psicoterapia progettuale (quadranti 1 e 2 delle schede citate) in quanto anch’essa, come lo psicodramma, è una tecnica che pone l’accento su individuo e gruppo. La differenza sostanziale è che il focus è sì centrato sugli aspetti di tipo archeologico, ma quanto basta per disporre di buone basi di appoggio per affrontare progettualmente anche gli aspetti di tipo architettonico. Per maggiori ragguagli di tipo sintetico su questo punto rimando al Dizionario di psicologia, curato da U. Galimberti, alla voce “Psicosocioanalisi”, e alla bibliografia.

In questo scritto è implicito un invito ad approfondire cosa potrebbe accadere se l’approccio psicodrammatico e quello psicosocioanalitico potessero collaborare, con l’obiettivo di accedere a livelli di benessere che vanno oltre il privato della stanza d’analisi, fin dentro la dimensione delle istituzioni di lavoro, pubbliche o private che siano.

Anche sui luoghi di lavoro infatti la sofferenza ed il disagio sono spesso a livelli talmente alti che - così come accade all’individuo - l’organizzazione interna è “costretta” a mettere in atto potenti meccanismi di difesa, disfunzionali rispetto al perseguimento del compito primario per cui quell’istituzione è nata ed ha ragione di esistere.

Queste difese, essendo di natura gruppale, sono prevalentemente di tipo psicotico ed hanno la caratteristica, paradossale, di essere introdotte sotto l’egida di un particolare tipo di razionalità che di solito si esprime con provvedimenti urgenti ed è intrisa di emozioni istituzionali talmente stereotipate da non poter nemmeno essere rilevate come tali. L’ipotesi che qui suggerisco di approfondire è che le emozioni (o i vissuti) abbiano sempre, intrinsecamente, una dimensione contemporaneamente privata e pubblica e che questi due aspetti non possano essere scissi, pena il tradire la loro più autentica natura. Ne consegue che quando, grazie al lavoro analitico, i vissuti emergono nella stanza d’analisi, questi possono essere inquadrati sia con riferimento alla relazione che nel tempo ciascuno ha instaurato con se stesso e con la cultura implicita derivante dalle sue matrici d’origine, sia con riferimento all’attualità, alla relazione in essere con il contesto, con la cultura organizzativa di cui nel presente ciascuno si nutre e che, allo stesso tempo, concorre a costruire. Di più. L’ipotesi che propongo è che non sia possibile approfondire e lavorare sull’una sul presupposto della negazione dell’altra e viceversa.

Il mondo interno all’individuo (ed alla stanza d’analisi) è davvero così estraneo rispetto a quello esterno e di lavoro o questa tendenziale schizofrenia operativa è un sintomo che può essere ri-conosciuto e accolto con particolari modalità di ascolto clinico? È possibile costruire luoghi/laboratori in cui si possano accogliere e trasformare emozioni in grado di reggere maggiore complessità e di con-correre ad un effettivo aumento del livello di benessere diffuso? In sostanza è possibile accompagnare il passaggio da un sistema di riferimento di tipo prevalentemente Tolemaico ad un altro con caratteristiche più Copernicane?

Un breve percorso clinico co-condotto in modo da poter accostare due diversi e complementari punti di vista vuole mantenere viva la ricerca su questo strategico terreno e facilitare l’individuazione e l’uso efficace di strumentazione psicodrammatica e psicosocioanalitica a vantaggio della qualità del vivere quotidiano.


2. Una giornata di lavoro clinico

L’ambientazione del caso che viene qui riportato è una città Ligure. La proposta di lavoro era stata presentata in questo modo:

    Una giornata che ciascuno può regalare a se stesso se desidera partecipare, in gruppo, ad una esperienza emotiva sul confine tra psicoterapia e formazione.

    Caratteristica:
    Ogni gioco ha le sue regole; quello che vi proponiamo si ispira allo psicodramma di matrice Junghiana ed alla psicosocioanalisi. Il gioco si caratterizza per un continuo alternarsi di comunicazioni verbali da parte dei componenti del gruppo ed il concretizzarsi di queste in giochi gruppali, ossia nella possibilità, per chi lo desidera, di mettere in scena e recitare, con l’aiuto di attori scelti nel gruppo, frammenti della propria storia.

    Conduzione:
    Due conduttori faciliteranno lo sviluppo della capacità di apprendere ad ascoltare ed a dare senso alla molteplicità di vissuti che si genereranno nei singoli partecipanti e nel gruppo ai vari livelli di complessità.

La giornata di lavoro si articolava in tre sedute più una seduta finale con possibilità di metacomunicare su ciò che più aveva colpito, e con la possibilità di far interagire i due modelli. Il gruppo era composto da dieci partecipanti; quasi tutti si incontravano per la prima volta. La conduzione e l’osservazione all’interno delle sedute condotte con tecnica psicodrammatica era curata da Giulio Gasca , mentre le osservazioni a valle delle sedute e la seduta finale in chiave psicosocioanalitica, da me. La colonna di sinistra riporta il susseguirsi di ciò che in psicodramma viene chiamato “gioco”. Nel caso qui illustrato vengono riferiti i “giochi” così come si sono succeduti nelle tre sedute condotte con approccio psicodrammatico. A fianco vengono riportate le annotazioni a margine che andavo via via facendo. Il mio obiettivo prioritario non era quello di fare da memoria storica in un’esperienza di psicodramma, ma di rilevare ciò che accadeva nel gruppo, condotto in modo esplicito con la tecnica dello psicodrammatico analitico individuativo (ad approccio junghiano), per cogliere possibili punti di approfondimento.

Suggestioni per l’approfondimento delle proprie matrici familiari (e sociali) rivisitabili attraverso lo PSICODRAMMA ANALITICO INDIVIDUATIVO.
Suggestioni per possibili sviluppi anche nel campo professionale e istituzionale attraverso l’uso di strumenti offerti da PSICOSOCIOANALISI e PSICOTERAPIA PROGETTUALE

PRIMA SEDUTA - 1° partecipante - 1° gioco

1.1 - “IL MIO PRIMARIO MI CONFONDE, non so se è il suo atteggiamento di capo o se è lui fatto così; si propone sempre in un ruolo non definito...” Così esordisce dopo una breve fase di riscaldamento (... guardate quella sedia e immaginate chi c’è seduto sopra...) la protagonista del primo gioco. “Ero negli ultimi mesi della gravidanza, tirocinante, e gli ho chiesto: cosa posso fare qui al servizio?” “Fa quello che vuoi” era stata la risposta. “Lui ha l’età di mio fratello, ogni tanto ha la barba, a volte se la taglia e veste in modo trasandato. Lo sento seduttivo con i pazienti e gli operatori, così può tenere tutti sotto controllo”. “Sei d’accordo che possa fare io l’ambulatorio visto che i colleghi sono in ferie?” avevo poi chiesto. “Fa quello che vuoi” era stata nuovamente la risposta “Se vuoi puoi andare in aspettativa fin da subito; fai pure ciò che credi ...”
“Che nervi!”
PROBLEMI DI NASCITA SOCIALE: Dove sono capitata? Mi vogliono? Con che linguaggio posso comunicare? Chi è questo? Sembra mio fratello ma non lo è. Che famiglia è mai questa? Il mio modello familiare, quello che ho interiorizzato e che fino ad oggi mi ha aiutato a dare senso alle relazioni attorno a me, funziona in questo strano posto? Lo conosco? E se qui fosse diverso? Ma anche: come è fatto il mio ruolo? Voglio sapere se ho un ruolo, cosa pensano di me sul piano professionale, che importanza ho per gli altri ... e ancora: perché non ho un ruolo definito? Come faccio a conoscere e costruire il mio ruolo in quel contesto organizzativo che sembra offrire grandi opportunità? “Puoi fare quel che vuoi”: sul piano organizzativo obbliga a fare i conti con la propria discrezionalità di ruolo, con la possibilità di esprimere la propria creatività, certo, all’interno di vincoli da conoscere meglio. Troppa discrezionalità assegnata ad un ruolo in formazione certo è molto sospetta ... cosa vogliono da me? C’è tanta discrezionalità che la tua presenza diventa addirittura indifferente. Puoi anche non esserci! Il messaggio è davvero ambiguo. Come ho appreso a gestire la mia e l’altrui ambiguità.

PRIMA SEDUTA - 1° partecipante - 2° gioco

1.2 - TORNIAMO ALL’INFANZIA - propone il conduttore, alla tua famiglia. “Chi era che aveva pretese su di te? Su chi c’erano più aspettative?”. “Su di me... Quello che non ci dà tuo fratello ce lo devi dare tu - diceva spesso mia madre. Oppure “hai preso 5”, se prendevo 5 nei compiti, e invece “abbiamo preso 8” quando era 8. “Mio fratello era sempre al mare a divertirsi!".

Mia mamma preferiva lui ... Tu devi diventare intelligente come lo zio...” - diceva.

COME GESTIRE LE RISONANZE dei legami ombelicali che continuamente mi rimandano ad una sorta di utero familiare, ad una difficoltà a riconoscere come nuovo, separato, il nuovo contesto (di lavoro in questo caso)? Che strano, quella razionalità sembra non bastare. Anche qui si provano forti emozioni ma forse c’è un’altra organizzazione. Non è più la famiglia anche se molte metafore utilizzate continuano a rimandare a quell’ambiente... nuove piste di scoperta si possono così aprire. Sei in mezzo ad un cambiamento, ti incontri con la “tua” nuova organizzazione ... La conosci? Come si può fare per conoscerla meglio non solo sul piano del dichiarato ma anche su quello di ciò che nell’effettivo accade, in modo da potersi meglio orientare attraversando la barriera del presunto? Conosci tecniche per facilitare questo compito? Conoscendo meglio questo nuovo scenario potresti scoprire molte cose su di te che per altra via ti sarebbero precluse ... un nuovo modo di conoscere e conoscersi utilizzando meglio l’istituzione come palestra in grado di sviluppare capacità personali prima ancora che professionali.

PRIMA SEDUTA - 1° partecipante - 3° gioco

1.3 - SCENA CON LO ZIO: IN MONTAGNA A 10 ANNI. “Ho passato tutta la vita a cercare di sentirmi dire almeno da lui che ero intelligente. Lui è una persona importante e si interessa anche di questioni internazionali... Lui mi portava spesso in montagna ed io mi sono sempre sentita la nipote preferita ... Una volta, su una parete rocciosa, mentre lui era capocordata, un’altra persona, più in alto, aveva fatto cadere sassi e lui mi aveva urlato “sei sempre la solita”, ma era chiaro che non ero stata io... Io ero dietro... Si mette in scena questo frammento. “Come ti senti?” - chiede il conduttore? “Non mi sento neanche arrabbiata; mi sento mortificata.” Chi ha fatto la parte dello zio dice: “ti ho detto così perché da te mi aspetto moltissimo... Educare vuol dire questo: chiedere di più e non dare zuccherini.” Il vissuto è:... mi sento niente ... senza possibilità di reagire.
ATTACCO AL PENSIERO: capita a volte di trovarsi in una situazione di questo tipo, per dirla con W. R. Bion, o in situazione glischrocarica se il riferimento è a J. Bleger. In un gruppo e in un’organizzazione di lavoro ciò è molto frequente. Ma questo evento può essere accolto come segnale che sta ad indicare qualcosa di importante su cui si può meglio orientare il proprio ascolto e la propria ricerca. “Non mordermi il dito; guarda cosa sto indicando” - dice un famoso adagio. Come tendo ad uscirne quando mi accorgo che quel gruppo o quella persona tende ad indurmi stati mentali di tipo confusionale? L’uscita è tendenzialmente di tipo persecutorio, depressivo, progettuale, cos’altro?

PRIMA SEDUTA - 2° partecipante - 4° gioco

2.1 - “I CAPI NON MI PIACCIONO!” - commenta esplicitando il suo vissuto la partecipante cui era stato chiesto di interpretare la parte del primario. “Per quale santo ho dovuto fare io il primario? Perché mi hai scelto per fare quella parte?” “Perché hai una faccia decisa, e sei abbastanza vecchia per fare il primario” - è la risposta. “Vuoi dire che ho una grinta stronza e la cresta come un capo? A me piace essere attraente in senso artistico, oltre la bellezza o bruttezza del fisico”. Ipso facto il conduttore le propone di giocare, di mettere in scena i suoi vissuti.
QUALE È IL MODELLO DI CAPO CHE CONOSCI MENO? Ci sono tanti modi di essere capo e di entrare in relazione con le emozioni che sempre l’autorità suscita. È in atto un duro confronto/scontro tra modelli infantili ed adulti. L’idea di poter essere capi, nel senso di costituirsi come punto di riferimento per altri, non è facile da accogliere, gli stereotipi sono più rassicuranti; per un bambino nascondersi e dover sempre dire “mezze verità” può essere una necessità di sopravvivenza ma per un adulto che ama il proprio progetto rispetto al quale il capo è una risorsa? O non lo ama? Che ci fa allora lì? Perché si sta tappando il naso aspettando le ferie o la pensione? Che vita sta vivendo? A che tipo di progetto personale e sociale sta di fatto lavorando? Il capo è maschio o femmina o androgino?

PRIMA SEDUTA - 2° partecipante - 5° gioco

2.2 - SCENA COL MARITO. “Mio marito è medico e oggi che è sabato lui è a casa dal lavoro e voleva piantare patate nell’orto. Voleva che lo aiutassi e invece sono venuta qua. Non gli dico tutto ... non capirebbe. “Vado a un corso d’aggiornamento” - gli ho detto. E lui: “all’età che hai non ti sei ancora aggiornata abbastanza?”. “È un casino: se mi prendo spazi per me ne soffre la coppia e la famiglia...”
VISSUTI PERSECUTORI 1: sembra una storia senza via d’uscita. Il “mondo esterno” però può offrire un’ottima palestra per allenare proprio quei vissuti interni che nel passato non si è potuto conoscere bene. Si dice che i figli possono riuscire ad educare i genitori; perché non anche i capi? Ed i partner tra di loro? E i colleghi? Sembra che il problema sia quello di mettere meglio a fuoco il proprio progetto di sviluppo personale e professionale. Cosa desidero fare da grande? Qual è il mio potenziale? Ho voglia di crescere? Cosa posso realisticamente fare per auto-promuovermi? O per starmene ferma! Però senza lamentarmi, per scelta di vita...

PRIMA SEDUTA - 2° partecipante - 6° gioco

2.3 - SCENA CON LO ZIO BIGOTTO. Si parla di scontro e contrapposizione di modelli. Si gioca una scena del passato con uno zio importante - il sindaco del paese - presso cui lei, adolescente, era in vacanza. Lei aveva cominciato a frequentare in segreto un ragazzo che le piaceva. La notizia era però giunta allo zio che aveva saputo dal vigile che lei si incontrava con un ragazzo che aveva una 500. Così si era dovuta sorbire un lungo sermone ed aveva dovuto tenere nascoste le sue emozioni, Non restava che piangere. Di nascosto.
VISSUTI PERSECUTORI 2: quello che qui viene evocato sul piano affettivo (“ma con grinta stronza e cresta da capo” - dice la protagonista) è un capo visto dal punto di vista di un sottoposto (non certo un collaboratore) che non riesce a trovare un buon modo per interagire con i “grandi”, come invece vorrebbe. Nel periodo adolescenziale questo è un conflitto molto importante e tende a fondare il proprio stile di relazione con chi è titolare di un’autorità di ruolo. Rinunciare a ri-conoscere quale è il mio stile di incontro, di relazione con l’autorità? Il rischio è quello di vivere risentiti, in confidenza solo con i propri “lontani” vissuti persecutori.

PRIMA SEDUTA - 3° partecipante - 7° gioco

3.1 - HAI FATTO SOLO IL TUO DOVERE: un’altra partecipante risuona sulla lunghezza d’onda di una dinamica familiare ispirata a modelli educativi dichiaratamente Calvinisti. Evoca i rapporti col padre ed il fratello gemello: “mai che dicano sei stata brava!” Viene messo in scena il momento in cui aveva portato a casa una pagella con tutti otto ed anche nove... “Bene, brava” - aveva detto il padre senza entusiasmo. Poi aveva aggiunto in tono dimesso - “hai fatto solo il tuo dovere”. “No! - dice la protagonista. Il dovere è sei!”
IL DOVERE VALE 6 E NON TUTTI 8! Da qui si può accedere ai più classici problemi organizzativi, ai temi della tanto ricercata qualità totale e, prima ancora, a quelli della motivazione, di nuovo della relazione con l’autorità esterna e interna, con il potere, con la buona e la cattiva legge, con le emozioni connesse al cambiamento, con l’eteronomia o l’autonomia e così via. A questi approdi si può arrivare anche a partire dal tema, tanto di moda, della “cultura del servizio” e dalla conseguente possibilità di far crescere o inibire la catena del valore che si crea nelle relazioni di transito tra un soggetto e un altro o tra un ufficio ed un altro, tra una pluralità di soggetti diversi e cosi via. Che fare? Aggiungo valore, sottraggo valore o mi accontento del 6 politico?

PRIMA SEDUTA - 3° partecipante - 8° gioco

3.2 - L’EX FIDANZATO PERFIDO: il gioco prosegue mettendo in scena l’ex fidanzato che “non ti dà mai la soddisfazione di essere all’altezza e che fa dell’ironia perfino su come parlo...” Nella scena era stata giocata una telefonata di lavoro: occorreva vistare una fattura per poterla mettere in pagamento. “Occorre - dice la protagonista - essere seri e professionali sul lavoro anche se ci sono stati in passato rapporti sentimentali”. Nel gioco, l’ex fidanzato, con tono insinuante le dice della fattura non vistata. E in lei ritorna quel fastidioso vissuto di “non essere all’altezza”. Perché - commenterà poi - non riesco a dirgli “sei un grande stronzo!”? Attraverso i rimandi ed i vissuti di tutti gli attori emerge la difficoltà a comunicare alla figlia o alla collega anche il bene, l’affetto, la stima. Il rischio di essere fraintesi è grande. SERI E PROFESSIONALI: ma questo non è che un pio desiderio se l’altro sa usare la tecnica della squalifica sul piano emotivo per colpire sul piano professionale. L’organizzazione asettica è un mito difensivo. Anche questo gioco può aprire a temi classici nell’area del comportamento organizzativo: quanto il conoscersi in modo più approfondito, intimo, costituisca risorsa o handicap per la qualità delle relazioni di lavoro. Gli organigrammi ufficiali - pur molto utili in quanto almeno esplicitano il dichiarato di un gruppo che lavora - non aiutano a districarsi in questa selva di relazioni affettive sottostanti. Attrezzarsi anche su questo piano può essere individualmente ma anche socialmente utile. Il rischio di essere fraintesi è grande soprattutto quando - paradossalmente - i sentimenti in gioco potrebbero disporsi nel campo della positività. Sul lavoro - e non solo lì - metterla sul negativo, enfatizzare i problemi e le difficoltà, vedere il bicchiere sempre mezzo vuoto sembra uno standard relazionale più rassicurante. Perché? Saper ri-conoscere e trattare meglio i vissuti di ruolo e istituzionali relativi all’emozione dell’invidia (e dell’auto-invidia) può essere di qualche aiuto anche sul piano personale?

Noto che tutti i presenti sono sorpresi per l’effetto gruppo che si sta creando; il gruppo tende ora a diventare un moltiplicatore di opportunità “molti frammenti che mi riguardano personalmente li ho ritrovati nelle storie di altri” - commenta un partecipante.

La seduta si conclude con il conduttore che osserva che nel gruppo si sono susseguite “immagini molto varie, più personali che professionali” [Curioso, annoto da osservatore più esterno, si sarebbe potuto sostenere anche il contrario]. “Per quanto riguarda l’aspetto professionale - continua - occorre porre attenzione a non farsi ridurre ad un ruolo sociale ma a valorizzare la dimensione simbolica, immaginale del ruolo. Passa poi a dire qualcosa in relazione ai singoli giochi. I rimandi si riferiscono a:

1° Protagonista. Il problema sembra essere come scegliersi uno spazio per sé e con sé. Lo zio le vuole bene ma non coglie cos’è sua nipote di per sé. La madre proietta nella figlia ciò che lei non è stata; allora come poter essere sé ed essere visti per quello che si è? Spesso gli altri dispongono di un’immagine costruita a priori che non è facile modificare.

2° Protagonista. Mi scelgono per fare il primario per la faccia che ho ma io mi sento di essere qualcosa di diverso, più artistico, più indefinibile. Il marito sembra più legato a situazioni pratiche mentre la protagonista del gioco desidera riconoscimenti di sue parti più dinamiche. C’è poi il dilemma: poter essere ancora ragazzina o dover essere la seriosa nipote dello zio sindaco? Ma lo zio non accetta, e alla ragazzina sembra che sia possibile solo piangere. Fratelli, fidanzati, mariti e capi si muovono sulla scena esterna come altrettante nostre parti interne...

3° Protagonista. Il fidanzato “simpatico stronzo” sembra rappresentare l’ideale che è stato trasmesso dal padre. Occorre arrivare sempre più su; non basta prendere 8, 9 o 10, occorre prendere 13,5! I rischi di idealizzazione sono molto alti.

SECONDA SEDUTA - 4° partecipante - 9°/12° gioco

4.1 UN SENTIERO CHE NON SI SA BENE DOVE PORTA ...

4.2 “Devo essere matura: la morte dei miei genitori mi ha maturato, ma ho paura di mostrarmi...”

4.3 Scena futura: “immaginiamo che tu ti mostri al gruppo”. Silenzio. Cambio: “Sono il gruppo e sento le cose che lei con quel silenzio mi sta dicendo ... capisco, è ancora troppo pesante quel fardello, più di così non può fare...”

4.4 “Ti va ora di esporre qualcosa al gruppo?” “Sì, ora sì”. Ed ecco la scena drammatica dell’incidente mortale ... con il gruppo che risuona, che sente l’autenticità, che partecipa e condivide, che è solidale non solo con le parole; “sente”, ed i sentimenti possono allora esprimere un disagio che adesso può trovare le parole per essere più realisticamente pensato ed attraversato.

Gli altri: “era chiusa nel suo dolore ma ora ha deciso di uscirne. Mi è piaciuta. Ci ha fatto un dono...” La protagonista: “l’ho fatto perché ho sentito che ora potevo fidarmi, che qualcun altro poteva in quel momento condividere, senza danni, una parte del mio peso. Ora mi sento meglio”.

“NON VOGLIO APPARIRE DEBOLE anche se il peso che ho sulle spalle è enorme.” È una situazione ricorrente che spesso si cerca inutilmente di tenere nascosta. Anche sul lavoro si può distribuire parte del peso e contemporaneamente aumentare il livello di benessere per sé e per gli altri?

La sfida sul lavoro, ma anche nel proprio privato, è grande; quando ciò accade la persona o il ruolo si trasformano in un sintomo vivente di sofferenza che tenta di indicare disperatamente altro ... che però non riesce a dire se non attraverso il sintomo, salvo che qualcosa non riesca ad accadere agendo sul livello del contesto.

Anche il tema della fiducia e della capacità di tenuta emotiva mia e dell’altro è un tema importante all’interno di ogni gruppo di lavoro. Poter con-dividere pesi eccessivi e sentirsi, tutti, un po' meglio ... forse non è poi così paradossale.

Sembra un problema di premesse. Forse non è impossibile attrezzarsi anche per poter lavorare su certe premesse, verso nuove, più autentiche solidarietà organizzative.

SECONDA SEDUTA - 5° partecipante - 13°/15° gioco

5.1 “NON REGGO QUANDO VEDO CHE UN’ALTRA STA MALE; ma mi dispiace emozionarmi, soprattutto sul lavoro. Quando l’altra ha davvero bisogno di un aiuto è la volta che si arrabbia e diventa aggressiva con me che sono invece lì proprio per aiutarla”.

5.2 Scena contraria: “Una volta in cui eri tu ad avere bisogno della conferma degli altri” - propone il conduttore. “Se la classe non avesse capito quel che stavo spiegando mi sarei sentita malissimo... E invece, per fortuna i feedback sono stati positivi...”

5.3 “Faccio fatica a far capire un concetto quando non ce l’ho chiaro nemmeno io; e non posso dire alla classe ‘m’informo’. Mi sento sleale...”

“Quando mi aiuta qualcuno è come se mi dicessero che non valgo niente; vorrei essere all’altezza della situazione e non lo sento...” Dice la protagonista. E ancora: “Mi fanno male i sorrisi del gruppo e quando vedo che le persone parlano tra di loro sottovoce ed io non capisco.”

CONSULENZE AL RUOLO. Ci sono problemi connessi al dare aiuto e l’enfasi viene di solito posta al “maschile”, su come “penetrare”, su come dare aiuto. Ma una relazione di lavoro orientata da un obiettivo - se davvero è tale e non autistica - è sempre ricorsiva, ha bisogno contemporaneamente di dare e di ricevere.

Tra adulti impegnati in un lavoro (di squadra?) si richiede di saper gestire bene un ruolo e di saper interagire bene con gli altri ruoli, interni ed esterni. E i problemi connessi al ricevere aiuto - soprattutto nel servizio pubblico - vengono molto spesso sottovalutati.

Se tutti però si concentrano solo sul dare, sul penetrare crescenti difese, e non anche sull’accogliere, ascoltare e ricevere ciò che l’altro comunica davvero, tutto diviene più doloroso, non solo con i pazienti o con i clienti.

Ad esempio le riunioni di équipe diventano persecutorie e impossibili. L’intera istituzione ne soffre. Che training occorre attivare per esercitare bene una professione che si fonda sul dare e ricevere aiuto? In un team dinamico, il trattamento delle emozioni connesse al buon andamento di questa dimensione lavorativa rappresenta un dato normale, quotidiano, che va gestito. Professionalmente.

O è un optional?

SECONDA SEDUTA - 6° partecipante - 16°/18° gioco

6.1 UN SOGNO RICORRENTE: guidare un’auto e non avere il controllo del veicolo che marcia all’indietro e in forte discesa; niente freni, niente marce, solo un po’ di sterzo e lo specchietto retrovisore. “La velocità è troppo alta e per forza provocherò un incidente. Mi sveglio con una tensione altissima.” racconta un altro partecipante sollecitato dai vissuti emersi nella scena precedente.

6.2 “Mi sono laureato in sociologia ma nell’USL non c’è la mia figura professionale. Vivo un senso di inferiorità. La mia tesi riguardava ‘Il lato oscuro delle organizzazioni’ vedo buio, vedo ombre, sento che non ce la faccio, come nel sogno”.

6.3 “Un momento in cui, sul lavoro, ti sei buttato a fare una cosa senza vedere bene cosa stavi per fare” - suggerisce il conduttore. “Ecco, tempo fa, una riunione d’équipe ... la lite con quello stronzo del neuropsichiatra; ora sono costretto ad adattarmi”.

“Un momento di quando hai iniziato ad adattarti. Vai alla tua infanzia” - incalza il conduttore. “Sì, Nel parco giochi, alle elementari, alla ricerca di una ragazza di cui mi ero pazzamente innamorato ... lei fa finta di niente ... Lei non prova ciò che io provo per lei, sono sicurissimo. E’ bellissima. Devo essere indifferente ... è meglio non scoprirsi troppo. Se lei non mi amasse ed io mi svelassi sarebbe terribile... però non può più andare avanti così ...”

* * *

Commenti dei partecipanti:

- I bambini sanno amare, ma...
- Quel modo di fare è sbagliato, ma lo faccio anch’io e non so perché...
- Mi hai fatto rabbia quando hai detto che ti stai adattando ... però lo faccio anch’io...

NARCISISMO, PROBLEMI DI POTENZIALE E DI PRESTAZIONE. Vedo buio, non vedo dove vado e nello specchietto (lo strumento di cui dispongo) vedo sì le cose, ma alla rovescia. Vedere ombre, vedere cose indirettamente, di riflesso come in uno specchio. Rischio di narcisismo da un lato (scambiare l’immagine riflessa per qualcosa altro da sé e magari con-fondersi in essa in un abbraccio mortale) e di mortificare un grande potenziale in termini di capacità esplorativa (apprendere a conoscere per speculum, unica via per accedere a ciò che non può essere guardato direttamente negli occhi, come un altro mito, quello di Medusa, insegna).

Ma qui, una persona con potenziale, rischia di rinchiudersi dentro una prestazione lavorativa insoddisfacente solo perché il ritirarsi è vissuto come più rassicurante sul piano emotivo.

C’è poi il tema classico della membership e della leadership e le dinamiche delle riunioni di lavoro... “Ormai non parlo più perché ogni cosa che dico mi si ritorce contro...” - aveva commentato il partecipante”. Un classico in tutti i contesti ... Come il problema della buona gestione delle riunioni di lavoro: uno dei più potenti strumenti di integrazione organizzativa, di rivisitazione e taratura di obiettivi comuni sfidanti, pieno di opportunità protette da grandi insidie.

È noto che, nelle organizzazioni malate, le riunioni non si fanno proprio, o si fanno male, con strani rituali volti a rassicurare tutti che niente di fatto cambierà; attraversare la sofferenza che protegge lo status quo sembra essere impresa impossibile, un problema che in ogni caso riguarda sempre “gli altri” ...

Sono laureato, e dovrei avere una posizione forte, invece... non ho nemmeno la possibilità di esprimermi (con vissuti di onnipotenza o di impotenza continuamente da gestire).

Adattarsi, piegarsi, rischiare di spegnere la fiamma dell’amore, della propria germinabilità a causa della difficoltà a entrare in relazioni potenzialmente conflittuali ... e un giovane rischia di diventare psicologicamente un vecchio, uno dei tanti zombi che vagano dentro le istituzioni. La burocrazia difensiva cresce anche grazie a questo. Chi aiuta l’istituzione a far crescere il potenziale oltre che la prestazione?

Le emozioni cominciano a muoversi a tutto campo: se nella prima seduta erano emerse soprattutto le aspettative di madri, padri, zii, con rimandi ai miti familiari, (evocati tuttavia dalle relazioni del presente con capi e miti organizzativi) in questa seconda seduta emergono i punti vulnerabili dell’individuo con le difficoltà e i pudori connessi al mostrare le proprie parti deboli. Con la scoperta sorprendente che, a certe condizioni, quello che viene vissuto come un peso insopportabile non solo può essere meglio distribuito nella propria gruppalità interna ed esterna, ma che il poterlo con-dividere può essere vissuto dall’altro come un dono, come un atto di fiducia in grado di trasformare ciò che prima era una minaccia in una nuova opportunità di crescita umana, e quindi anche professionale.

Il conduttore psicodrammatista ripercorre gli eventi rimandando alcune osservazioni agli attori che hanno “giocato”:

4° Protagonista. “Ci sono difficoltà a mostrare parti di sé al gruppo ma il gruppo può funzionare come uno specchio; altri hanno i nostri stessi problemi e allora disporsi all’incontro con altri può diventare un atto di fiducia verso sé. Nell’incontro, se la qualità relazionale è adeguata, si può mostrare anche la propria parte ferita e non solo quella sicura. Con vantaggio di tutti”.

5° Protagonista. “Quanto più il terapeuta o l’assistente sociale [o un capo] è bravo con consigli, interpretazioni azzeccate e così via, tanto più il paziente si sente ricacciato nella sua drammatica posizione di paziente [o di dipendente]. Quanto più la protagonista aveva ragione tanto più la paziente reagiva in modo aggressivo. Il cambio di ruolo aiuta; la professoressa che riesce a mettersi dal punto di vista degli allievi ora riesce ad instaurare buone relazioni e tutti ora capiscono la lezione”. [non a caso le organizzazioni sane riescono a praticare molta job rotation].

6° Protagonista. “Qual è il punto debole? Perché questa difficoltà a procedere in avanti col rischio di cadere all’indietro disponendo solo di pensieri laterali? Ora che si è laureato vuole prendere di petto le situazioni: si sente oppositore sistematico, forte della sua “forte” teoria però si sente a disagio, inautentico, perché col neuropsichiatra vorrebbe anche andarci d’accordo. Quello che non vuol mostrare al collega, così come alla ragazzina alle elementari, è il suo profondo desiderio di approvazione... Non dico niente e vado sul sicuro; però desidero la loro approvazione che non arriva; ciò mi rende insicuro. Forse andare indietro ha a che fare con una situazione che al momento non riesce a controllare. In effetti nei giochi successivi si vede una situazione in cui si cerca sostanzialmente di evitare i problemi; scambi sì, ma non molto esposti...”

TERZA SEDUTA - 7° partecipante - 19°/20° gioco

7.1 UN’AMICA SEMPRE VISPA E FRIZZANTE; “Come va? - Chiedo. E Lei sempre: “Bene, benissimo!” E io vorrei che mi dicesse la verità, perché so che non va proprio tutto bene... Così mi ritrovo sempre io a fare la parte della bisognosa. Ma non voglio che lei mi viva come una che ha solo bisogni. Non è così”.

7.2 “Ti ricordi - chiede il conduttore - qualche altra volta in cui tu ti trovavi nella situazione della tua amica, in cui non volevi che qualcuno ti inchiodasse?...” “Sì, mia mamma, in terza superiore, non approvava le mie scelte. Una sera a cena ero silenziosa e lei: “cos’hai? Come va?”. “Niente, va tutto benissimo”, le dicevo. E lei, dopo molta insistenza: “Ti devi aprire con la tua mamma”. Ma non potevo farlo perché sentivo distanza, sentivo che lei non mi avrebbe capita. Lo avrei dovuto fare solo per dovere e non volevo”. Dopo aver giocato la scena commenta: “se avessi detto qualcosa di me mi sarei mostrata bambina ed avrei scoperto mie debolezze e paure col risultato che lei mi avrebbe dato ancor di più il suo affetto e questo mi avrebbe fatto tornare indietro. Ho il diritto di sbagliare!”. E ancora: “Non credevo che - giocando - mi sarebbe tornata su questa cosa, anche se adesso la sento meno forte di altre volte; piacevolmente sento che questa ferita ora sanguina meno forte di altre volte...”

RISCHI DI FUGA NELLA GUARIGIONE ... Ho il diritto di sbagliare; sbagliando s'impara, dice un antico adagio.

Ma nelle organizzazioni di lavoro come si può affrontare questo strano paradosso?

Sul lavoro si assiste spesso a precipitose fughe nella guarigione, personali e istituzionali. Come va il tuo lavoro? Benissimo! Hai capito cosa c'è da fare? Perfettamente! E poi però la gente sta male, somatizza. Piange di nascosto.

E i risultati auspicati e declamati in ponderosi documenti ufficiali non si vedono; ma di questo non si può nemmeno parlare. E' tabù.

TERZA SEDUTA - 8° partecipante - 21°/22° gioco

8.1 “QUELLA SCENA NON ERA REALE! Questo non è possibile”, commenta un’altra partecipante. “Anch’io ho una figlia di quell’età ma credo di avere un filo diretto con mia figlia”. “Com’è tua figlia”? - chiede il conduttore. “È bella ed è tutto quello che non sono stata io”. “Come avresti voluto essere?”. “Più dolce ... e invece sono titubante e quindi faccio il viso deciso!” Si gioca un frammento in cui la figlia - al mattino - saluta affettuosamente la mamma prima di uscire di casa. “Mi piace proprio questa ragazza qua - commenta la protagonista - è debole e amata. È debole ma anche forte. Mi sento stracolma quando penso a lei.”

8.2 “Ho invece pudore a baciare mio figlio; mi sento a disagio. Lo prenderei a cuscinate” ... Una scena col figlio, quando, piccolo, giocava col lego. Ecco che fa un aereo, il cielo azzurro, poi si butta ... lancia il lego divertito, fa capriole.

La mamma è preoccupata. “Giocavo in modo fantasioso e pieno di sorprese per farti vedere come sono bravo; volevo farmi notare da te e tu sei invece preoccupata per altre cose; non mi vedi...” - commenta chi ha interpretato la parte del figlio rivolto alla mamma che invece era preoccupata perché “lo vede” troppo irrequieto. “Che cosa fa oggi tuo figlio” - chiede il conduttore. “È in servizio militare e fa il paracadutista ...”. Il gruppo ride, ma la mamma fatica a capire...

È POSSIBILE RI-CONOSCERE L’EMOZIONE CHE STA ALLA BASE DEL MIO ATTUALE PROGETTO DI VITA E DI LAVORO?

“Sguardo e destino” titolava un libro di A. Gargani di qualche anno fa e si riferiva allo sguardo del padre. Ma prima ancora c’è l’incontro con lo sguardo della madre; è quello che ti riconosce e ti mette al mondo, è quello sguardo da rivisitare e riattraversare.

Sembra questo un appuntamento che non può essere evitato per chi desidera prendersi per mano, per chi vuol provare ad ascoltare i propri desideri e tradurli in un progetto personale soddisfacente, non fondato su un’emozione di totale dipendenza o di disperata controdipendenza.

Come “senti” che ti sta guardando l’istituzione entro cui operi? Ti è possibile ri-conoscere e ri-attraversare con modalità progettuali le tue matrici professionali?

TERZA SEDUTA - 9° partecipante - 23°/25° gioco

9.1 METTERSI IN SECONDO PIANO; rinunciare e anche cercare la competizione: la protagonista di questo gioco si sente spesso in competizione con tutti e non capisce bene perché, spesso rinuncia, si trascura, veste male... “Si tratta di un’emozione ricorrente” - aggiunge; ha un fratello che ha lo stesso nome del figlio che è stato messo in scena nella scena precedente. La risonanza è stata forte. La situazione familiare sembra opposta. “Fa presto a vestirti perché se tua sorella si accorge che sei ancora qua e hai dormito nel lettone al posto del papà, si arrabbia...”. La protagonista - sette anni - è dietro la porta perché stava per andare a salutare la mamma prima di andare a scuola; sente la conversazione e scappa via. La sera prima aveva chiesto alla mamma se lei poteva dormire nel letto del papà che quella notte non c’era. E la mamma le aveva detto di no. “Provo tristezza e abbandono, essere messa in secondo piano ... devo rinunciare alla competizione”.

9.2 “Una scena di rivalità di qualche anno dopo, - suggerisce il conduttore. Viene a sapere che nella riunione con i docenti questi han detto di lei “Sì, è brava ma non come suo fratello che è sempre ben ordinato, veste con giacca e cravatta. Lei è un po’ ‘zoticona’, deve essere più carina”.

9.3 “Se continuo ad imitare mio fratello sarò sempre al secondo posto. Dovrò imitarlo per tutta la vita. E la mia personalità? Forse è meglio essere il contrario di lui ... Vestire trasandato è un modo ... sono diventata competitiva, ho trovato una mia strada” - suggerisce il conduttore doppiando la protagonista. Al momento dello scambio dei vissuti emerge che il problema ora non è tanto con il fratello. “Mi accorgo che era mia madre che ci metteva in competizione; con mio fratello siamo vicini, lui ha rotto con la famiglia e ora parla solo con me...”

CHI CERCA TROVA ... QUANDO LE EMOZIONI RICORRENTI AIUTANO A CAPIRE MEGLIO.

Esistono emozioni ricorrenti in una organizzazione? Cosa risveglia un’emozione ricorrente? Può essere ascoltata? Il ri-conoscerla e poterla accogliere offre opportunità trasformative?

La rivalità, la competizione; cose ritenute brutte. Meglio orientarsi fin d’ora verso la “pace dei sensi?” Ma in cum-petere c’è sia il concetto di competizione che di competenza; c’è il tema del rivaleggiare ma anche del con-correre, correre insieme.

Sullo sfondo, depositato nel setting che garantisce lo status quo, è in agguato un’emozione organizzativa da conoscere bene se ci si vuole avviare in modo non velleitario sulla strada del cambiamento. Si tratta dei vissuti conosciuti col nome di invidia. Dispongo di strumenti professionali in grado di trattarla bene, in modo evolutivo?

TERZA SEDUTA - 10° partecipante - 26°/29° gioco

10.1 “SENTIRSI SCAVALCATA ... DA PERSONE CHE CREDEVO AMICHE. Amiche d’università, o almeno persone che credevo amiche. Abbiamo condiviso molte cose insieme e discusso tanto, compreso il cosa fare dopo la laurea. Io ero l’unica che cercava ovunque un lavoro, mentre un’altra diceva che a lei il lavoro non interessava, che avrebbe fatto la casalinga. Avevo fatto un sacco di domande anche in scuole private.” Accade che da una telefonata casuale con una di loro si scopre che l’altra amica ha trovato lavoro. “Ma come - chiede la protagonista - non era quella che non voleva lavorare? “E’ vero - si sente rispondere dall’altro lato del telefono - ma poi io le ho fatto trovare un lavoro in una scuola privata...”. La protagonista si complimenta al telefono ma dentro è furente. “Perché va ad offrire un lavoro proprio a lei e non a me, visto che sa quanto lo desideri? - rimugina - mi ha fatto proprio un brutto scherzo...”

10.2 Nel cambio di ruoli esce che la protagonista - figlia unica “prediletta”, molto seguita, che ha sempre vissuto “di rendita dell’immagine positiva che i genitori avevano” - fatica ad adattarsi all’imprevedibilità, all’irrazionalità, alla non linearità di comportamenti, tipica delle relazioni tra fratelli.

10.3 Viene giocato un flash di quando era bambina: uno scherzo fatto ad un bambino che abitava nell’appartamento vicino al suo e col quale giocava spesso. “Sai, vorrei dirti una cosa ma non so se faccio bene”. “Dimmi dai...” - si incuriosisce il bambino. “Va bene ... te lo dico: tu non sei figlio dei tuoi genitori, sei stato adottato!”. “Hai preso un colpo in testa?” - ribatte - “non vedi che sono come la mamma?”. “Ma credi davvero che i tuoi genitori siano così sprovveduti? Ti han scelto apposta così!”. Il bambino comincia ad avere qualche dubbio ma non lo dà a vedere e la protagonista incalza: “Me l’han detto i miei genitori; ti han trovato in un posto in cui c’erano tanti bambini e ti han scelto simile a loro...”. Si saprà poi che la notte l’amichetto non dormirà e che i genitori si dovettero prodigare per scusarsi e ricucire alla meglio le relazioni. Sua madre, molto arrabbiata, la rimprovererà dicendo “tu non sei mia figlia!
Nel reparto maternità ti hanno certamente scambiata! ...”

***

Al momento dello scambio dei vissuti questa “grossa bugia” - come la definisce la protagonista - volta a torturare i propri compagni di gioco, apre inquietanti domande: chi sono? Chi sono i miei genitori? Quali sono le mie origini? Chi mi ha adottato fino ad oggi? Ed emerge il bisogno di frequenti conferme e rassicurazioni.

FRATELLI VIRTUALI E SCHERZI DEL DESTINO.

Cosa nasconde la relazione tra fratelli? Tra colleghi? Cosa significa in una organizzazione essere figli legittimi o sentirsi adottati e attivare scherzi ed incidenti allo scopo di sentirsi confermati nel proprio vissuto? “Lui è un raccomandato!”

Come affrontare le sensazioni di sconcerto che si accompagnano ad ogni cambio brusco di parametri di valutazione e di azione?

Scherzi più o meno convincenti del destino capaci di rendere insonni o di popolare di incubi certi momenti della nostra storia personale e professionale. Ma è proprio “quando il gioco si fa duro che i duri cominciano a giocare...” E in questi casi barare non paga...

Il mondo del lavoro obbliga ogni giorno a fare i conti con le emozioni connesse a quel che G. Bateson chiama processo stocastico; gli esiti vitali sono sempre il frutto di una combinazione di eventi intenzionali che si incrociano con eventi casuali.

È possibile apprendere non solo a reggere ma anche a muoversi utilmente in questo mix di eventi, anche mentre si persegue un obiettivo di lavoro?

Anche al termine di questa seduta vengono offerti ai singoli protagonisti dei giochi, spunti di riflessione che riguardano il piano personale, privato, in modo che, chi lo desidera, possa ulteriormente lavorare anche su di sè. Il conduttore psicodrammatista rimanda alcune osservazioni:

7° Protagonista. “Non mostro i miei momenti di debolezza perché ora voglio essere autonoma. E per diventare autonomi, soprattutto quando gli altri ti assillano con le loro richieste che tendono a far emergere punti deboli, non si può che mostrarsi sempre e comunque OK - sembra dire la protagonista - soprattutto quando è la mamma a essere invasiva ...”

8° Protagonista. “Non sono una mamma invasiva e con mia figlia questo problema non c’è, mi sento in sintonia, la sento come una continuazione ... ma l’altro figlio chiede autonomia e sembra voler fare cose imprevedibili per potersi differenziare dalle aspettative della madre. Cerca una vita attiva, con tratti maschili marcati, forse nel tentativo di sfuggire al rischio di essere intenzionato dalle aspettative della madre”.

9° Protagonista. In queste scene familiari emerge una mamma che privilegia il maschio e una figlia che cerca di trovare la propria autonomia dovendo scegliere tra i vari ruoli familiari e incontrando difficoltà a trovarsi un ruolo nuovo, tutto suo. Sta scoprendo un ruolo nuovo rispetto a quello del fratello e forse troverà lì la sua strada”.

10° Protagonista. “Lei non ha il problema di ritagliarsi un proprio ruolo tra i fratelli perché è figlia unica ma ha un problema di differenziazione rispetto a se stessa, di attendibilità dei parametri per lei nuovi che incontra sul suo cammino. L’amica sembra seguire altri criteri nel trovare lavoro all’altra amica. E lei si interroga in modo molto particolare anche sulla sua origine”.

Il gruppo di psicodramma chiude qui la sua attività. Mentre nella prima seduta il messaggio implicito dei genitori o più in generale delle proprie origini è del tipo “Devi essere così! Ti adegui o no?” e nella seconda “Posso, mi conviene mostrare i miei punti deboli, mostrarmi vulnerabile, o no?”, nella terza l’implicito sembra essere “No, non mostro i miei punti deboli perché ora sono autonoma e so difendermi da sola”, ma ...

SEDUTA CONCLUSIVA e DINAMICHE FINALI

Con l’osservazione ormai a tutto campo e con il timore implicito di non potersi difendere dalle invasioni indebite, si ritorna al tema iniziale e il dato di base sembra questo: ci ritroviamo con una importante e insieme pesante eredità che ci proviene dai genitori, e più in generale - ampliando il modello di riferimento - dalla cultura, cultura organizzativa inclusa. Si tratta di un’eredità che siamo abituati a considerare ed a trattare in modo spesso semplice, lineare, sequenziale. Si pensa spesso a verità date una volta per sempre e lì è facile attaccarsi in cerca di un po’ di sicurezza. Ma questa è una sicurezza - un’epistemologia - tutta da riscoprire, in quanto si regge necessariamente su fondamenti anche incerti; a volte il caso, uno scherzo, uno sconcerto affettivo, un evento della vita anche piccolo, ci obbligano a riprendere in mano molti parametri della nostra storia personale e professionale e spesso non siamo attrezzati per affrontare e condividere il dolore che tutti i cambiamenti di qualità sempre portano con sè.

Ciò che ritenevamo trasmesso e deciso una volta per tutte si rivela - grazie a momenti di crisi - solo la premessa per una affascinante, e a tratti drammatica, nuova opportunità vitale. Da cui, da un lato il tentativo di sminuire la portata rigeneratrice della crisi con conseguente ipo-crisia galoppante, dall’altro la necessità di apprendere a dare e ricevere proprio grazie ad una maggiore capacità di ascolto e di transito anche attraverso vissuti problematici. Sembra che occorra lottare per rendersi autonomi dai genitori salvo poi scoprire che per poterlo davvero fare occorre riuscire a farci adottare nientemeno che da noi stessi. Allo stesso modo, lottare per rendersi autonomi e creativi nelle organizzazioni di lavoro richiede capacità di riconoscere e accogliere le matrici culturali, poterle utilmente attraversare, e disporsi a concorrere alla loro evoluzione, varcando quella soglia del dolore che ogni crisi, ossia ogni rottura di stereotipi, sempre richiede.

Impossibile riprendere in dettaglio e in quel particolare contesto di fine giornata - con i partecipanti che mandano segnali di avere mangiato bene ed a sufficienza - i tanti spunti che i vari giochi potrebbero suggerire, spostando lo scenario più sul versante professionale. Si decide - su richiesta di alcuni partecipanti - di richiamare con qualche flash di carattere generale il modello psicosocioanalitico, in particolare per quei partecipanti che ne sentono parlare per la prima volta. Ed ecco presentarsi la metafora del puer - episteme, mostro e tesoro - che sempre riesce a prendersi i suoi spazi di attenzione con la sua capacità germinativa intrinseca, che riesce ad adattarsi ma anche ad andare oltre ogni difficoltà; si tratta di una parte interna capace di inventarsi - con una creatività incredibile - anche le difese più ingegnose, col rischio però di implodere e di auto rinchiudersi in una terribile angosciante trappola. Viene poi messa in lavagna una mappa utile per muoversi nel territorio della psicosocioanalisi (scheda n. 2).

(E. Ronchi, scheda 2)

Si tratta di quattro distinti quadranti/territori, tra di loro comunicanti, da percorrere e vivere con abilità e strumentazioni specifiche, però appartenenti ad un unico più ampio territorio che li ricomprende dando loro nuovo senso. Come se occorresse saper vivere bene e muoversi adeguatamente nelle quattro stagioni senza confondere ad esempio l’estate con l’inverno e soprattutto evitando di usare come risorsa il cappotto pesante quando in estate fa caldo afoso e poi magari lamentarsi per il clima insopportabile. C’è bellezza e difficoltà in tutte le stagioni ma ci si può attrezzare per muoversi adeguatamente in una pluralità di climi relazionali personali e professionali. L’idea è che conoscendo e comprendendo meglio non solo i quadranti 1 e 2 - territori su cui lavora sia lo psicodramma che la psicoterapia progettuale - ma tutti e quattro i quadranti tra di loro in relazione dinamica, ci si possa muovere più agilmente nelle 24 ore del vivere quotidiano senza dover scindere difensivamente il fare dagli affetti, o il tempo di lavoro dal cosiddetto tempo libero, con il tragico illusorio corollario: dai, lavora turandoti il naso che godrai poi nelle ferie o quando sarai in pensione! Detto in altri termini, l’ipotesi è che conoscendo e comprendendo meglio tutti e quattro i territori, ci si possa muovere più agevolmente e senza fare confusioni non solo tra l’uno e l’altro, ma anche all’interno di uno specifico territorio, quando ad esempio cambia il tempo o si sente l’arrivo di perturbazioni tipiche di un’altra stagione. Non è detto infatti che un evento del genere debba sempre costituire per forza una catastrofe.

Per la psicosocioanalisi il puer ha in primo luogo il problema di apprendere ad abitare meglio il suo territorio scoprendo le emozioni e le cognizioni di questa specifica dimensione del suo vivere quotidiano. Questo ambiente col suo clima specifico ha preso il nome di genitus.

Ben presto si può scoprire che per conoscersi meglio occorre fare i conti, oltre che con i genitori, anche con altri, con i fratelli più grandi e più piccoli. Per riconoscere e apprezzare meglio il proprio territorio, per muoversi con maggiore scioltezza in casa propria, occorre apprendere ad esplorare vantaggiosamente anche il territorio comune ad altri pueri, per scoprire un nuovo e diverso habitat, una musica diversa da quella tipica della relazione con le proprie origini. Ed ecco allora delinearsi globus, un pianeta altro, con un suo clima particolare in grado di favorire o far abortire sul nascere incontri e scambi fecondi con altri pueri, con fratelli, reali e simbolici. Questo tipo di incontro, apre ad un nuovo livello interno ed esterno di ascolto tutto da scoprire e da gestire - il livello gruppale - un livello strutturalmente diverso da quello in cui si muove il singolo nella relazione con se stesso e la sua origine.

Fin qui - nella parte alta della finestra - i rimandi riguardano prevalentemente i problemi connessi alla nascita biologica, con la necessità di fare prima o poi i conti con condizione neotenica, una sorta di mix di prolungata dipendenza accompagnata da vissuti di difettosità (Balint, 1968) e, contemporaneamente, di precocissima capacità di amare (Napolitani, 1991). Nessuna specie, come la nostra, esalta queste due opposte tendenze naturali - ricorda la psicosocioanalisi, e ogni puer ha il problema di apprendere a districarsi per evitare ciò che S. Ferenczi chiamava “Confusione delle lingue tra tra adulti e bambini”.

Così, mentre si attiva la capacità di entrare maggiormente in confidenza con questi territori, attrezzandosi funzionalmente per goderne al meglio il clima e le bellezze e per affrontarne le difficoltà, si creano buone premesse per alzare lo sguardo, per guardarsi intorno con una maggiore capacità di riconoscere ed affrontare nuove e più complesse ansie, dame di compagnia di ogni nuovo importante appuntamento col proprio destino. “Dimmi come elabori l’ansia e ti dirò chi sei” ricorda L. Pagliarani. E questo vale anche per muovere nella parte bassa della finestra psicosocioanalitica, nei territori indicati dai quadranti 3 e 4, per poter vivere (e non solo subire) la drammatica ma anche entusiasmante esperienza denominata nascita sociale.

Ora la complessità può aumentare senza intimorire ed è possibile giocare nuovi giochi, con sè e con altri, più a tutto campo; le due precedenti dimensioni - genitus e globus - intrise prevalentemente di amore, di pathos e dei loro derivati, possono ora aprirsi a nuove esperienze. Ora ci si può anche interrogare su cosa accade quando, oltre che coniugare il verbo amare, occorre saper coniugare anche il verbo fare, lavorare, senza negare niente delle precedenti dimensioni, ma anzi arricchendole di nuovo spessore. La tematica prevalente dell’allevare/essere allevati, si integra ora molto più in profondità con quella dell’accoppiarsi per generare, per mettere al mondo, e far crescere nuovi pueri reali e simbolici, nuovi progetti professionali e istituzionali. Capacità di dare e di ricevere; uomini e donne, e non solo bambini e ed adolescenti, possono allenarsi ad interagire in una nuova danza che crea.

In questo modo la dimensione operativa, del lavoro, qualunque esso sia, genera nuovi vertici di ascolto e di osservazione: il puer - ora in grado di riconoscere e valorizzare anche le sue parti più grandi - può sperimentarsi acquisendo sempre nuova consapevolezza e creatività anche

    a. sul territorio del faber, ossia in quella particolare dimensione emotiva e cognitiva nella quale ciascuno è alle prese con la necessità di interpretare bene un ruolo, più ruoli nel corso della stessa giornata e

    b. nell’officina, un altro termine latino che sta ad indicare quella particolare altra dimensione - quella organizzativa - che si genera nell’incontro tra ruoli istituiti, legati in un progetto dalla condivisione di un comune obiettivo.

Esplorando i territori dei quadranti 3 e 4, il soggetto è chiamato da dentro e da fuori ad affrontare la propria individualità e gruppalità, accanto alla propria ed altrui progettualità; ora può chiedersi nuovamente di chi è figlio, chi sono i suoi genitori adottivi in termini di polis, e come può fare per riscoprire nuovi livelli di autonomia, di benessere, di adultità. La cosa interessante di questo modello è il suo essere ologrammatico, quindi accessibile da qualsiasi punto della rete in cui genitus, globus, faber e officina interagiscono ricorsivamente. Non richiede particolari studi preliminari per essere operativo, on line. È ad architettura aperta, modulare, e può essere implementato in ogni momento. Negli esempi presi a prestito dai “giochi” si può vedere bene come sia possibile entrare nel problema sia partendo dalla colonna di destra sia da quella di sinistra. Ogni punto “locale” porta infatti in sè traccia dell’ologramma totale e viceversa; senza dimenticare che il primato spetta al puer, alla dimensione del soggetto - individuale e collettivo - che teme ed insieme desidera il cambiamento.

Una domanda sfidante diviene: “come è possibile gestire le emozioni che provengono dalla gruppalità interna quando ora, nel ruolo di faber, ho il problema di interagire con altri ruoli nell’officina, officina sociale inclusa?” È possibile mantenere attiva la propria capacità progettuale al variare dei contesti oppure, uscendo tra un po’ da questo gruppo, occorrerà necessariamente gettare la spugna?

Nei giochi si è assistito ad un fatto particolare, ologrammatico, si potrebbe dire ora: gli eventi prendevano forma da rimandi emotivi; “non so bene cos’è - si diceva spesso - ma questa cosa mi risveglia un mio problema ricorrente” da cui poi ... E da lì nascevano altri pensieri, originali, autentici, generativi di nuovi apprendimenti. Che davvero non si possa valorizzare questi “risvegli”, questi rimandi, per accogliere con maggiore affetto nuovi aspetti - ora meno oscuri - anche dell’ologramma complessivo di cui siamo parte e a cui concorriamo a dare vita? Qui si aprono nuovi approcci professionali e, per tutti, spazi di approfondimento (cfr. n. scheda 3).

(E. Ronchi, scheda 3)

Stiamo avviandoci verso la chiusura. Una partecipante commenterà: “Questa esposizione di Ermete mi ha fatto venire un po’ di rabbia; vedo il grande valore di giornate di lavoro come queste in cui si impara a giocare più ruoli, a vederne gli aspetti piacevoli ed i risvolti dolorosi e si scopre la voglia di andare avanti, ma non posso non vedere anche che questa stessa cosa “frega”. Fuori di qui si torna a vivere con persone che non solo non sanno nulla di queste cose, ma che - se gliene parli - è anche peggio. Vedo la mia realtà e quella di chi mi sta vicino e mi sembra che le distanze aumentino. Non sono superba, ma se uno lavora molto su di sè, e chi gli sta intorno non cambia, che può fare?”

Il conduttore psicodrammatista ne approfitta per presentare brevemente anche il modello di riferimento dello psicodramma analitico individuativo, mettendolo in lavagna (scheda n. 4), commentandolo ed offrendo una chiave di lettura del problema sollevato:

(E. Ronchi, scheda 4)

Resta aperto il problema di una cosa bella che “frega”. Ed ecco due scenari possibili suggeriti dai due modelli che qui provano ad interagire:

Col modello psicodrammatico si potrebbe rispondere: ok, proviamo a trasformare in gioco questa tua emozione. Ora sono di fronte a questo problema: io ho fatto una giornata di lavoro clinico. Ora io so e tu non sai ... come faccio a farti partecipe di questa bella esperienza? Non mi puoi capire, sono fregata... Cosa faccio, in pratica? Prova a cambiare ruolo. Tu ora non sei tu, ma sei tuo padre, il tuo collega, tuo marito che “preferisce piantar patate” e svaluta. Come stai? cosa stai realmente dicendo col tuo comportamento? Cosa vuoi evitare di vedere? Cosa ti sta spaventando? Cosa ti piacerebbe che l’altro capisse? E così via. Oppure: Proviamo ad immaginare una scena del passato in cui tu ti sentivi venir la rabbia rispetto a cose belle che venivan dette ma che sapevi che ti avrebbero poi “fregato” ... oppure una scena futura in cui tu incontri una persona che pensi avrebbe bisogno di conoscere queste cose e rispetto alla quale ti senti disarmata perché senti che, se tu ne parlassi, aumenterebbero le distanze e la situazione peggiorerebbe. Il problema è tuo ... se vuoi possiamo giocarlo.

Cambiando scenario e usando il modello psicosocioanalitico si potrebbe osservare che in questo momento la partecipante che è a disagio e sta provando interesse ma anche rabbia, non è qualcuno lontano che sta piantando patate ma è qualcuno che è qui, presente, e che è in relazione con me e con noi, ora, in questa officina, in chiusura di questa concreta giornata di lavoro. Il problema, certo, è un suo problema ma forse è anche nostro e lei ne è un prezioso portavoce. Occorre allora prestare ascolto a questa emozione che è individuale ma anche gruppale ed istituzionale, accoglierla soprattutto nella sua componente di dolore e di mal essere che suscita. Si potrebbe ad esempio scoprire che ciò che è accaduto qui oggi è non solo bello, ma già fin d’ora utilizzabile, pragmaticamente, e ... ciò sarebbe davvero angosciante, drammatico.

Si potrebbe ancora scoprire che il problema sollevato ha la stessa forma dell’ostacolo epistemologico che si frappone alla possibilità di accogliere depressivamente ogni nuova conoscenza che lasci intuire un cambiamento possibile, desiderato e insieme temuto. Il cambiamento qualitativo confina col territorio del “sacro”, la “dove gli angeli esitano”, e gli “stolti” - ci ricorda Bateson (1989) - hanno invece una gran fretta di buttarsi, spinti da una sorta di imperialismo selvaggio. Che vantaggio mi dà il pensare che “io sarei sì adeguata, ma là fuori l’istituzione è cattiva, i colleghi o i familiari non capirebbero e quindi proprio perché ora conosco, sono ancor più fregata”. Grazie al lavoro di oggi forse è possibile conoscere e riconoscere tutta una serie di nuove emozioni e difficoltà operative suscitate dalla natura stessa del cambiamento, dell’inedito che potenzialmente può innescarsi. Si tratta di difficoltà specifiche dell’ambito del “fare” che possono essere ascoltate, accolte e valorizzate proprio nell’interesse del cambiamento auspicato, con maggiore capacità di gestione intelligente dei conflitti. Ma accostare la sofferenza connessa al vissuto di “cambiamento catastrofico” (Bion, 1981) richiede la capacità emotiva di rompere con gli stereotipi che nel tempo ci siamo costruiti a difesa dal dolore che ogni nuova conoscenza, soprattutto se bella, sempre procura. La domanda scomoda non può che essere valorizzata, trasformata in vera domanda, di quelle che si interrogano in modo autentico in quanto nascono davvero dal non sapere, dalla propria ritrovata ignoranza trasformata in opportunità di creativa scoperta. La domanda della partecipante può così essere rilanciata in modo non difensivo, rivisitata nelle sue caratteristiche implicite che possono così essere sintetizzate:

  • la questione sollevata è di natura strategica [perché la conoscenza bella, sentita come vera, “frega”?]
  • il tempo contrattualmente concordato sta per terminare,
  • c’è però l’esigenza (e la fretta) di avere una risposta rapida,
  • i rischi di banalizzare, o di rifugiarsi in una battuta o di dar via libera al vissuto di impotenza che giustificherebbero il ripristino dei vecchi modelli [che stanno all’origine del disagio attuale] sono in agguato e per conseguenza
  • il rischio di svalutare, di togliere valore ad una esperienza che da tutti è stata sentita come positiva è elevato ma, paradossalmente, è anche una necessità per poter avere la prova certa che su quel terreno del “sacro” solo pochi iniziati ce la possono fare; io certo non ce la potrò mai fare. Non è giusto ... Allora - inconsciamente - devo muovermi in modo che anche gli altri non ce la possano fare, diversamente la mia inadeguatezza risulterebbe intollerabile;
  • questo stile di relazione interno/esterno “frega”; frega me, gli altri ed anche il lavoro fin qui svolto ... è un tentativo di evacuare tutto quanto per evitare la depressione del cambiamento,
  • l’idea che sia meglio non illuderci, perché fuori da questo posto dove si fanno bei discorsi - a causa degli altri - non c’è spazio per il benessere, è pronta a diventare “realtà oggettiva”.

Con questi ingredienti strutturali, personali ma anche istituzionali, cosa è possibile fare ora? Non è forse questo un classico che sta alla radice di molto malessere che si ritrova un po' ovunque? Si può apprendere a ri-conoscerlo ed a trattare progettualmente questo mix di emozioni che non riguardano solo il singolo? Esprimendo il sintomo, la partecipante fatto da portavoce segnalando a tutti un tipico disagio che si insinua spesso nei gruppi, per sabotare sul nascere piccoli possibili cambiamenti, ma che riguarda in generale l’officina, e anche questa particolare nostra officina.

La situazione ipotizzata dalla partecipante e quella che rischiava di crearsi in quell’hic et nunc, in seguito al suo intervento, sembravano simmetriche. La risonanza tra il territorio del “genitus/globus” della partecipante e quello del “faber/officina” di quella giornata sembravano le due facce di una stessa medaglia. L’intersecarsi di più piani del discorso che riproducevano a diversi livelli (quadranti della finestra) lo stesso problema, rischiava di produrre un cortocircuito emotivo/cognitivo, una specie di brutto incantesimo da cui sembrava difficile uscire. Era invece stato possibile cogliere e valorizzare queste somiglianze, apprendendo, attraverso il materiale che emergeva, a rivisitare il territorio del genitus alla luce delle emozioni che si generano nell’officina e viceversa.

Cosa si può apprendere qui - dal vivo, in diretta - per trattare questo vissuto che si presenta in tutti i contesti ed ha le caratteristiche tipiche dell’impotenza? - si diceva.

In chiusura ci si poteva lasciare con considerazioni di questo tipo: qui possiamo fare i conti responsabilmente anche con i nostri limiti. Possiamo, se lo desideriamo, disporci in atteggiamento di ulteriore ascolto, rilanciare a 360° la ricerca su questo terreno, e darci nuovi appuntamenti. Sapersi dare una pausa, saper attivare una curiosità interna su questi temi, non avere paura ad interrogarsi anche sul perché è nata questa domanda proprio in un certo contesto ed in un certo momento. Ora qui tutto ciò è fattibile e persino auspicabile; costituisce un segnale di capacità, consente di apprendere a uscire da una trappola in cui noi stessi a volte ci rinchiudiamo. A volte, infatti, un vissuto di impotenza è solo una maschera che utilizziamo creativamente per nascondere a noi stessi un vissuto di onnipotenza frustrata che, se non riconosciuta, genera sentimenti di auto-invidia oltre che di invidia. L’effetto di auto-distruzione sistematica, proprio delle nostre capacità interne più belle e creative, è evidente. E questo è un male che colpisce non solo i singoli, ma anche i gruppi e le istituzioni e che, col contributo di tutti, può essere riconosciuto e trasformato.

Più coscienti dei propri limiti - era il commento finale - paradossalmente è possibile fare molte più cose di prima; ad esempio apprendere sulle capacità di cui si ha bisogno per realizzare meglio ciò che più si desidera. Attorno a questo sentimento ci si era poi salutati auspicando che potessero crearsi altre opportunità per valorizzare se stessi, per apprendere ad utilizzare ancor meglio la propria gruppalità interna anche sul piano professionale e sociale. In effetti a quella giornata, con ritmo mensile, sono seguite altre sette giornate di lavoro clinico gruppale nelle quali il mix di psicodramma analitico individuativo e psicosocioanalisi ha consentito la sviluppo di nuove opportunità di apprendimento sia per i partecipanti che per i conduttori.

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Ermete Ronchi
Studio Sinopsis
Via San Bartolomeo, 15
25128 Brescia
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