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Articoli tratti dalla Rivista

PSICODRAMMA ANALITICO


Giulio Gasca

LA DIMENSIONE IMMAGINALE DALLA PSICOLOGIA ANALITICA ALLO PSICODRAMMA

in: Psicodramma Analitico, n. 4, maggio 1995, Torino.

In un gruppo di psicodramma in cui si stanno affrontando problemi di lavoro, Paolo ha portato e giocato momenti difficili di alcuni anni prima, quando aveva dovuto decidere se lasciare un sicuro, ma per lui non soddisfacente, posto da dirigente per ricominciare da capo come imprenditore autonomo. Ricorda a questo punto un sogno che, in qualche modo, l’aveva rasserenato, dandogli il coraggio di tentare il rischioso passo, scelta rivelatasi poi ottima.

Nel sogno, scalando una montagna, si trova su una cengia – sopra di lui vi è una ripidissima parete per almeno mille metri e altrettanto ripido e profondo è il precipizio sotto di lui – stanco e amareggiato sta per cedere alla disperazione quando accanto a lui sulla cengia compare una figura femminile che, pur non avendo scarpe adatte, si muove senza difficoltà. Essa gli fa segno di seguire la cengia, stimolando la sua curiosità. Dietro l’angolo vi è una scala a chiocciola, scavata nella parete. Paolo riprende a salire: la scala diviene più stretta ed, in ultima analisi, è difficile come la parete, ma ormai egli ha ritrovato il coraggio di salire fino in cima, dove la figura femminile lo aspetta. Viene messo in scena il sogno: nel cambio di ruolo con la figura femminile, Paolo si sente un angelo custode che, provando affetto per Paolo stesso, riesce a comprenderlo ed a trovare il modo giusto di stimolarlo a dare il meglio di sé. Invitato dal conduttore a ricordare se mai nella vita egli ha giocato un ruolo simile a quello avuto nel sogno dell’angelo custode, Paolo ricorda un drammatico episodio di una ventina d’anni prima. Durante il servizio militare egli è ufficiale degli alpini: su una cengia assai simile a quella del sogno su riportato, un soldato ha un gravissimo incidente in seguito al quale ha un braccio spappolato. Dopo avergli prestato i primi soccorsi Paolo, in attesa di aiuti, gli resta vicino per sostenerlo moralmente ma si sente inadeguato a tale compito: vorrebbe aver vicino a sé la madre o la fidanzata del ferito che, pensa, saprebbero consolarlo.

Nella drammatizzazione a colui che ha la parte del ferito e a tutto il gruppo che assiste, Paolo, che fino ad allora si era presentato come un manager razionale, energico e sicuro di sé, ma non certo tenero, appare estremamente dolce e materno. Egli stesso rivive sentimenti estremamente intensi e alla fine del gioco dirà con sorpresa “ho scoperto di essere più buono di quanto non credessi”.

Invitato a ricordare una persona significativa della sua vita che possa essere stata il modello della sua parte femminile-materna appena rivelatasi, Paolo gioca una terza scena: da ragazzo è in difficoltà di fronte ad un compito scolastico: la madre se ne accorge, gli si avvicina, lo prende per il mento, lo guarda negli occhi. Non lo aiuta facendo il compito al suo posto, ma comunicandogli – con la giusta sintonia col mondo interno di Paolo – la fiducia che lui è in grado di farcela. Se riportiamo questa serie di giochi psicodrammatici a riferimenti Junghiani, potremmo dire che, attraverso l’analisi del sogno dal punto di vista del soggetto, il sognatore è stato portato a riappropriarsi della sua Anima e che quindi, attraverso la rievocazione di certi momenti della sua storia passata, si è evidenziato l’importanza del modello e dello stimolo materno nello svilupparsi e strutturarsi della funzione animica.

Giochi successivi evidenzieranno come per Paolo, nel lavoro come nei rapporti coniugali, sia importante non identificarsi unilateralmente nel ruolo maschile tradizionale di capo forte ed efficiente e di marito deciso e sicuro di sé, ma di integrare tale ruolo con una sua funzione femminile affettiva e recettiva.

Il lavoro in tre tempi sul sogno [1) gioco del sogno con cambi di ruolo-interpretazione a livello del soggetto; 2) gioco di eventi della storia del paziente atti a evidenziare il senso di questa nel problema portato alla luce dal sogno; 3) gioco che evidenzi il collegamento del sogno col momento attualmente vissuto dal paziente]: sembra nella maggior parte dei casi rivelarsi in buona sintonia con l’ottica junghiana ma può essere utile, a partire da questi punti di contatto, e confrontare, evidenziando anche differenze e discordanze, la tecnica dello psicodramma analitico individuativo e la sua meta psicologia con la teoria e le conclusioni della psicologia analitica. Una funzione essenziale nella meta- psicologia dello psicodramma, in quanto costituisce il fondamento di alcuni dei più importanti aspetti tecnici (modalità del lavoro sui sogni; uso delle scene virtuali; scelta di quali cambi di ruolo effettuare durante il gioco drammatico) è la funzione che nella nostra terminologia definiamo “immaginale”. Ora le concezioni in proposito dello psicodramma analitico possono accordarsi assai meglio con le posizioni Junghiane che con quelle Freudiane, le quali riduttivamente vedevano in sogni e produzioni creative di immagini null’altro che modi di soddifare e al tempo stesso mascherare desdieri inaccettabili. Così come le posizioni Junghiane son più vicine alle nostre del modello Adleriano della Finzione direttiva.

Infatti sia la vecchia concezione Freudiana che, sia pure in modo diverso, quella Adleriana, tendono a svalutare e patologizzare i prodotti dell’immaginazione, mentre Jung, dal valore attribuito alla funzione mitopoietica dell’inconscio al riconoscimento dell’importanza di sogni e fantasie creative nell’esprimere un punto di vista alternativo (quello dell’inconscio) fecondo e correttivo dell’unilateralità del punto di vista della coscienza, ci sembra ridare all’immaginale tutto il suo valore (Jung 1917-1946-1961).

L’Immaginale nella teoria dei ruoli-progetto, su cui è fondato lo psicodramma analitico, ha una duplice origine. In primo luogo la capacità di raffigurarci gli oggetti reali, anche quando non cadono sotto i nostri sensi, attraverso la costruzione di immagini mentali, è essenziale perché l’individuo si costruisca una mappa del mondo in cui deve muoversi. Tale mondo sarà immaginato non statico, ma in movimento, in quanto per progettarci nel futuro dobbiamo compiere immaginalmente in tale spazio virtuale le azioni possibili, prevederne le conseguenze e scegliere tra esse quelle che compiremo realmente (Mealt 1932; 1934).

Una seconda radice delle funzioni immaginali è poi quella che Lorenz (1973) descrive come comportamento esplorativo: l’etologo ha osservato tale comportamento quando un animale, posto di fronte ad un oggetto poco conosciuto, reagisce in rapida successione ad esempio come se questo fosse un predatore da fuggire, cibo da assaggiare, materiale per costruirsi un nido, un compagno con cui socializzare. E’ evidente che, se ciascuno di tali comportamenti corrisponde ad una pulsione istintuale; il senso del comportamento dell’animale è proprio nel suo essere libero (Gehlen 1938) parla di esonero) dall’esigenza di soddisfare ciascuna pulsione, e di essere invece interessato ad esplorare la molteplicità di possibili relazioni con un oggetto sconosciuto.

Gehlen osserva tra l’altro: “specificamente umana è la possibilità di esonero del comportamento … dalla funzione al servizio delle pulsioni istintuali … il fatto che una libera attività, per esempio di sperimentazione, possa prescindere dai bisogni biologici immediati rende possibile mantenere ed attuare un comportamento indipendente dal ventaglio di stimoli provenienti da una situazione mutevole. Ogni autentico impiego di simboli si fonda su tale condizione di affrancabilità dal contesto della situazione contingente, poichè è nell'essenza del simbolo alludere ad un non-dato ed ad un non inferibilità in quel contesto".”Ora è la maggior capacità di usare le proprie rappresentazioni che permette all’uomo non solo di dissociare un oggetto (o un proprio gesto) dal contesto reale, per raffigurarselo in un contesto ipotetico, (combinazioni anticipatrici) ma anche di utilizzare un oggetto come segno di un altro oggetto (gioco simbolico di Piaget 1945).

Ciò attraverso successivi livelli di complicazione permette di costruire veri e propri mondi virtuali, via via svincolati dai fatti concreti che ci stanno dinnanzi, dalle regole e magari anche dalle meta-regole da noi conosciute in precedenza. Ma tutto ciò, lungi dal mirare alla soddisfazione di un desiderio, mira ad una ricerca di nuove possibilità e significati. Fromm (1951) ha dimostrato come proprio il fatto che nel sogno, a differenza della veglia, sia irrilevante il raggiungimento di obiettivi concreti, determini la sua particolare struttura atta a fornire punti di vista e conclusioni svincolati dalla rigidità della coscienza del singolo come della cultura di appartenenza.

La disposizione innata all’attività ludico-esplorativa è, di fatto, il principio motore che ha determinato lo sviluppo della cultura umana dalla mitologia alla sperimentazione scientifica, dalle creazioni artistiche alla costruzione dei sistemi matematici, dalla filosofia all’etica e al diritto. Ma, ritornando alla teoria dei ruoli-progetti, il momento in cui la funzione immaginale si esprime in tutta la sua complessità è quando l’individuo se ne serve per rapportarsi agli esseri animati anziché agli oggetti inanimati. I ruoli, inizialmente limitati alla dimensione somatica (bambino che mangia, che dorme, che gira la testa in direzione di uno stimolo acustico) si arricchiscono, insieme alla dimensione sociale, di quella immaginale nel relazionarsi con l’Altro.

La prima manifestazione osservabile di tale evento è stata descritta da Spitz come fase del sorriso: il neonato in essa sorride non ad un oggetto raffigurante un sorriso ma a un qualcuno che intenzionalmente sorride a lui che gli sorride. Si ha cioè l’incontro di due progettualità, ciascuna delle quali trae senso proprio dall’incontrarsi e riconoscersi nell’altro. Il bambino comprende così l’intenzionalità dell’Altro attraverso un processo di assimilazione proiettiva attribuendo all’Altro quell’intenzione che lui stesso avrebbe se facesse la stessa cosa.

Inizialmente per mettersi al posto dell’altro può essere necessario – come per altro spesso il bambino fa nel gioco – imitarlo almeno in qualche gesto o nella mimica, immaginando quel che si penserebbe se si fosse lui – successivamente sarà sufficiente eseguire tale procedimento nello spazio ipotetico del proprio mondo interiore, costruendo per così dire e facendo agire in tale spazio la sua immagine.

Nel fare ciò il bambino, rispondendo con crescente complessità alla complessità dell’agire intenzionale di coloro che incontra, accomoderà i propri modelli interiori al mondo circostante combinando ed estrapolando dai suoi modi di agire e progetti, reali o potenziali, che abbiano affinità con quelli di coloro che via via incontra. Costruirà così dei ruoli interni distinti dai ruoli che egli stesso agisce nel mondo esterno, via via più differenziati ed articolati, che acquisteranno, quasi fossero personaggi dotati di vita propria, una sorta di autonomia della mente che li ha originati – come complessi autonomi contrapposti al complesso dell’Io – si da popolare i sogni e le fantasie creative. Tali personaggi interni dall’originaria funzione di renderci capaci di intuire empaticamente ciò che provano gli Altri che incontriamo, assumono in seguito quella di centri organizzatori di sentimenti, impulsi, vissuti e rappresentazioni non integrate nella coscienza.

Non possiamo non riconoscere come tale molteplicità di personaggi interiori, sia pure con connotazioni un po’ diverse, sia già stata incisivamente intuita e descritta da Jung fin dal 1912 (Simboli della trasformazione). La concezione Junghiana, a differenza dei posteriori schematismi sviluppati dalla psicoanalisi delle relazioni oggettuali, piuttosto meccanici, semplicistici e stereotipati, coglie in pieno l’essenza di tali personaggi (e non oggetti) interiori, che ci si presentano come dotati di una propria vita, gravidi di intenzionalità, che nella pratica della psicologia analitica – come nella stessa autobiografia di Jung – permette un vero e proprio dialogo con tali figure. E parimenti nel nostro modello è fondamentale che attraverso i cambi di ruolo nel gioco drammatico si dia voce ai personaggi interni si da portarli a confrontarsi ed integrarsi tra loro e col nucleo di ruoli dominante in cui l’individuo coscientemente si riconosce.

E di qui è breve il passo ad un'altra immagine Junghiana in cui lo psicodramma si riconosce appieno: il sogno visto come un dramma (Jung (1916-1948; Jung 1934, Hillman 1983, Whitmont e Brinton Periera 1991).

In questo senso la teoria dei ruoli-progetto nata dallo psicodramma si spinge più in là, considerando la stessa psiche nella sua totalità come un dramma i cui attori recitano per se stessi, parte sul palcoscenico della coscienza, parte dietro le quinte nel labirinto di stanzette corridoi e sotterranei dell’inconscio.

Hillman (1975) del resto ritiene tale concezione già implicita in Jung “utilizzando il sogno come modello della realtà psichica e ideando una teoria della personalità basata sul sogno, noi immaginiamo la struttura basilare della psiche come un panorama interiore popolato di immagini personizzate … questo struttura implica che la psiche presenta le proprie dimensioni immaginali, opera senza bisogno di parole ed è costituita da personalità multiple”.

Quanto il nostro modo di vedere è simile e quanto è diverso? Rimandiamo al lettore di formazione junghiana tale interrogativo attraverso un nuovo esempio. Eliana, medico e giovane madre, ha portato, nell’analisi fatta attraverso lo psicodramma, un problema di depressione di fondo. Porta al gruppo un sogno di pochi giorni prima: sta - in un ambiente tra il medioevale e il fiabesco – compiendo un pellegrinaggio a Roma, quando incontra due Elfi che le appaiono bellissimi, chiede loro di pregare Dio per lei. Ma a questo punto la assale un timore: saranno con Dio o col Diavolo? In lontananza vede di spalle una Donna, vestita di bianco, in stile medievale.

Viene messo in scena il sogno: personaggi – Eliana, gli Elfi, la Donna bianca, Dio, il Diavolo. Nel cambio di ruolo con uno degli Elfi, Eliana sente di essere tutt’uno con la natura, di non avere nulla a che fare col Diavolo, ma di non riuscire a vedere Dio, pur desiderandolo. Nel cambio con Dio, si sente uno spirito puro, distaccato dal mondo, che offre cose che a Eliana non interessano. Nel cambio della Donna vestita di bianco si sente come una grande madre che si prende cura degli Elfi, che, come bambini al limbo, restano sempre giovani, non evolvono, poiché han rifiutato la terra. Tale ultimo vissuto le richiama un’associazione con quando lei, a sei mesi, avrebbe desiderato morire.

Eliana naturalmente non ha un ricordo di tale episodio, che lei però ipotizza sulla base di un racconto della madre, secondo la quale a tale età rifiutava ostinatamente il cibo. Nonostante manchi un riscontro diretto, tale episodio può venire giocato: si tratta di una scena virtuale cioè di una di quelle scene che il protagonista non ha vissuto concretamente, ma che fanno parte della storia della sua vita interiore. In altri termini ogni volta che noi ascoltiamo un racconto, ci prefiguriamo un evento futuro o ci rappresentiamo un possibile accaduto di cui ci hanno parlato, costruiamo e facciamo agire dentro di noi delle immagini-protagonisti e ad esse prestiamo sentimenti, pensieri e progetti come quelli delle persone reali che incontriamo. Tali elementi di realtà virtuale continuano a vivere in noi ed a influenzarci, anche al di là delle nostre intenzioni coscienti.

Eliana, ascoltando i racconti della madre, permeata dalle emozioni di questa, ha ricostruito i momenti (corrispondenti o meno alla scena originale) come le venivano descritti e per lei è come li avesse realmente vissuti. Ma l’immagine giocata non si riferisce in realtà ad un episodio dei sei mesi di vita, bensì congloba in sé due altri eventi. Uno, come se fosse un sogno, rappresenta, in figure di un evento di un passato solo immaginato, il concretizzarsi di pensieri e stati d’animo successivi. Due, rispecchia l’immagine che la madre di Eliana aveva in sé di Eliana neonata, immagine su cui aveva probabilmente proiettato una parte di sé stessa piccola, depressa e indifesa. Tale immagine era stata quindi interiorizzata da Eliana insieme con l’immagine della madre.

In effetti, in scene giocate nelle precedenti sedute, era stata rievocata l’ansia e la depressione della madre di Eliana, dopo la scomparsa del marito, quando la figlia era piccolissima: la madre temeva di non essere capace di allevarla da sola. Nella scena Eliana, nella parte di se stessa neonata, è dominata da un sentimento di rifiuto del mondo, dal desiderio di essere un Angelo senza corpo, onde fondersi con Dio, immaginato come pura luce. Pensa: “ho vissuto sei mesi, ho fatto abbastanza per soddisfare quella donna (sua madre) ora posso andarmene”.

Il gioco fa ricordare a Eliana un momento di quando, a quattro-cinque anni, aveva ricevuto i primi insegnamenti religiosi. A quell’epoca la madre era ospitata da parenti che la aiutavano assai di malagrazia, e la bambina risentiva di tali tensioni e del disagio della madre che per allevarla doveva rinunciare a molte cose. Eliana scelse, dentro di sé, di vivere di spiritualità, rifiutando l’angoscioso mondo della vita quotidiana, per cercare Dio, visto come un padre ideale, una figura di Logos rassicurante, ma del tutto separato dal mondo fisico (come l'immagine fantastica del padre che Eliana non ha mai conosciuto).

Dal gioco di questa scena si torna ad un momento recente, in cui Eliana si rapporta al proprio corpo (che viene messo in scena come un personaggio contrapposto al suo spirito). Eliana se ne prende molta cura, ma solo per dominarlo: deve essere un perfetto strumento per i suoi scopi, ma non ha il diritto di avere proprie esigenze, come indulgere al piacere fisico. Nel cambio col corpo infatti Eliana ha difficoltà ad immedesimarsi, continua a sentirsi spirito.

Ora Eliana, collegando i vissuti delle diverse scene, riconosce nella parte della donna vestita di bianco, che, come si è visto nel sogno, nn si vedeva in viso, la sua funzione di prendersi cura, del suo corpo anzitutto, dei suoi pazienti, di coloro che le stanno attorno e – come fin da bambina ha sentito di dover fare – della sua stessa madre depressa e angosciata. Ma vi è qualcosa di quasi impersonale, obbligato, coattivo in tale funzione materna, che perpetua la separazione tra corpo e spirito.

La parte Elfo, parte naturale, vitale, corporea nel senso di Pan, che precede la contrapposizione tra terra-Diavolo e spirito-Dio, (appartiene infatti ad una natura, non situata sulla terra della vita quotidiana, ma in una sorta di Eden-Limbo) è la sua parte bambina che ha deciso di non vivere ed è rimasta fissata ad un’età (i quattro-cinque anni) di tale decisione: postasi fuori dal mutamento, non può raggiungere Dio (il Logos, il senso globale dell’esistenza, il Selbst).

La Persona di Eliana, madre e medico che si prende con impegno cura degli altri, resta come staccata dal soffio vitale, a cercar da sola il senso dell’esistenza nella vita adulta e si sente a volte come un guscio vuoto e fragile: ecco spiegata la depressione di fondo. Questo esempio mostra, tra l’altro, una cosa da noi spesso riscontrata: nella drammatizzazione dei sogni, assumendo i diversi ruoli (il che significa agirli dentro di sé, attivando schemi chinestetici nel senso delle risposte movimento del Rorshach e non solo schemi razionali) il protagonista giunge ad insight sull’essenza delle parti rappresentate che fino ad un istante prima neppure sarebbe giunto a supporre e che parimenti sorprendono il conduttore-analista, gettando una nuova luce su una serie di eventi della storia del paziente e di vissuti e atteggiamenti attuali.

Questo si riscontra parimenti con l’uso, in sedute individuali, come ora mostreremo, della drammatizzazione immaginale, applicazione della tecnica e della teoria psicodrammatica all’analisi duale. Tale tecnica è assai simile a quella dell’immaginazione attiva usata da Jung (1936). Il paziente per approfondire il senso di un sogno, o di un episodio da lui ricordato viene invitato a visualizzarlo e riviverlo nel suo spazio interiore.

L’analista come il conduttore di un gruppo di psicodramma può doppiarlo (parlare come se fosse la voce della coscienza del paziente, portandolo a riflettere suoi suoi sentimenti o a porsi domande) e gli suggerisce al momento opportuno di cambiare ruolo, immedesimandosi nell’uno o nell’altro dei personaggi della scena evocata. Eliana dopo qualche anno di psicodramma, anche nella prospettiva di svolgere un’attività di psicoterapeuta, ha sentito la necessità di completare il suo iter in uno spazio analitico individuale. Come spesso accade sia nei passaggi dallo psicodramma all’analisi duale, che dall’analisi duale allo psicodramma (e, anche, dallo psicodramma di base a quello didattico, sia detto incidentalmente) l’analizzando si trova a rivisitare, da un punto di vista, per certi aspetti diverso e complementare, molti problemi già affrontati nelle precedenti analisi. Così nelle prime sedute Eliana riparla di molti problemi già affrontati nell’analisi psicodrammatica, ma, anziché approfondirli, resta su di un piano razionale. Porta un materiale ricco di significati, sogni molto simbolici, che esamina con intelligenza e buoni riferimenti analitico-culturali, ma sembra aver difficoltà ad esprimere le sue emozioni.

A questo punto in una seduta porta il seguente sogno: deve prendere servizio in un grande edificio, un ospedale, diretto da Jung. Ma questi è occupato a curare una paziente che ha qualcosa alla bocca e non può badare a lei. Lei allora cerca la stanza dove si fanno terapie a mediazione corporea di cui dovrà occuparsi, ma non la trova, perché l’edificio si è trasformato in un ricovero.per anziani. Nel drammatizzare il sogno un primo elemento emerge nel cambio di ruolo con Jung (la figura, credo, del suo terapeuta interno). Egli pensa che deve curare una paziente togliendole dalla gola un ostacolo che le impedisce di parlare. Eliana-Jung individua l’ostacolo in un corpo estraneo che blocca il flusso tra il cuore e la parola. Ora che Eliana ha compreso che si tratta della sua parte-paziente, messa nella ultime sedute in ombra dalla parte-analista, è opportuno assuma il ruolo di questa: nella parte di paziente sa che il corpo estraneo è un grumo di sangue coagulato; viene allora invitata a cambiarsi col grumo ed a sentire come è e di cosa è fatto: non è duro ma morbido, come costituito di lacrime versate durante l’infanzia e trasformate in sangue: è ancora vivo e può ritornare fluido.

E’ chiara l’indicazione del sogno ma resta un elemento inspiegato: perché l’ospedale è stato trasformato in ricovero? Nel cambio di ruolo con un ricoverato anziano questi non sa rispondere. Non resta che provare un nuovo cambio di ruolo con Jung, che, come responsabile di tale centro, dovrebbe saperlo. In questi giochi di cambi di ruolo si ha una buona risposta solo se la domanda è fatta quando il protagonista è proprio in quella delle sue parti cui appartiene la conoscenza della risposta stessa.

Nella parte di Jung la paziente dice che, completata una fase di terapia a mediazione corporea – riattivare e riappropriarsi di vissuti ed emozioni del proprio corpo -, è necessario dare ricovero, cioè tenere in sé, accettandole, le proprie parti vecchie (ricordi, modi di essere superati, momenti significativi della propria storia) che, anche se non più attivi ed apparentemente inutili, non possono semplicemente essere soppressi da un troppo frettoloso protendersi ad obiettivi futuri.

Ora, dopo aver descritto – crediamo compiutamente – l’agire terapeutico in un gruppo di persone alla ricerca di sé, riteniamo importante raccontare anche il lavoro psicodrammatico con pazienti affetti da schizofrenia. Lo psicodramma infatti è un luogo dove la funzione mitopoietica dell’inconscio trova uno spazio immediato e proprio con persone da cui forse molti operatori della psiche non si aspettano più nulla. In questa visione della malattia mentale grave ci inseriamo nella più stretta tradizione originaria junghiana. Per gli schizofrenici rappresentarsi il mondo come potrebbe essere in uno spazio virtuale è solo raramente possibile, quantomeno in modo adattato e condivisibile.

E’ molto più importante, in quanto è premessa terapeutica, il consentir loro di dar voce ai personaggi interni affinchè possano dialogare fra loro e rapportarsi all’Io, spesso faticosamente conquistato. Dar voce dunque ai ruoli interni, vissuti per lungo tempo come spaventosi e terrificanti e quindi proiettati su altri, per farli agire sul palcoscenico della vita, invece che lasciarli drammatizzare dietro le quinte, nei sottorranei dell’inconscio, per riprendere un’immagine già utilizzata precedentemente.

Per gli schizofrenici, e per la persona la cui storia stiamo per raccontare, i ruoli interni hanno sì vita propria, anche troppa, ma non funzionano come organizzatori efficienti di sentimenti, impulsi e ricordi. I ruoli interni – qui come gli archetipi – sono ambivalenti, e non riescono ad aver voce se non come malattia. In questo modo l’assunzione di ruoli reali anche semplici rimane bloccata: l’inconscio non può parlare ma neanche la coscienza.

Anna, ora 50enne, come molti altri schizofrenici, subisce nella prima giovinezza, giovane sposa, una sorta di invasione dei contenuti dell’inconscio. Entra, per matrimonio, con un uomo di cultura e religione araba, in un mondo di molte donne: la suocera, le sorelle del marito, le serve di casa. Si ingelosisce di tutte, attribuisce ad una donna in particolare l’intenzione di volerle portar via il marito e prendere il suo posto presso i figli. Sente voci che l’avvertono di quanto sta per accadere ed è già veramente accaduto. Tenta, nel mondo della sua immaginazione, di controllare la situazione che man mano la invade. Come è ovvio, viene in parte esautorata dall’accudimento dei figli e le si suggerisce di tornare in Italia, nella città del nord dove ha conosciuto il marito. Le allucinazioni uditive continuano anche lì e Anna si ritira progressivamente in sé. Non si lava né si nutre. La funzione materna essenziale non può essere usata né verso altri né verso se stessa.

Ad un periodo di relativo benessere segue un ritorno nel paese arabo del marito e un tentativo di riassumere il ruolo di madre e di moglie cui segue una nuova pesante invasione di allucinazioni uditive e di idee persecutorie. Queste notizie, “la storia clinica” vengono desunte da racconti di altri parenti. Anna non ne parla, quasi non ricorda, non vuole o non sa ricordare a 10 anni di distanza. Le allucinazioni ed il delirio sono contenuti farmacologicamente dopo alcuni ricoveri. Anna non è più moglie di nessuno e non riesce a fare la madre dei figli ormai grandi. Il senso di quanto accaduto le sfugge. Non sa certo, che può esserci un senso. Ma Anna sogna. E gioca in psicodramma i sogni.

Diversamente che negli esempi riportati precedentemente, nello psicodramma per psicotici (schizofrenici e non) è difficile, anche se non impossibile, far giocare due scene, una dopo l’altra in modo che, come nello psicodramma per nevrotici la seconda aiuti la coscienza ad elaborare la prima. Il tempo di comprensione, di collegamento, di dialogo con le parti interne è molto lungo con gli schizofrenici, per i noti problemi cognitivi collegati alla "malattia”.

Non era possibile per Anna associare direttamente ai suoi sogni, è stato possibile migliorarne la comprensione tramite l’amplificazione che i giochi di risposta degli altri componenti del gruppo offrirono.

Qui di seguito due sogni giocati in psicodramma che mostrano il percorso dell’inconscio in terapia psicodrammatica e che hanno consentito di poter parlare con Anna, finalmente delle tematiche che l’avevano fatta “impazzire”.I sogno: le sirene

Anna è sotto il mare, vi sono zone in luce e zone d’ombra. E’ tutto bellissimo, colorato, alghe, coralli, pietre preziose. Anna è sola. Poi s’accorge che alcune forme sono di donna, forse sirene, di tutte le età e colori. Fanno paura e sono meravigliose al tempo stesso. “Resta qui” dicono le sirene – dobbiamo parlare. C’è un serpente di mare che striscia, va verso Anna. Anna, nella parte del serpente sente di voler stringere, costringere. Anna nella parte di una sirena vorrebbe spiegare cos’è quel mondo ma è difficile. Anna nella sua parte non vorrebbe più andar via.

Da notare che ha scelto una psicoterapeuta madre di 2 figli per la parte di sirena con cui deciderà poi di cambiarsi. Nei vissuti dopo il gioco Anna ricorda, ma non vuol giocarlo, che non capiva la suocera, in Algeria, e che ora la madre, quando le telefona, le dice in stretto dialetto: non ci capiamo. II sogno: I morti non morti

Anna è affacciata alla finestra della casa del suo paese e guarda il cimitero. Molti escono dalle tombe, la terra è tutta smossa, come in un terremoto. Dalle tombe esce sua madre: non sono morta, dice. La madre è avvolta in un sudario (nella realtà la madre è viva). Lei è sempre stata cattiva dice Anna guardandola nel gioco. Anna sente che deve andare incontro ai morti, non può scappare.

Nel cambio di ruoli psicodrammatici Anna, nella parte della madre, parla in dialetto, e si accorge che il sudario è come un velo, come il chador che dovette indossare quando giovane sposa entrò nella casa del marito.

Nei vissuti della propria parte Anna dice che poteva capire le parole della madre solo a tratti, gli altri attori del sogno, i morti-non morti, soffrivano di non poter né capire né parlare, ma di potersi esprimere solo a gesti. Da qui il gruppo, attraverso i giochi di alcuni suoi componenti, lavora sul tema della contradditorietà dei messaggi dei genitori e sulla sofferenza di quando, bambini, ci si interrogava se è il gesto ad aver valore, o la parola detta, in contraddizione al gesto, quando si è alla disperata ricerca di un messaggio che dica qualcosa di chiaro sull’affetto dei genitori, della madre in particolare.

Dunque, il gruppo, ed Anna in particolare, scopre che la femminilità è meravigliosa ma può venir coperta da un velo che è come un sudario. L’essere madre è parte della femminilità ma quando esce allo scoperto si rivela contraddittorio, ambivalente e pieno di sofferenza.

Anna può ricordare ora sia i problemi con la madre sia quelli con la suocera e può cominciare a chiedersi che madre è stata lei stessa e potrà essere ora che non ha più veli che la coprono in senso reale e figurato.

Per Anna, semianalfabeta e con capacità di astrazione verbale ridotte dopo anni di malattia la psicoterapia individuale verbale è inaccessibile. Attraverso la drammatizzazione dei sogni le si rivela però un concetto come: “Sono stata allevata da una madre che mi mandava dei messaggi a doppio legame, in particolare sul mio diritto (e sul suo) ad essere femmina, madre e moglie. La femminilità è stata coperta come da un sudario mortuario. Tutto ciò è esploso quando mi sono affacciata alla sessualità e alla maternità in un paese straniero, senza punti di riferimento e dove la femminilità è potente ma viene velata. Così la mia infanzia e la mia prima giovinezza venivano ad assomigliarsi come sensazioni di estrema minaccia dovute al femminile, ad aspetti della Grande Madre. Lo sapevo dentro di me ma non lo capivo, non potevo spiegarlo a parole, così ho strutturato un delirio persecutorio che desse un senso ai sentimenti che provavo”. Tutto ciò Anna non l’ha detto né potrà dirlo mai, né ascoltarlo da uno psicoterapeuta.

Nello psicodramma ha dialogato (è passata attraverso il discorso/il pensiero=dya-logos) con le sue parti interne, con gli aspetti della Grande Madre, così meravigliosi e così minacciosi. Anna, dopo essersi consentita dunque di discorrere con le sue immagini interne, con i suoi archetipi, durante la giovinezza inflazionati, si permetterà in psicodramma nella sua maturità di non raccontare e rappresentare solo più sogni, in seguito, bensì anche episodi sui quali s’interroga della sua vita quotidiana.

Giocherà i rapporti attuali con i propri figli e figlie, con le nuore, con la propria madre. In qualche modo la vita e i giochi psicodrammatici ridiventano più terreni, Anna riacquisisce la possibilità di differenziare la sua Persona, il suo Io dai contenuti dell’inconscio. Questi tuttavia anche perché sono stati giocati, assunti come ruoli in psicodramma, personificati, non sono né più scissi in complessi autonomi né sopraffanno il sistema psichico rendendo impossibile la vita di relazione, come nel lungo periodo di schizofrenia acuta. Nel panorama delle applicazioni dello psicodramma immaginale non possiamo dimenticare un esempio relativo ai problemi dell’infanzia dove le immagini sono più fluide e forse più poetiche che nel mondo degli adulti.

Giulia, bambina adottiva di 9 anni, con disturbi del sonno e dell’alimentazione partecipa anche lei ad un gruppo di psicodramma. Per bambini naturalmente, dove il materiale su cui lavorare è fornito dalle storie raccontate dai piccoli pazienti (Palazzi Trivelli Zavatteri 1994).

Il lavoro terapeutico psicodrammatico sul materiale-storia, segue le stesse regole dei gruppi per adulti: rappresentazione, cambio di ruoli, esame dei vissuti, eventuali associazioni e amplificazioni quando opportuno e necessario. I bambini amano ripetere più volte la stessa storia come a cercarne un diverso finale che offra un significato di apertura, veramente altro, proiettato verso il futuro. I bambini lo fanno anche nella vita facendosi raccontare sempre la stessa storia o riproducendola nei giochi una certa storia li rappresenta, è il concentrato, l’immagine simbolica che parla della loro vita personale. Per Giulia era una versione inventata da lei della Regina delle nevi di Andersen, dove però trovava posto anche un pappagallo tutto d’oro, parlante. L’oro era stato evocato dalla storia raccontata da un altro bambino del gruppo (Andrea) che aveva immaginato una casa tutta d’oro chiesta da un povero pescatore, ad un pesciolino anch’esso tutto d’oro. Questo metallo indistruttibile, di cui son fatte le fedi matrimoniali, che può rimanere sotterrato per anni senza alterarsi, prodotto finale del processo alchemico, era vissuto da Andrea come lucente, pieno di ricchezza e protettivo. “Il pesciolino la sa la verità” aveva detto Andrea, e: “nella casa d’oro si sta bene, quella non si rompe mai”. Andrea, figlio di una signora con forti problemi depressivi che spesso si mostra “a pezzi” davanti al suo bambino, era al termine della sua psicoterapia psicodrammatica.

Aveva trovato dentro di sé qualcosa di intero indistruttibile e molto prezioso. Giulia lo prende a prestito per il suo pappagallo – d’oro appunto – che abita in una stanza proibita e trasforma tutto e tutti in ghiaccio, a meno che non si conosca la formula magica che scioglie l’incantesimo (e il ghiaccio). La stanza proibita del pappagallo si trova – ahimè – nel castello tutto di ghiaccio della Regina delle nevi, bellissima ma “ghiacciata”, come dice Giulia. L’uccello soccorrevole con cui Giulia si cambia nel gioco, anche quando sarà libero potrà solo, in versioni seguenti della storia, ripetere pappagallescamente sentimenti e parole chiuse in antichi ghiacci.

E’ l’imitazione di una figlia, ciò che si sente Giulia in questo periodo della sua vita. L’oro preso a prestito non da a Giulia un senso di pienezza come ad Andrea, è un’ulteriore difficoltà da affrontare. Dovrà passare ancora molto tempo prima che la simbologia delle storie di Giulia si “scongeli” e con essa il suo modo di vivere la sua mamma adottiva e le sue stesse potenzialità.

Notiamo che, negli ultimi esempi portati, le immagini prodotte e drammatizzate dai pazienti hanno svolto una funzione ben diversa da quelle che abbiamo visto nei precedenti gruppi di pazienti con problemi nevrotici o sostanzialmente normali. Nelle psicosi schizofreniche infatti il pensiero verbale-concettuale (o meglio quel complesso di operazioni mentali proprie del cervello sinistro che potremmo definire digitali) viene assorbito e risucchiato da un caos di riferimenti molteplici per cui non è in grado di svolgere il compito di integrare e coordinare, riferendole ad un’immagine coerente di sé, la molteplicità di istanze, rappresentazioni e spunti progettuali che anima il mondo interiore. Anche nel bambino il pensiero verbale-digitale svolge tale compito in maniera incompleta, fino a che le capacità di astrazione non si sono adeguatamente sviluppate. Ne consegue che, se nell’adulto normale o nevrotico molte immagini, giocate in psicodramma, hanno prevalentemente la funzione (tipica del pensiero analogico rispetto a quello digitale) di superare la rigidità dei ruoli legati al complesso dell’Io per esprimere ciò che è oltre e fuori di essi, nello schizofrenico, come nel bambino, attraverso di esse il pensiero analogico lavora invece a sviluppare o ricercare una matrice da cui emerga un principio di ordine nel caos. Attraverso la drammatizzazione di tali immagini, sentimenti e idee altrimenti confusi e non esprimibili assumono una forma coerente che permette dapprima di rapportarli all’agire virtuale dello spazio interiore e successivamente a quello reale della vita quotidiana. E’ noto infatti che gli schizofrenici (in un certo senso talora anche i bambini) usano in luogo dei segni, intesi come significanti riferiti a qualcosa di generalmente e totalmente noto, dei simboli.

Se, nella teoresi Junghiana, il simbolo è un’immagine che rappresenta la migliore espressione possibile, per una data fase dell’evoluzione della coscienza, di un dato di fatto ancora sconosciuto nei suoi elementi essenziali, nella teoria dei ruoli-progetto esso costituisce, per così dire, un elemento-ponte tra più sistemi di ruoli o più mondi progettuali non congruenti tra loro.

Se ci esprimiamo in termini linguistico-epistemologici il segno è un significante univocamente definito nell’ambito di un unico linguaggio coerente. In questo senso corrisponde alla dimensione sociale del ruolo: quella che permette a tutti di comprendersi reciprocamente ed a ciascuno di corrispondere alle aspettative altrui. Il simbolo è invece un significante che si trova a far parte contemporaneamente di più linguaggi di differente struttura e non traducibili l’uno nell’altro: esso, con la sua presenza, spinge a superare l’apparente contraddizione imponendo lo sviluppo di un metalinguaggio o di un linguaggio più ampio. Questo richiama le tre caratteristiche, profondamente legate tra loro che per Trevi (1988) sono specifiche del simbolo pragmatico (concetto che corrisponde al senso proprio del simbolo nella teoresi Junghiana): 1) il con-tenere elementi opposti, che un pensiero razionale e dirimente mantiene legittimamente separati e, nella loro mutua esclusione, disgiunge e distanzia; 2) l’indicare allusivamente ciò che non può essere espresso in termini razionali, facendosi portatore di un progetto non ancora ospitabile nella coscienza; 3) l’agire come apparato attraverso cui la coscienza attua la propria trasmutazione, determinando nella struttura psichica sviluppi evolutivi e trasformazioni creative.

Riportando tutto ciò alla teoria dei ruoli progetto, il simbolo-ruolo, col suo appartenere contemporaneamente a più sistemi e modelli relazionali (riferiti sia alle relazioni con gli Altri del mondo che ci circonda, sia a quelle tra personaggi del mondo interiore), quindi col suo essere parte di più visioni e progetti di mondi, funge da ponte, da fulcro e da catalizzatore per nuove aperture e per una sintesi di essi.

In questo senso alla dimensione sociale del ruolo si contrappone la dimensione immaginale: la dimensione della possibilità, che si attualizza attraverso lo sperimentare al proprio interno nuovi punti di vista, connessioni, significati. E questo caratterizza la forma che assume il simbolo nella pratica dello psicodramma: innanzi tutto la sua concretizzazione in un personaggio (che rappresenta un personaggio interno del protagonista) in una scena che viene giocata: questo comporta la drammatizzazione del personaggio stesso cioè il mostrarlo nel suo agire, all’interno di una relazione con altri personaggi, che ne rivela l’intenzionalità. Questa attraverso il gioco, il cambio di ruoli e il doppiaggio nello psicodramma va sempre esplorato, magari anche solo perché se ne rivelino i limiti: ad esempio l’uccello d’oro di Giulia (a differenza del personaggio solo esteriormente simile della favola di Andrea) rappresenta la parte della protagonista che tende ad assimilarsi rigidamente agli ideali altrui e che per questo, sotto il suo apparente splendore non può che essere povera, meccanica e ripetitiva: ciò che appariva bello e rassicurante si rivela attraverso il gioco come un limite da superare.

In ogni caso, nei bambini come negli schizofrenici, le immagini fantastiche prodotte dai primi nel giocare alle favole, dai secondi nei sogni o magari nei deliri e nelle allucinazioni, forniscono una prima rappresentazione di istanze interiori o di intuizioni ancora confuse, fino a quel momento non riportabili al linguaggio collettivo, ma che, attraverso il gioco drammatico, possono venir comunicate e condivise.

Ma lo psicodramma non si deve mai arrestare, compiacendosene, alla dimensione simbolico-mitica: tali giochi non sono che la premessa perché, talora nella stessa seduta, talora in sedute successive, magari dopo mesi di lavoro, gli stessi ruoli progetto possano venir tradotti in giochi che rappresentano la vita quotidiana, la storia, le dinamiche famigliari, le realizzazioni concrete e i piani futuri attraverso cui, nel mondo reale, si attualizzerà il senso dell’esistenza del paziente.

 

Bibliografia

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