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A e P --> HOME PAGE --> N° 3 - Settembre 2004




Anno IV - N° 3 - Settembre 2004

Articoli originali




Elaborazione e soggettivazione nel trattamento degli adolescenti

Daniele Biondo



Presentazione

A conclusione delle serate scientifiche che avevano visto i soci dell’ARPAd confrontarsi, durante tutto l’anno sociale 2003-2004, sul tema della soggettivazione e dell’elaborazione nel trattamento in adolescenza, Arnaldo Novelletto, sull’onda dell’entusiasmo che il tema aveva fatto registrare, propose di realizzare nel luglio del 2004, una tavola rotonda fra coloro che avevano presentato i loro contributi. Si resero disponibili ad intervenire Arnaldo Novelletto, Fiorella Del Pidio, Piergiorgio Laniso, Paola Catarci e Cinzia Lucantoni.
Il resoconto di quella serata è la testimonianza delle questioni metodologiche e teoriche che sono al centro del dibattito scientifico dell’ARPAd, del quale “Adolescenza e Psicoanalisi” si è preso il compito di riferire. Senza alcuna velleità di sintetizzare esaustivamente tale dibattito in queste brevi note introduttive, ritengo possa essere utile per il lettore una breve presentazione dei contributi di quella serata.
La tavola rotonda è stata aperta dal corposo contributo di Novelletto, il quale con il suo solito stile lieve ed asciutto, esprime lucidamente i temi in campo. Nel suo lavoro, Novelletto illustra il concetto di soggettivazione di R. Cahn, evidenziandone la novità rispetto al concetto di Sé di Kohut e la continuità con la teorizzazione di Winnicott. Un concetto che, avendo messo al centro dello sviluppo evolutivo il lavoro di trasformazione ed appropriazione soggettiva dell’individuo, modifica profondamente l’orientamento diagnostico (trasportandoci dalla nozione di struttura a quella di organizzazione) ed il lavoro clinico (che trova la sua nuova centralità nel gioco esplorativo della coppia terapeuta-paziante finalizzato alla scoperta del soggetto circa il suo mondo, il suo essere, le sue pulsioni, il suo posto nelle generazioni, la sua identità, il suo funzionamento psichico). Nei successivi interventi, che hanno puntualmente commentato i contributi degli altri colleghi, Novelletto chiarisce ulteriormente come il concetto di soggettivazione permette di far progredire le forme di aiuto psicoterapeutico agli adolescenti in difficoltà. E’ sull’onda di queste considerazioni che Novelletto rivolge al gruppo di lavoro dell’ARPAd un appello appassionato in direzione della modificazione della tecnica terapeutica, per renderla capace di affrontare la sfida imposta dalla patologia della soggettivazione dei nuovi adolescenti, ma anche dei nuovi adulti.
Nel contributo della Del Pidio il tema della soggettivazione è declinato nei termini dell’alleanza terapeutica, alla luce della teorizzazione di Bollas sui “rapporti soggettivi”, vista in continuità con quella di Ferenczi. E’ grazie al gioco relazionale che si attiva fra paziente ed analista che, secondo Bollas, può nascere il soggetto. In particolare con gli adolescenti e con i pazienti gravi, la “dialettica della differenza” proposta da Bollas, può consentire, secondo la Del Pidio, di superare momenti di impasse nella terapia.
Laniso si concentra nel suo lavoro su una questione centrale della tecnica terapeutica con gli adolescenti: tollerare i tempi della crescita imposti dal processo di soggettivazione del paziente, oppure concentrarsi sull’interpretazione del transfert e dei nuclei psicopatologici conseguenti alle vicissitudini traumatiche? Il contributo di Laniso propone così di interrogarsi, da un lato, sulla capacità dell’adolescente di riflettere e sulla sua tendenza a rifugiarsi nell’autocura o nella fuga dal pensiero e, dall’altro, sulla capacità del terapeuta di tollerare nel proprio controtransfert i tempi lunghi della crescita del paziente e contenere l’impulso ad agire la propria ansia terapeutica attraverso interpretazioni precoci di transfert.
Il contributo congiunto della Catarci e della Lucantoni si concentra sul tema dell’elaborazione, promossa, a loro avviso, dal desiderio dell’adolescente di risignificare i conflitti legati alla sessualità infantile e alla costellazione oggettuale interna infantile. Il tema dell’infantile (collegato a quello di elaborazione del passato), che in questo contributo acquista una peculiare centralità, sarà ripreso nel dibattito ed ampiamente discusso.
Da queste brevi note introduttive si può vedere come l’oscillazione tra modelli pulsionali e modelli relazionali che caratterizza il dibattito psicoanalitico contemporaneo, nonché l’oscillazione fra modelli interpretativi edipici e modelli preedipici che caratterizza la psicoanalisi dell’adolescenza, inevitabilmente coinvolge anche il gruppo di lavoro dell’ARPAd. Un gruppo di lavoro che, proprio come segnala il suo presidente Maltese, attraverso questo serrato confronto sulla tecnica sta realizzando il proprio originale processo di soggettivazione. Chi vorrà pazientemente seguire il filo della discussione e della riflessione che si è dipanato nella tavola rotonda, avrà il piacere di scoprire come il concetto di soggettivazione permetta di realizzare un balzo in avanti nella ricerca clinica, proponendo in termini diversi i termini delle antinomie prima citate. Si tratta di oscillare fra un modo d’intendere lo sviluppo del processo maturativo che pone l’accento sull’importanza dei processi psichici rispetto alle loro mete, ed un modo che valorizza l’impiego che il soggetto della cura sceglie di fare delle proprie funzioni psichiche. Mi sembra che porre la questione in termini non più antitetici fra elaborazione e soggettivazione, ma in termini sintetici, cioè di elaborazione del processo di soggettivazione, ci consenta di fare notevoli progressi nella nostra ricerca di un modello di lavoro clinico adeguato alle nuove patologie narcisistiche che incontriamo nel lavoro con gli adolescenti. Ma non voglio togliere al lettore il piacere di formulare, grazie alle sollecitazioni che può ricevere dalla lettura dei contributi che seguono, la propria personale posizione su questioni così centrali del proprio lavoro.


Sé, soggetto, soggettivazione
di Arnaldo Novelletto

Nel corso dell’anno accademico che si sta concludendo, il susseguirsi delle riunioni serali dell’ARPAD, con la corrispondente presentazione di casi clinici, ha suscitato in me alcune considerazioni.
La prima è che il concetto di soggettivazione, nel senso di Cahn, si ripropone insistentemente nel nostro gruppo.
La seconda è che anche fuori della nostra cerchia il termine è sempre più spesso citato, e in modo non sempre pertinente.
La terza è che però nemmeno per noi dell’ ARPAd la soggettivazione deve ritenersi perfettamente compresa e acquisita, dal momento che si è levata più di una richiesta di approfondimento. Mi pare evidente, quindi, che da un lato si sente il bisogno di una migliore integrazione del concetto con il bagaglio teorico-tecnico già in uso nella pratica clinica (come ad esempio con il concetto di elaborazione). Dall’altro si vuole capire meglio se la soggettivazione è effettivamente in grado di far progredire le forme di aiuto psicoterapeutico agli adolescenti in difficoltà.
Le suddette considerazioni mi hanno indotto a proporvi la riunione di questa sera, in modo da avviare una riflessione comune sull’obiettivo che ho appena indicato. E allo scopo di facilitare questo avvio mi è parso opportuno ricordare per sommi capi alcune premesse, e cioè da quali contributi precedenti si è originato il concetto di soggettivazione; in che modo è stato ripreso, ampliato e connotato da Cahn; quali conseguenze esso comporta nella pratica psicoterapeutica; e in definitiva se esso può consentire una migliore differenziazione dei vari tipi possibili d’intervento psicoterapeutico a seconda delle condizioni che si offrono (livello di sviluppo del paziente, varie fasi dell’adolescenza e del preadulto, livello psicopatologico e di gravità, livello di trattabilità, ecc.).
Si può far risalire la comparsa del termine soggettivazione al 1991, quando Cahn, che dal 1962 in poi aveva scritto vari lavori sull’adolescenza, presentò, al 51° Congresso di psicoanalisi dei paesi di lingue romanze, la relazione principale, intitolata “Del soggetto”. Con quel lavoro egli si proponeva di aggiornare la metapsicologia freudiana dell’Io alla luce dei contributi accumulatisi in psicoanalisi nei 50 anni precedenti.
La scoperta dell’inconscio da parte di Freud aveva messo in crisi la concezione cartesiana dell’Io che reggeva da due secoli. Con il “Cogito ergo sum” Cartesio aveva affidato all’uomo moderno uno statuto fondato sull’individuo riflessivo. La sua unità e la sua identità riposavano sul pensiero, sulla capacità dell’individuo di padroneggiare, illuminare il versante interno del proprio mondo, mediante la consapevolezza, e di percepire ed esplorare il versante esterno, il mondo degli oggetti, mediante la conoscenza. L’Illuminismo e l’Enciclopedia erano venuti a realizzare ed applicare queste magnifiche facoltà.
Freud ribalta questa concezione della soggettività, ponendo alla sua base la pulsione, croce e delizia di un soggetto che talvolta può dominarla, ma talaltra ne è dominato.
Con L’ ”Introduzione al narcisismo”, Freud compie un secondo decisivo passo, consegnando al soggetto psicoanalitico un’altra fondamentale proprietà: la sua libido non si dirige soltanto verso l’oggetto. Essa è prima di tutto e sopra tutto diretta sul soggetto stesso e usata da lui stesso. Il soggetto può esistere se si sente amato e non impara ad amarsi nel giusto modo. Il terzo passo Freud lo compie con l’ultima sua opera (L’uomo Mosé, 1939). Esso consiste nel collegare l’angoscia per la perdita dell’amore materno con la scoperta dell’altro e nel collegare la minaccia di quella perdita con l’accettazione dei divieti. é la nascita del Super-Io. Il soggetto, per nascere e sussistere, deve potersi concepire in una doppia traiettoria: essere (se stesso) e avere (l’oggetto) cioè identificarsi con l’oggetto e desiderare l’oggetto.
Tra la morte di Freud e i primi anni Ô60 non emersero nel mondo psicoanalitico autori capaci di affiancare alla forza propulsiva della parte inconscia dell’Io un’altrettanto dinamica visione delle funzioni cognitive e affettive dell’Io cosciente. Al contrario, la concezione delle “funzioni autonome” dell’Io di Hartmann apparve deludente e sopra tutto in Europa fu presto messa da parte. Dello stesso Hartmann, invece, fu accolta nel 1964 la riesumazione del termine Sé (Self), che era stato tirato in ballo fin dal 1934 in campo sociologico, senza che nessuno lo avesse raccolto in psicoanalisi. Oggi Cahn spiega questo recupero nel modo seguente. Poiché nell’organizzazione verticale del soggetto era possibile discernere dove finisca l’Es e dove inizi l’Io, si rendeva necessario un nuovo termine (appunto il Sé) per definire chi gestisce dinamicamente ed economicamente la funzione mediatrice e strutturante della conflittualità permanente fra le due istanze (Io ed Es). Quindi il Sé non è un’istanza che si va ad aggiungere alle tre già note, ma un insieme funzionale che regola dinamicamente tre diverse dialettiche:
La prima è l’equilibrio tra l’investimento narcisistico (che consente l’identificazione) e l’investimento oggettuale (che consente la soddisfazione, l’appagamento fisico dell’identità).
La seconda è l’equilibrio fra la stabilità (risultato di un investimento narcisistico continuo e unico) e il cambiamento (risultato di un investimento oggettuale discontinuo e multiplo).
La terza riguarda l’equilibrio nell’osservare l’apparato psichico, a seconda che si segua un’osservazione diacronica (che privilegia l’osservazione dello sviluppo del sé nel tempo) oppure un’osservazione sincronica (che privilegia l’osservazione delle varie istanze e del Sé in uno stesso momento).
Lungo questo filo conduttore si sono susseguiti nel tempo gli apporti della Jacobson (1954-64), di Kohut (1971-1977) e di altri. Però secondo Cahn questi contributi sono rimasti limitati ad una concezione settoriale del Sé come sentimento del vissuto personale o come funzione di sintesi dell’identità (senso di appagamento, di buon funzionamento). Sotto l’una o l’altra di queste versioni il Sé è stato spesso idealizzato o reificato dagli autori che lo hanno più enfatizzato. Lo hanno invece svalutato quegli autori secondo i quali il Sé non è riuscito a rappresentare un contenitore stabile e unico, come deve essere l’assetto costitutivo di un soggetto.
Con l’avvento di Winnicott, negli anni ’60 e ’70, questa linea di pensiero va incontro a una svolta radicale. L’approccio fortemente empirico consente a Winnicott di non impelagarsi, come tanti autori precedenti, in problematiche filosofeggianti come il dilemma soggetto/oggetto o quello tra res cogitans e res extensa (corpo e psiche, materia e spirito). Agli occhi di Cahn, Winnicott ha l’enorme merito di partire da una visione fenomenica della coppia madre-bambino e di trarre da questa osservazione la concezione di un Sé che nasce dall’incontro di due narcisismi (quello che si origina nel soggetto e quello che la madre proietta su di lui). Si tratta quindi di un processo simultaneo e reciproco (il “Due in uno”, come lo definisce Cahn) che sfocia nella manifestazione dell’essere da parte del neonato. Pertanto questa nascita del Sé precede qualunque albore di relazione che possa dirsi oggettuale, mette in gioco soltanto l’identificazione primaria. Parliamo di un Sé che non è ancora dotato di una funzione percettiva (e tanto meno rappresentativa) suscettibili di essere messe al servizio della graduale selezione e definizione di una propria identità vera. Ma è un Sé che fin dall’inizio coincide con un modello globale dell’intero apparato psichico in via di organizzazione. L’incontro tra le funzioni del bambino (motilità e percezione, che possono impiegare qualunque canale corporeo) e tutti gli stimoli che la madre gli presenta è un incontro simultaneamente cognitivo e affettivo. Dopo aver suscitato l’essere, esso si continua nel processo di soggettivazione. Chiamare questo processo soggettivazione invece che sviluppo del Sé come eravamo soliti fare, significa sottolineare che il Sé non è un risultato, un valore aggiunto del processo di crescita realizzato da un apparato psichico che è costruito e che funziona nello stesso modo in ogni individuo. Vuol dire al contrario che ciascun individuo è il proprio apparato psichico e il proprio funzionamento, e si riconosce in loro.
Da un punto di vista psichico “Il soggetto non è l’essere, una parte di essere uguale a tutte le altre, ma è un modo di essere che si forma con un certo margine di variabilità man mano che cresce, quindi un certo modo di essere”.
L’apporto originale di Cahn s’innesta a questo punto della teorizzazione di Winnicott e dei suoi primi successori, M.Khan e Bollas. Direi che Cahn riconduce la teoresi provvidenzialmente empirica di Winnicott nell’alveo della metapsicologia psicoanalitica classica, articolando intorno al soggetto la sintesi che ne risulta come asse ideale centrato sull’autenticità, la creatività, il diritto di autodeterminazione. Ecco come egli sintetizza le proprie conclusioni:
“Nessuno dei vari concetti utilizzati abitualmente, come l’Io, il me, il Sé, l’identità, è in grado di ricoprire da solo la nozione di soggettoÉLa definizione psicoanalitica del soggetto si articola non sulle istanze, ma su funzioni che risalgono alle varie istanze più o meno integrate, e cioè:
Un processo di autocreazione, nel quale si è coinvolti.
L’auto-appartenenza di pensieri, atti, desideri, sentimenti, conflitti (è il capitolo che Winnicott ha intitolato al falso e vero Sé).
Uno spazio di libertà che porta con sé l’aleatorietà.
Lo sviluppo di un’area intermedia d’illusione condivisa, che favorisce la ricerca di relazioni.
La capacità di stabilire o ristabilire legami psichici.” (Cahn R. Du sujet. Bulletin de la Société Psychanalytique de Paris n.19,1991, p.52-53).
Di conseguenza la soggettivazione si definisce un lavoro di trasformazione e di appropriazione soggettiva, a partire dalla capacità della mente d’informarsi del proprio funzionamento e di rappresentarsi che il funzionamento rappresenta la sua attività rappresentativa.
Il processo di soggettivazione è quindi da considerare, nel suo divenire e nel suo risultato, un frutto contemporaneo d’invenzione e di riconoscimento (creato/trovato). Se trovato nel processo della cura psicoanalitica, esso si esplica come un trovare/creare a partire da un lavoro identificativo comune e rispettivo tra i due partner. Ciò implica quell’area di “gioco”condiviso, quel lavoro di metaforizzazione e di acquisizione di senso che favorisce l’organizzazione del preconscio.
La soggettivazione del bambino (e, per traslato, del paziente) nel corso del legame con l’oggetto soggettivante può essere, molto approssimativamente, ricondotta a un modello generale distinto in varie fasi:
Fase dello scambio di sguardi tra madre e bambino, nel quale il Sé nasce.
Fase dell’identificazione primaria, preliminare a qualunque scelta d’oggetto. é il modello della comunicazione analitica, nel quale si possono presentare due alternative: “avere da essere” (carenza dell’oggetto) o “dover essere” (eccesso dell’oggetto).
Fase della scoperta dell’oggetto in quanto non-Sé, e uso dell’oggetto come distruzione di esso. Ciò consente la distinzione del mondo interno dal mondo esterno. La parola diventa determinante.
Fase di appropriazione della funzione soggettivante della madre. Ciò permette al soggetto un primo livello di autonomia rispetto alle eccitazioni, esterne o interne, modulate dalla funzione di para-eccitazione svolta dalla madre.
In questo paradigma si dovrà considerare come fallimento della soggettivazione tutto ciò che non è stato significato al soggetto circa il mondo dove vive, tutto ciò che non gli è stato reso decifrabile, autorizzato, circa il suo stesso essere, le sue pulsioni, il suo posto nelle generazioni, la sua identità. Tutto ciò che dagli oggetti che lo circondano è reso intollerabile al soggetto tramite l’intrusione, la seduzione, la carenza o l’incoerenza, che perciò non è metabolizzabile né trasformabile, lo getta in un rapporto alienato per eccesso di eccitazione o per mancanza di senso. La clinica conferma continuamente che la dimensione economica di questa patologia della soggettivazione è particolarmente importante. Ciò porta a sminuire la nozione di struttura e a privilegiare la nozione di organizzazione, più elastica, modificabile e reversibile tra il polo della scissione e quello della reintegrazione. (R.Cahn. La fine del divano Ð Borla. Roma, 2004, p.138-152)
Fin qui, insieme a tante altre digressioni, collegamenti, riferimenti e citazioni, il riordino metapsicologico di Cahn dell’impianto winnicottiano. Al quale egli si riallaccia a partire dall’adolescenza del soggetto, riproponendo i contributi personali che egli ha forniti su questo periodo dello sviluppo psichico, dagli anni ottanta a oggi. Ma non mi addentro su questa parte, che è interamente disponibile in italiano. Spero che questo preambolo sulla soggettivazione ci aiuti a farci intendere meglio fra noi e ad inoltrarci nei rispettivi percorsi di riflessione senza smarrire il senso della condivisione di un bagaglio comune di idee e di esperienze.
Se sentiremo di aver raggiunto una chiarezza sufficiente, potremo fare un altro passo avanti e prendere in considerazione i rapporti tra soggettivazione e altri aspetti del nostro lavoro, come l’elaborazione, il setting, la trattabilità ecc.


L’alleanza terapeutica nell’ambito della teoria dei rapporti soggettivi
Fiorella Del Pidio

Credo che nessun discorso sul soggettivo, la soggettività, la soggettivazione possa prescindere da ciò che ognuno di noi intende con tali termini.
Nel suo testo Principi di psicologia James (1890) distingue quattro aspetti della soggettività umana: 1) Senso di essere causa delle proprie azioni (Agency), 2) Distinzione caratterizzante (Distinctiveness), 3) Continuità, 4) Riflessione Dalla sensazione di essere causa delle proprie azioni ciascuno trae il senso di autonomia, di volontà, di sé stesso come agente e autore della propria esperienza. Dalla distinzione caratterizzante traiamo il senso d’individualità. La continuità è la base della stabilità ed evoca l’esperienza di "continuare-ad-essere", secondo l’espressione di Winnicott “going-on-being” (Winnicott, D.W.,1968, L’uso di un oggetto e l’entrare in rapporto attraverso le identificazioni”. Tr. it. in Esplorazioni psicoanalitiche, Raffaello Cortina, Milano 1989). Il termine riflessione, secondo James, si riferisce al fatto di essere consapevoli della propria consapevolezza.
Lo scopo di questo mio lavoro nasce dal tentativo di riflettere sull’alleanza terapeutica in generale, e in adolescenza in particolare, concepita come un rapporto dinamico che origina, si evolve nel tempo e si struttura a partire dalle funzioni del Sé di entrambi i partner coinvolti nella relazione.
In altri termini si tratterebbe di un processo di negoziazione in continua oscillazione tra il bisogno di riconoscersi come soggetto e la necessità di riconoscere la soggettività dell’altro. Collocata nell’interfaccia tra intrapsichico e interpersonale, l’alleanza terapeutica potrebbe costituire, in quest’ottica, il prerequisito per il dispiegarsi di quelle esperienze mediante le quali diventa possibile mettersi in relazione con sé stessi e con l’altro sia in qualità di soggetto sia in qualità di oggetto.
Fermo restando questo punto di partenza sono arrivata a ipotizzare l’alleanza terapeutica come un aspetto di quella capacità esperenziale e affettiva comunemente definita “funzione riflessiva”, concetto che trae origine dalla ricerca psicologica sui processi d’attaccamento.
Vorrei ricordare brevemente che lo sviluppo di questa funzione dipende dalla presenza di figure significative capaci non solo di comprendere empaticamente gli stati emotivi del bambino, ma anche di rispondere adeguatamente in base alla loro comprensione.
Ciò è in linea con quanto sosteneva Winnicott che i bambini scoprono sé stessi quando guardano il volto della madre. Internalizzando l’interpretazione del propri stati mentali fatta da un’altra persona, il bambino impara a rappresentarli a sé stesso, a dar loro un significato e a condividerli.
Con il procedere del percorso evolutivo, anche la funzione riflessiva raggiungerà ulteriori livelli di maturazione. Così il bambino imparerà a rappresentarsi lo stato emotivo dell’altro, ben distinto dal proprio, e a tenerlo in mente.
Per questi aspetti la funzione riflessiva viene definita come la capacità di tenere nella mente gli aspetti soggettivi e quelli oggettivi sia del soggetto sia dell’oggetto. Attraverso questo processo dialettico diventa possibile fare esperienza di sé come soggetto e riflettere su sé stesso come oggetto. La funzione riflessiva, dunque, si sviluppa in ambito intersoggettivo ed è alla base dei processi personali di mentalizzazione.

Ho ritenuto opportuno questa premessa, perché il concetto di alleanza terapeutica, rappresentando la dimensione più relazionale della teoria psicoanalitica, ci permette di cogliere l’influenza dell’intrapsichico e dell’intersoggettivo nello strutturarsi della relazione terapeutica. Mi sembra importante sottolineare che, intesa in questo senso, l’alleanza terapeutica non sarebbe soltanto una cornice per l’esperienza trasformativa del transfert-controtransfert, ma avrebbe essa stessa un aspetto potenziale di cambiamento psichico. Tutto ciò ha risvolti clinici importantissimi.
Infatti, nella misura in cui la consideriamo un punto di partenza per raggiungere una nuova consapevolezza sui fattori che promuovono o ostacolano la relazione, le rotture dell’alleanza terapeutica ci possono dare una chiave di lettura di come paziente e terapeuta affrontano la tensione dialettica tra il Sé e l’Altro. Ciò implica una considerazione più approfondita sulla personalità del terapeuta e sulle sue capacità di far spazio al dialogo interno tra sé e sé in presenza dell’altro.
“Quando oggettiviamo il Sé, - dice Bollas - nel dialogo muto e intermittente che è il palcoscenico del nostro mondo interiore, o quando parliamo di noi stessi con gli altri, ci poniamo ad una certa distanza dal Sé che noi siamo e ci rivolgiamo ad esso come ad un oggetto”.
La capacità di creare un dialogo col proprio Sé è, per questo Autore, una caratteristica della “teoria dei rapporti soggettivi”. La teoria dei rapporti soggettivi riguarda, proprio come la teoria dei rapporti oggettuali, gli scambi dialettici tra paziente e analista, però con una differenza. La teoria dei rapporti oggettuali riguarda la comprensione dell’analista rispetto alla formazione e alla proiezione delle rappresentazioni interne del Sè e degli oggetti tra analista e analizzando. La teoria dei rapporti soggettivi, invece, basandosi sul complesso campo di rapporti che il soggetto ha con sé stesso, riguarda scambi degli elementi idiomatici tra analista e paziente, o più precisamente lo scambio tra “due sensibilità umane, che creano insieme un ambiente unico per la loro coabitazione” (Bollas, Ch.; Le Forze del destino, Edizioni Borla. Roma, 1991). Di conseguenza, sempre per questo autore, essere un soggetto “ significa trovare il modo per esprimere la propria situazione interiore in quel momento”. Ciò richiede all’analista la capacità di cui già parlava Ferenczi, di oscillazione tra il "gioco libero dell’associazione e della fantasia e il passare al vaglio le cose in modo logico e critico" (Ferenczi, S., 1932, Diario clinico).
Vorrei dunque proporre una lettura dell’alleanza terapeutica nell’ambito della teoria dei rapporti soggettivi, perché l’area tra due soggetti umani in un rapporto dialettico costituisce quello spazio potenziale che potrebbe trasformarsi in un’area intermedia dell’esperienza quando paziente e analista riescono a giocare insieme attraverso lo scambio dialettico delle rappresentazioni emergenti dal Sé, grazie alle libere associazioni prodotte dal paziente e all’attenzione liberamente fluttuante dell’analista..
Questa visione dell’alleanza terapeutica mi sembra utile soprattutto in adolescenza, dove al terapeuta si richiede una particolare sensibilità ai segnali più o meno gravi di rottura della relazione terapeutica e in cui la capacità di autoconsapevolezza può essere considerata più l’obiettivo della terapia che non il suo prerequisito.
Vorrei sottolineare che proprio in adolescenza, in cui i fenomeni di soggettivazione (e tutto ciò che li ostacola) sono in primo piano, diventano imprescindibili le capacità dell’analista di porsi egli stesso come soggetto. Cosa che l’analista può raggiungere attraverso il lavoro psichico che fa sulle comunicazioni del paziente.
Mi piace citare ancora una volta Ferenczi:
“... E anche il medico deve liberare la sua fantasia in tutte le direzioni, anche le piu’ paradossali; tuttavia egli ha l’obbligo e l’impegno di non allontanarsi troppo dalla superficie della coscienza e di non tralasciare nemmeno per un momento il compito di osservare i pazienti, di valutare il materiale prodotto e di prendere decisioni su eventuali comunicazioni ecc” (Ferenczi, S.,1932, Diario clinico).
Bollas elabora quanto già intuito da Ferenczi, fa un passo avanti e suggerisce anche indicazioni tecniche:“Per porsi come soggetto nel campo analitico, l’analista deve - egli sostiene - rivelare di più della procedura analitica all’analizzando”. Per questo autore, infatti, il contenuto di un’interpretazione per quanto corretto è meno significativo del processo che porta all’interpretazione. “Quando il paziente - continua Bollas - ha bisogno di sapere perché sono arrivato a un certo commento, gli spiego come ho composto la mia interpretazione. .......... Talvolta un paziente non chiede come sono arrivato a un’interpretazione, ma io gli dico che intendo spiegargli il mio percorso. Questa è una delle caratteristiche importanti che autorizzano e limitano la funzione del soggettivo”.
Rivelare, con molto tatto e senza usurpare la dinamica del transfert, la natura dei processi interni che hanno portato l’analista a formulare una determinata interpretazione significa far partecipare il paziente all’evoluzione del pensiero dell’analista in direzione della conoscenza. Rivelando il modo in cui elabora il paziente, l’analista sostiene il processo delle libere associazioni. E di fatto sostiene l’alleanza terapeutica.
Tutto questo richiede all’analista disciplina, tatto ed equilibrio per dare spazio agli elementi soggettivi attraverso i quali elabora e struttura il discorso dell’altro. Richiede, inoltre, la capacità di sostenere nel rapporto con il paziente la dialettica della differenza, un aspetto senz’altro importante nella terapia con gli adolescenti.
Bollas arriva alla dialettica della differenza introducendo nel campo analitico il fattore divergenza, prima con se stesso e poi con il paziente. Le divergenze tra paziente e analista, così come le divergenze da sé stessi hanno la funzione di favorire, attraverso il distacco dal già noto, attraverso la libertà dal conosciuto, l’elaborazione della conoscenza inconscia. Nelle parole di Bollas:
“Prima di tutto l’analista deve costituire un rapporto con la sua soggettività, diventare un soggetto nel campo dell’analisi e pensare a ciò che dice (per esempio le associazioni) in modo analogo al modo in cui prende in considerazione le associazione del paziente.
In secondo luogo, deve riconoscere ogni momento in cui il paziente non è d’accordo e con attenzione articolare le correzioni del paziente.......
In terzo luogo, l’analista può non essere d’accordo con il paziente. Per chiarire questo aspetto come un fattore non traumatico ed essenziale dell’analisi, l’analista dovrebbe dichiararlo con semplicità, in un momento non particolarmente importante, e non appena gli è possibile farlo........” Vorrei sottolineare l’importanza di creare una dialettica della differenza con i pazienti gravi e anche con gli adolescenti, specialmente quando i fenomeni di regressione nel transfert sono così massicci da minacciare l’interruzione della terapia. Mi riferisco, cioè, a tutte quelle situazioni cliniche in cui il conflitto tra bisogno e paura raggiunge livelli tali da rendere difficile distinguere l’oggetto del bisogno dalle angosce regressive ad esso collegate.
Quando un analista riesce a creare e a sostenere la dialettica della differenza, non corre il rischio di trasformarsi regressivamente e negativamente in un oggetto soggettivo o in un oggetto Sé. Diventa se mai “un oggetto soggettivo con un elemento operativo <> che consente l’elaborazione intersoggettiva del conflitto” (Bollas, Ch.; Le Forze del destino, Edizioni Borla. Roma, 1991).
Divergendo dal paziente, ma innanzitutto divergendo da se stesso, come quando conoscenze parziali già raggiunte vengono distrutte per dar spazio alla possibilità di nuove conoscenze, l’analista fa sì che l’elemento terzo emerga e prenda forma nella diade terapeutica. Infatti invitando il paziente a osservare la relazione dell’analista con se stesso sia in quanto soggetto che in quanto oggetto, si apre uno spazio triangolare all’interno della diade analitica. L’elemento terzo implica una relazione tra il sé, l’altro e la visione che l’altro ha del sé e la sua creazione è una funzione dell’alleanza terapeutica.
Vorrei sottolineare ancora una volta l’importanza attribuita da Bollas alle libere associazioni del terapeuta. Infatti esse non solo rendono possibile la dialettica della differenza, ma sostengono anche l’alleanza terapeutica che implica appunto due soggetti in relazione tra di loro. Quando un terapeuta fa libere associazioni e vi riflette analiticamente non solo pone sé stesso come soggetto e oggetto nel campo dell’analisi, ma stabilisce una comunicazione tra sé e sé che è alla base di quella comunicazione empatica con l’altro che definiamo sensibilità analitica e che nasce appunto dall’esperienza umana di essere contemporaneamente soggetto e oggetto dell’esperienza.
Forse è opportuno ricordare a questo proposito che la sensibilità psichica presuppone una certa elasticità e malleabilità, sia per registrare gli stimoli che ci colpiscono, sia per ripristinare la condizione originaria. é attraverso questa sensibilità che il lattante recepisce, registra le tracce della madre reale, distinta dall’imago materna che impersona le proiezioni del bambino e ne è influenzato.
La forma passiva dell’“essere influenzati” non può essere disgiunta dalla sua forma attiva “influenzare”; cosa che accade impercettibilmente non solo nella relazione madre-bambino, ma anche tra analista e paziente. Sarà proprio dal riattivarsi nel paziente e /o nell’analista di queste tracce mnemoniche delle prime cure ricevute e dalla recettività a lasciarsi da esse informare, che si gioca la possibilità o meno di articolare un’alleanza di lavoro tra lo specifico idioma di quel paziente e lo specifico idioma di quell’analista. L’idioma di una persona, nel linguaggio di Bollas, riguarda quel nucleo unico di ciascuno che in condizioni favorevoli può svilupparsi e articolarsi in relazione al mondo esterno. Non è qualcosa che può essere decifrato e svelato dalla parola. “ é piuttosto - dice Bollas - una serie di possibilità specifiche uniche di una data persona e soggette per la loro articolazione alla natura dell’esperienza vissuta nel mondo reale. La vita del vero Sé si trova nell’esperienza del mondo fatta da ciascuna persona. L’idioma che noi siamo trova espressione nella scelta degli oggetti disponibili nell’ambiente e nel loro uso” (Bollas, Ch.; Le Forze del destino, Edizioni Borla. Roma, 1991).
Così, se un terapeuta è in grado di percepire i bisogni e i desideri del suo paziente sarà anche in grado di fornirgli ciò che è necessario per elaborare il suo potenziale personale e potrà collaborare con lui nell’impresa creativa di dar forma a rappresentazioni sempre nuove a ciò che emerge dal Sé.
In questo modo, secondo me, l’alleanza terapeutica, intesa come collaborazione tra due soggetti per trovare esperienze che favoriscono la creazione di nuove rappresentazioni del Sé attraverso l’uso reciproco, sostiene i processi di soggettivazione nella misura in cui queste rappresentazioni possono essere articolate in modo armonico nella personalità totale. Ciò implica che esse possano essere accolte, osservate e rispettate come tali e soprattutto usate transizionalmente tra analista e paziente, prima ancora di essere interpretate, cosa che potrebbe, d’altronde, non essere necessaria.


Novelletto
Avete sentito quanto Fiorella Del Pidio si sia concentrata essenzialmente su Bollas. Indubbiamente Bollas è uno di quelli che ha scritto di più su questi argomenti. Però mi sembra che Bollas rappresenti quel tipo di autore che dà alla problematica del Sé e del soggetto una visione di gran lunga prevalente intorno al narcisismo, mentre dal punto di vista che avevo cercato di spiegare prima, che è quello di Cahn, emerge la necessità di vedere il Sé per trasparenza, cioè coglierne la presenza in qualunque aspetto del funzionamento psichico, nella dimensione soggettiva. Cahn lo dice quando afferma: la visione può essere prevalentemente concentrata sulla identità. Secondo Cahn i contributi di Jacobson e Kohut, sono rimasti limitati ad una concezione settoriale del Se, come sentimento del vissuto personale o come funzione di sintesi dell’identità. Sotto l’una o l’altra di queste versioni del Sé possiamo vedere come il Sé possa essere idealizzato o enfatizzato.
Secondo me Bollas è ancora vicino a questo coro, cioè vuole sottolineare tutta l’attenzione che bisogna fare per porsi empaticamente con l’oggetto e viceversa, attraverso questa lettura degli aspetti soggettivi e oggettivi del proprio Sé. Cahn, invece, mi sembra che prospetti la possibilità di vedere la soggettivazione - che in qualche modo trasuda attraverso qualunque poro dell’apparato fisico - in qualunque procedimento funzionale (il pensiero, la libera associazione, la fantasia, il disinvestimento o l’investimento). Egli vede questa dinamica della soggettività in tutti gli aspetti in cui essa si esplica, sia esteriormente che interiormente.
Il punto cruciale è quello di trovare la sintesi.
Qui tra Cahn e Bollas possiamo scorgere non dico una divergenza, ma una concezione alternativa, che è quella aperta da Winnicott. La concezione di Bollas è più empirica, basata sulla esperienza dell’incontro vissuto, mentre quella di Cahn discende dalla teorizzazione a largo raggio. Quindi, secondo me, rimane ancora la necessità di un lavoro di sintesi, perché nel rapporto diretto col paziente tutte e due queste dimensioni sono al tempo stesso necessarie e limitate. In particolare nell’adolescenza. Infatti l’adolescente è difficile coglierlo come oggetto di osservazione. L’adolescente ha sempre un modo di porsi prevalentemente superficiale, difensivo, non si presenta in modo incisivo, almeno che non si tratti di adolescenti già abbastanza cresciuti, quasi giovani adulti, o che soffrono molto, cioè vicini al breakdown. Altrimenti se,pur restando adolescenti, sono discretamente costruiti, sono più evasivi, guardinghi.

Tra emancipazione e patologia
Piergiorgio Laniso

Nel lavoro terapeutico con gli adolescenti ho dovuto affrontare spesso uno specifico vissuto di controtransfert: tollerare il conflitto tra l’aiuto alla ripresa della crescita, avendo come obiettivo principale rimuovere blocchi o inibizioni del processo di soggettivazione, e d’altra parte l’analisi dei funzionamenti di significato psicopatologico emergenti nel transfert.
In questa sede vorrei soffermarmi in particolare sui problemi controtransferali nei quali mi sono imbattuto con alcuni giovani pazienti, venuti in trattamento alla fine dell’adolescenza o nella prima età adulta. Pur tenendo conto delle notevoli differenze soggettive di questi giovani e della differente relazione che si era stabilita con ognuno di loro, ho potuto individuare alcuni significativi elementi di somiglianza.
Tutti hanno deciso autonomamente di intraprendere un trattamento perché da soli non ce la facevano più a tollerare la sofferenza. Però hanno incaricato un adulto, genitore o parente, con il quale si erano aperti, dopo aver tenuto a lungo segreti i loro disturbi, di prendere il primo contatto con me.
Hanno patito un breakdown evolutivo durante lo sviluppo puberale, passato praticamente inosservato ai familiari e gestito quasi completamente in solitudine.
Queste persone, tutte notevolmente intelligenti, sembra che abbiano fronteggiato tale sconvolgimento puberale, allestendo una sorta di autocura, basata su relazioni privilegiate di tipo narcisistico con un fratello, una sorella o un coetaneo, intercalate da momenti di ritiro. Inoltre si sono serviti di un uso del pensiero per lo più ossessivo, a volte deliroide, riuscendo però a salvaguardare lo studio. Infine hanno cercato spiegazioni alle proprie angosce in letture filosofiche, romanzi di formazione e letture psicoanalitiche sporadiche.
Da notare che hanno presentato come caratteristica comune, all’emergere delle tensioni più acute, una dissociazione mente-corpo e una tendenza all’esternalizzazione di scene e di conflitti interni, questi ultimi controinvestiti.
Un’apparente tenuta e gli aspetti di falso sé hanno lasciato il posto a improvvisi scompensi narcisistici, con regressioni anche marcate e disorganizzanti, quando questi giovani Ð per ragioni varie della vita si sono distaccati dagli oggetti narcisistici su menzionati o dai familiari Ð e hanno avuto i primi approcci sentimentali veri, alcuni con iniziazione sessuale completa, altri no. Le espressioni psicopatologiche sono state molto varie, di tipo depressivo acuto, con disturbi somatici difficili da rimuovere, oppure attacchi al corpo o disturbi di personalità.Tutti con conseguente arresto della soggettivazione.
In questi giovani la comparsa massiccia dei disturbi si è accompagnata a riattivazione dell’après-coup in forme spesso tumultuose, con esperienze di sentirsi sommersi dagli impulsi e dalle emozioni di non poterle contenere. Da qui le manifestazioni acute di sofferenza e l’urgenza di intraprendere un trattamento psicoterapeutico.
Nella relazione terapeutica ben presto è emerso questo paradosso: alla comunicazione spesso irruenta di contenuti emozionalmente e istintualmente intensi e palpitanti, oppure di forme di inibizione seria, si è accompagnato un rifiuto tenace alla riflessione. Da notare che detti contenuti sono stati spesso rappresentati da sogni chiari, ben costruiti, oppure da scene della vita esterna significative o, ancora, da agiti che invitavano all’analisi. A questo proposito, ho trovato utile, per una comprensione possibile, una considerazione di Philippe Jeammet su un certo modo di porsi rispetto all’attività di pensiero, da parte degli adolescenti. In essi, “ una netta predominanza del Ôvissuto’ sul Ôpensato’, può dare l’impressione di un’assenza totale di introspezione o più spesso e in modo più dinamico, di un rifiuto attivo dell’introspezione. Non si tratta secondo me di un meccanismo di difesa ben elaborato, perché non ha l’elasticità né la selettività di una rimozione nevrotica, né la vastità o la certezza di una scissione strutturale, né l’efficacia di una negazione. é piuttosto una misura difensiva che sarei tentato di accostare sul piano economico a controcariche che si traducono in un atteggiamento fobico (mal focalizzato e quindi relativamente inefficace e dispendioso per il funzionamento psichico) tale da indurre l’adolescente a sfuggire i propri pensieri. Tale misura difensiva mi sembra legata alla sessualizzazione globale del pensiero tipica di questa età e rappresenta il contraltare psichico dell’atteggiamento fobico verso il corpo sessuato. Essa è intimamente associata alla sessualizzazione delle rappresentazioni e del processo stesso del pensiero ed è volta a lottare contro i conflitti provocati dai desideri incestuosi e dalla rivalità fallica. Questo assetto difensivo mi sembra allo stesso tempo rappresentare anche un tentativo di padroneggiamento attivo, da parte dell’Io, della situazione di passività in cui l’adolescente si trova rispetto alla Ôviolenza’ della sessualizzazione indotta dalla pubertà, così come lo era stato in passato rispetto alla Ôviolenza’del linguaggio materno, che imponeva il proprio significato al vissuto del bambino” ( P. Jeammet, Psicopatologia dell’adolescenza, pag. 23 e segg., Borla 1999).
In un primo tempo ciò è stato comprensibile per me, osservando, ancora con Jeammet che “non è possibile vivere il cambiamento e contemporaneamente pensarlo, quando esso ha l’ampiezza dello sconvolgimento adolescenziale che tocca la totalità delle istanze della personalità”.Poi con il procedere della relazione terapeutica, questo mi ha posto i problemi controtransferali ai quali ho fatto cenno in precedenza. Cioè a dire: aiutare i giovani pazienti a riprendere il cammino della soggettivazione, secondo Cahn, dopo aver favorito il superamento dello scompenso narcisistico con la relativa regressione, oppure privilegiare il lavoro sulle manifestazioni psicopatologiche e sulla ricostruzione delle vicissitudini traumatiche?
Mi sembra opportuno riportare qui ciò che Cahn intende per processo di soggettivazione come modello evolutivo “ Il concetto di processo di soggettivazioneÉ..riserva al periodo dell’adolescenza un’importanza analoga al precedente periodo di latenza e al contempo rende conto delle particolarità strutturali dell’insieme dei quadri clinici e delle relative modalità di approccio analitico a qualsiasi età. Questo processo di soggettivazione progressiva, perseguito dalla nascita alla morte, ci sembra un modo di considerare l’insieme dei fenomeni nella duplice prospettiva sincronica e diacronica. Esso si rivela determinante non solo nei primi anni, ma anche in adolescenza, che è un periodo di rimaneggiamento e di conclusione provvisoria, date le angosce identitarie e la qualità dell’oggetto, contemporaneamente ipereccitante e minaccioso, che essa rappresenta. Tra il ripristino di precedenti legami e la creazione di nuovi, si apre una serie considerevole di possibilità, data l’ampiezza e l’intensità dell’attività di slegamento che si mette in moto. Il margine lasciato o meno alla dimensione d’indeterminatezza, tra apertura possibile all’ignoto o al nuovo e permanenza nell’automatico e nell’identico, acquista un valore considerevole. Su questo margine la nuova spinta al tempo stesso interna (pulsionale) ed esterna (ambientale e oggettuale) andrà ratificando in modo più o meno radicale le precedenti modalità del processo di soggettivazione, che si presenta più come processo di differenziazione che come processo di separazione-individuazione. Un processo di differenziazione che, in virtù dell’esigenza interna di un proprio pensiero, consente l’appropriazione di un corpo sessuato, e, nel migliore dei casi, l’uso delle capacità creative del soggetto in un movimento di disimpegno, di disalienazione dal potere e dal piacere dell’altro, cioè un movimento di trasformazione del Super-Io e di costituzione dell’Ideale dell’Io. Questo processo di soggettivazione, ininterrotto per tutta la vita, implica un soggetto che ha da inventare se stesso senza sosta mediante i legami, nella loro necessità come nella loro incessante rimessa in discussione e nella potenzialità permanente di disfarli, rifarli, gli stessi o altri, allo stesso modo o diversamente. Si tratta di una specie di “funzione soggetto”, che potrebbe essere annoverata nella metapsicologia in quanto concernente i diversi fattori in causa nell’appropriazione soggettiva della realtà psichica. Il processo di soggettivazione ha senza dubbio a che fare con l’Io, con le funzioni dell’Io che lo consentono, ma in realtà esso è transizionale ÉMa si verifica anche troppo spesso che la cura sfoci sulla constatazione di un’assenza o un’insufficienza di questa funzione soggetto. Ciononostante il soggetto si svelerà a chi è andato a cercarlo, nella gamma dei vari procedimenti a cui la psiche è stata costretta a ricorrere per dissimulare il suo stato di soffocamento o di subornazione: la perspicacia dell’analista consisterà proprio nel reperirlo dietro ciò che dissimula o lo ha fatto apparentemente scomparire É.” ( R. Cahn, L’adolescente nella psicoanalisi, pag. 52 e segg., Borla, 2000.)
Tornando al mio discorso, ho cercato di tenere il conflitto aperto, come compito controtransferale e lasciare, entro certi limiti, la libertà ai giovani pazienti di oscillare fra queste due possibilità. Ho cercato cioè da un lato di farmi trovare pronto a corrispondere loro nel contenimento dell’angoscia, e nella ripresa della crescita, con lo sperimentare, mettersi alla prova delle relazioni, che questo comporta. Correlato a ciò, ho proposto loro, in un modo che ho sentito spontaneo, non intrusivo, un lavoro teso a dare senso alle loro esperienze, a vivere nel presente, e valore di realtà psichica ai loro affetti e impulsi, sia che li riconoscessero come propri, che come reazione alle iniziative degli oggetti esterni, ponendomi a loro come oggetto di sostegno narcisistico. Tale lavoro ha riguardato anche gli agiti. Dall’altro lato, ho cominciato a collegare le angosce attuali con quelle che li avevano tormentati all’esordio della pubertà, in occasione del breakdown, mano a mano che i sogni e le associazioni vi facevano palese riferimento. Questo senza affrettare interpretazioni.
Ho notato che, con lo stabilirsi di un’area intermedia di scambio e di rappresentazione e con la comparsa di elementi di alleanza terapeutica, e di fiducia nel lavoro comune, le resistenze a riflettere su ciò che popolava il preconscio si sono progressivamente affievolite. A volte, e in particolare da parte di uno di questi giovani, si è manifestata l’esigenza di focalizzare l’attenzione su questi aspetti, prima rifiutati, con l’assaggio del lavoro analitico specialmente volto a comprendere il senso di certe difese “ patologiche”, seppure all’esordio sintoniche a un’angoscia non altrimenti arginabile.
Per lungo tempo ho ritenuto opportuno tenere per me le manifestazioni psicopatologiche che si presentavano nel transfert, non facendo interpretazioni a questo livello. Ho cominciato ad arrischiarne qualcuna quando l’alleanza nella relazione mi è sembrata sufficientemente solida e con quei giovani che mi sembravano averla intuita. Non ho insistito con coloro che mostravano di reagire con evidenti reazioni negative. A proposito del contenimento da parte mia della relazione transferale, mi è sembrato di osservare come questa astinenza potesse favorire in loro una identificazione a questo livello, trasformando la loro esigenza di segretezza in capacità di contenimento. D’altra parte, queste iniziali interpretazioni di transfert hanno avuto un effetto favorevole, soprattutto quando le ho proposte in seguito ad agiti paradossali, resistenze tenaci non abituali, che sembravano contrastare l’alleanza di lavoro e mi facevano ipotizzare che il transfert stesse emergendo, generando molte angosce di dipendenza vissuta come influenzamento. Comunque la scelta di astenermi per lungo tempo dall’esplicitare ai pazienti comunicazioni o interpretazioni di transfert ha tenuto conto di una ulteriore considerazione economica: interpretare avrebbe favorito una spinta massiccia all’uso dell’après-coup, con probabile irruzione nella relazione di contenuti fallici e prefallici che avrebbero alimentato ulteriormente le angosce istintuali e l’erotizzazione con il rischio di regressioni difficili da arginare, oppure di opposizioni negativiste.
Tra gli effetti di questo modo di procedere nella relazione ho notato un circoscriversi dell’angoscia libera e delle relative difese, rispetto alle precedenti invasioni massive diffuse a tutto l’apparato psichico. La proposta di un significato nuovo delle difese “patologiche”, considerate resistenze al cambiamento e alla crescita soggettiva invece che etichette nosografiche, ha comportato il ridimensionamento degli aspetti onnipotenti dell’autocura.
Inoltre, il riconoscimento dell’appartenenza a sé di alcuni aspetti svalorizzati, disprezzati e proiettati all’esterno, come pure di affetti e atteggiamenti non facili da accettare, ha favorito una progressiva differenziazione tra sé e l’oggetto.
Da sottolineare anche la ripresa degli studi o del lavoro, resa possibile dalla ritrovata disponibilità di un pensiero in parte autonomo rispetto alle intrusioni sessualizzate, all’erotizzazione del rapporto con l’oggetto e agli attacchi, alle rappresentazioni che lo avevano siderato in precedenza. Questo, insieme alla differenziazione dall’oggetto, ha permesso un aumento del senso di sicurezza e la ripresa di una vita di relazione a volte soddisfacente, unitamente ad un nuovo atteggiamento di cura e attenzione verso il corpo e il suo uso.
Infine ho potuto constatare un ricorso meno frequente alla dissociazione mente-corpo, e lo sviluppo dei nessi associativi tra queste due aree della mente.


Novelletto
Mi sembra che Laniso ci abbia aiutato a mettere meglio a fuoco la problematica della soggetivazione terapeutica dell’adolescente, che è costituita inizialmente da una scelta tecnica: come approcciare questo tipo di struttura. La discussione è appassionante, di alta differenziazione terapeutica: si tratta di decidere come avventurarsi veramente sul terreno del falso Sé. Quando Laniso dice di lasciare aperto il conflitto e di assumere una posizione segreta e clandestina nell’analizzare, mi sembra che ci si immetta in una situazione quasi da capogiro, nel senso che ci si avventura su un terreno che si può rivelare in ogni momento ingannevole. Mi chiedo se questo si potrebbe definire una specie di capacità di elaborazione deviata da parte del paziente. Questo tipo di paziente si pone quasi in una condizione di analista dilettante di se stesso e in questo senso parlo di una elaborazione deviata, potremmo dire dilettantistica. Coloro (e non solo gli adolescenti) che presumono di analizzarsi da soli leggendo i libri qua e là, prendendo uno squarcio da una parte o una citazione dall’altra hanno, secondo me, una forma deviata di preconscio. Le loro sono associazioni di idee che vengono usate con una presunzione di terapeuticità. Ma queste associazioni sono recuperabili o no? si possono riutilizzare o sono da buttar via?
Abbiamo due alternative possibili: o quella del segreto clandestino, aiutando il paziente e sperando che possa rientrare in una carreggiata che abbia un senso nei confronti della realtà, oppure quella di dichiarare fallimentare la sua ricerca. Questa è una distinzione radicale che coinvolge la duttilità o la trattabilità e anche, se vogliamo, il recupero di questo tipo di risorse del paziente. Io sono favorevole alla prima alternativa, penso che i giovani abbiano queste risorse. Mi riallaccerei proprio al lavoro di Anthony sull’autocura, che spiega come spesso tanti ne traggano risultati positivi. Molto probabilmente la maggior parte di questi casi nessuno li viene a sapere, rimangono sepolti nel segreto della loro identità.Ci sono molti che pensano di essere riusciti a fuggire da un incubo.
Naturalmente capire quando è il momento d’intevenire nella situazione interiore del paziente non è facile. Si può prudentemente mettere il paziente di fronte all’alternativa, ma bisogna stare attenti, perché l’adolescente la depressione la regge poco.Perciò sta solo a lui capire quando comincia a sentirsi abbastanza forte per potersi confrontare con l’ombra di un oggetto che sia sostenibile, è lì la questione. Comunque sono d’accordo che alle volte ci si sente vicini a un delirio.



La psicoterapia con gli adolescenti:
quale elaborazione ?

Paola Catarci, Cinzia Lucantoni

A) Siamo state spinte ad approfondire il tema dell’elaborazione in adolescenza, a partire da una serie di quesiti che l’esperienza con gli adolescenti continuamente ci pone.
Che tipo di elaborazione ci propone la terapia con gli adolescenti? Lo scarso utilizzo che è possibile fare delle interpretazioni di transfert ricostruttive, le tendenze all’agito, l’alternarsi di spinte narcisistiche e di ricerca dell’oggetto, la frequenza delle interruzioni premature, sono elementi che giocano contro il processo di elaborazione, e fino a che punto?
Nonostante la discontinuità degli insight - che abbiamo definito l’aspetto “carsico” dell’elaborazione - riteniamo che la spinta a risignificare i conflitti legati alla sessualità infantile e la costellazione oggettuale interna infantile costituisca un alleato forte dell’elaborazione.
Nel lavoro che abbiamo presentato in una delle nostre serate scientifiche di quest’anno, abbiamo cercato di evidenziare il legame tra soggettivazione e nachtraglichkeit. In questo senso l’elaborazione necessita di fenomeni psichici legati al tempo, non solo e non tanto in senso quantitativo (quanto tempo occorre per l’elaborazione) ma come innescarsi di fenomeni dinamici di risignificazione tra passato e presente, che abbiamo chiamato “qualitativi” (non tanto dunque o non solo “quanto tempo” ma “quale tempo”).
La rivisitazione del passato è guardare il proprio “paesaggio interno” attuale, ponendo se stesso come soggetto del proprio apparato psichico e del proprio funzionamento.
B) Un adolescente viene in terapia per un sintomo, per uno stallo delle relazioni, per agiti auto o eterodistruttivi. Ciò che ci viene presentato è comunque un disegno in cui tra i sintomi che impediscono il dispiegarsi delle possibilità maturative e la rudimentale spinta alla soggettivazione, non vi è soluzione di continuità.
Iniziamo un percorso terapeutico ideale in cui la ripetizione propria dell’elaborazione e del transfert potrebbe segnare la distanza dalla coazione a ripetere. Questo percorso è tuttavia, appunto, ideale. La stessa relazione terapeutica infatti replicherà il paradosso.
L’adolescente viene per ricevere aiuto, ma se questa funzione viene riconosciuta innesca angosce di assoggettamento, il senso di un ostacolo alla soggettivazione. Aspetti difensivi agiti e spinta alla soggettivazione rimangono paradossalmente coincidenti nella fantasia:
”se ti abbandono dimostro che sono soggetto (delle mie pulsioni)”. In un nostro precedente lavoro avevamo evidenziato quanto la presenza di una situazione paradossale, con gli elementi di perturbanza e ambiguità che porta in sé, possa spingerci a “risolvere il paradosso” utilizzando in modo “improprio” l’arma dell’interpretazione delle difese e del transfert. Ci riferiamo in particolare alla tentazione di interpretare in senso difensivo i fenomeni di resistenza all’analisi, primi fra tutti i tentativi di riduzione delle sedute o interruzione prematura della terapia.
C) I fenomeni di trasferimento (transfert), risignificazione, soggettivazione sono tutti fenomeni insiti nel funzionamento psichico a prescindere dalla presenza di un processo analitico in corso.
In questo senso abbiamo descritto l’elaborazione in adolescenza come una modalità di funzionamento dell’apparato mentale, più che considerarla un’attività volta alla ricerca di soluzioni dei conflitti.
Alla luce di questo assunto, nel mettere a fuoco il ruolo dell’analista nel corso dei processi elaborativi, ne abbiamo derivata una posizione che utilizza il pensiero di Winnicott sull’“uso dell’oggetto”; in questo senso, ripensando all’elaborazione e alla soggettivazione nella terapia con l’adolescente ciò che ci interessa approfondire è la possibilità di “essere utilizzati”.
Crediamo essenziale, con l’adolescente, che l’analista sappia lasciarsi utilizzare. È essenziale passare per la distruzione dell’oggetto, e la sua sopravvivenza, perché si possa arrivare al suo utilizzo. Si tratta però, nella terapia con l’adolescente, per lo più, non di tappe lineari dello sviluppo da ripercorrere o costruire, ma di posizioni che continuamente e quasi simultaneamente vengono giocate.
In altri termini, per riprendere il pensiero di Novelletto e Cahn, perché l’analista possa ricoprire quella funzione di oggetto soggettivante, essenziale per lo sviluppo, è necessario che il paziente possa vivere e sentire accolte empaticamente, queste posizioni.
Nel valorizzare questo punto di vista, ci rendiamo conto del rischio che si può correre: non si tratta di abbracciare una posizione passiva, di attesa, di rimando solo all’adolescente del “lavoro elaborativo”. Essere utilizzati implica piuttosto la scommessa, e l’attivo sostegno della capacità elaborativa propria del paziente.
Implica anche la rinuncia ad un’attività saturante, al sapere positivo sul destino di quel percorso con quell’adolescente.

Novelletto
Mi sembra che Catarci e Lucantoni abbiano cercato un approfondimento che tenesse conto di tutte le osservazioni avanzate nel corso della discussione che c’è stata. Io sono d’accordo con la parte finale del loro intervento, direi quasi un accordo elettivo con la terza delle loro proposte. Però mi pare anche che chi propende per questa terza tesi, non può non essere dubbioso sulla seconda tesi, che mi sembra forse troppo classica.
Direi questo: la seconda tesi è un inquadramento psicopatologico della situazione dell’adolescente in analisi, che è quella classica della psicoanalisi, a partire dagli anni 50.
Per come vedo le cose io, chi aderisce alla terza tesi deve essere necessariamente portato ad una revisione della seconda, cioè del come ci si pone nei confronti del paziente sul divano.
Ci sono situazioni in cui si è tagliati fuori dalla possibilità di realizzare una ricostruzione in termini analitici di quello che sta succedendo, perché il paziente non considera più il terapeuta. Si è già preclusa quel tipo di empatia che è alla base dell’alleanza terapeutica. Allora si può dire ciò che si vuole per giustificare analiticamente quello che sta succedendo e quello che si è fatto, però in genere il paziente è già perso o per lo meno è perso in quel setting che secondo il terapeuta era necessario. Questo è il punto, che non c’è una possibilità di conciliare le due cose: cioè una difesa dell’analisi tecnicamente esatta, almeno con l’adulto, nella prima o seconda tesi e poi nella terza l’apertura a quelli che le colleghe hanno chiamato giustamente ” fattori di elaborazione”. La considerazione degli aspetti qualitativi, del tipo della relazione è una premessa fondamentale per mettere su un piano nuovo e diverso l’approccio con l’adolescente, ma non si concilia con la premessa, che resta quella freudiana. C’è una dissonanza tra un livello storico,(che però oggi possiamo esprimere in modo più tecnico che storico) tra la prima parte del lavoro, e l’interesse per le nuove vedute , come la soggettivazione. Mi sembra che ci sia un problema di rispetto eccessivo delle premesse classiche, quando qui siamo su un territorio che non è classico, ma di scoperta, di esplorazione degli adolescenti, con le loro modalità di elaborazione, di memorizzazione, di fantasia. Siamo lì a scoprire che questi ragazzi funzionano in un modo diverso dagli adulti contemporanei in generale dagli adulti nevrotici in particolare. Non è possibile applicare una psicopatologia delle strutture”mature”, perché è una maturità che è più dell’adulto, non è neanche del preadulto, ma è dell’adulto ormai cronicizzato nella sua nevrosi. Con quel tipo di struttura l’orizzonte ormai è già precluso, non puoi fare niente per rinnovare una visione nuova con una metodologia antica, tradizionale.

Catarci
Vorrei notare che c’è un rischio nell’assumere il punto di vista di Novelletto: il rischio è nell’estremizzare e nell’idealizzare la diversità e la peculiarità del funzionamento della mente adolescente. Nel sottolineare gli aspetti dissonanti e di rottura con la storia precedente, gli aspetti di unicità e novità, si rischia di perdere di vista certe condizioni dell’identità del soggetto che sono invece in continuità col suo sviluppo precedente ed anche con l’adulto che andrà a divenire.
In questo stesso senso, trovo che spesso, discutendo delle diverse modalità di approccio, o del diverso modo di teorizzare la cura con gli adolescenti, ci si trova a domandarsi se certe posizioni tecniche, non siano in realtà da adottare anche col paziente adulto. Mi riferisco ad esempio alla diversa valutazione delle difese, viste non tanto come resistenza, bensì come modalità-bisogno del soggetto di veder convalidate le proprie esperienze affettive.
Non vedo però perché, questo lavoro, debba necessariamente essere in contrapposizione col pensiero freudiano, quasi ci fosse la necessità di una sorta di “rifondazione” della psicoanalisi.

Novelletto
Accetto tutte e due le obiezioni avanzate da Paola Catarci e rispondo separatamente.
La prima obiezione riguarda che tipo di lavoro fare con gli adolescenti. Io credo che in Italia gli unici a lavorare psicoanaliticamente con gli adolescenti a questo livello siamo noi dell’A.R.P.AD. Allora il discorso lo dobbiamo fare con noi stessi, cioè dobbiamo chiederci se vogliamo andare avanti. Vogliamo andare avanti ad esplorare, oppure no? Abbiamo paura di scostarci da un modello che per certi aspetti sentiamo ormai superato, conosciuto, scontato? Questo modello è quello che per tanto tempo ha portato gli analisti a dire: “Ma certo, tanto gli adolescenti non concludono mai le terapie, se ne vanno, è normale”! Io comincio a sostenere che questa visione può essere modificata, però bisogna vedere se ne abbiamo il coraggio. Non sappiamo dove andiamo, ma se non ci proviamo… Sapete come dicono gli inglesi: “Qual è il modo migliore per assaggiare il budino? mangiarlo”. Se non lo mangi non saprai mai com’è! Allora per quanto riguarda gli adolescenti non è più sufficiente richiamare tutte le premesse storiche, dobbiamo andare avanti, non fare noi stessi soltanto l’après coup della storia della psicoanalisi.
Secondo aspetto: trattare gli adolescenti può comportare ricadute, forse poco politiche, sugli adulti. Ma questi adulti, chi lo dice che sono gli stessi di prima, di trenta, quaranta, cinquant’anni fa, e che quindi con loro ci vuole la stessa tecnica? È dal 1975 che Gaddini ha incominciato a scrivere insieme a Limentani, come e perché stanno cambiando i nostri pazienti. E allora sono cambiati o non sono cambiati questi pazienti? Se sono cambiati cerchiamo di dire se questo autorizza noi a cambiare qualche aspetto della tecnica. Siamo sempre dietro il divano, sempre a quattro sedute e sempre a dire che sono cambiati, però continuiamo a trattarli alla stessa maniera. A me questo non sembra un grande esempio di logica e di coerenza. Questi pazienti che sono nutriti, come sappiamo, dai media, dal consumismo, hanno un’incapacità di dialogare o di trattare ai livelli di empatia necessari con i figli adolescenti. I ragazzi soffrono perché nelle famiglie non si parla, nessuno capisce chi è e com’è il proprio figlio. Che cosa avremmo da perdere se questi pazienti li cominciassimo a trattare come adolescenti, come forse siamo costretti a capire che dobbiamo trattare gli adolescenti, se li vogliamo conoscere di più? Io penso addirittura che c’è molto da guadagnare a trattare certi adulti contemporanei come se fossero adolescenti.
Forse quello che c’è da perdere può essere fare la pseudoanalisi, non la psicoanalisi. Penso che oggi si possa comunque riuscire a fare l’analisi come negli anni 50 o addirittura prima. Certo, la puoi fare, ma dobbiamo vedere che cosa produce. Non è mica sufficiente dire che può produrre a volte buoni risultati, e a volte no. Non vanno così schematicamente le cose. Io credo che oggi ci siano tanti analisti di adulti che fabbricano falsi sé adattati, i quali dicono che hanno fatto l’analisi e che ne hanno tratto (necessariamente) qualche giovamento. Ma ci possiamo anche chiedere se molti dei loro stessi analisti oggi non abbiano lo stesso problema di quei loro pazienti e abbiamo tentato di risolverlo allo stesso modo.
Allora perché dobbiamo tanto preoccuparci di mantenere invariato l’assetto di una teoria e sopra tutto di una tecnica che invece secondo me hanno voglia di crescere, hanno voglia di adeguarsi, hanno voglia di rinnovarsi. Mi sembra che ce lo stiamo negando, proprio contro l’evidenza. Perciò mi sembra che qui la prudenza non è protettiva. Secondo me è una prudenza oscurantista, cioè che mantiene le cose come stanno. E’ conservatorismo, non è prudenza.

Antonella Rossi
Ma siamo sicuri di sapere cosa è utile per far stare bene le famiglie? Cioè cosa può spingerle a parlare con i propri figli? Oppure il punto è che questi cambiamenti, che ormai sono chiari a molti e non solo agli addetti ai lavori (“i pazienti sono nutriti dai mass media, dal consumismo…i ragazzi soffrono perché non si parla nelle famiglie”, come ricordava il professor Novelletto), vanno considerati non come una perdita di qualcosa che prima c’era ed ora non c’è più ma come una scoperta. Una scoperta, questa, che mette in luce il rischio dovuto al fatto che potenziare certe capacità umane di tipo tecnologico, consumistico, offusca altre capacità che hanno più a che fare con la sfera dell’affettività, dell’empatia, delle funzioni riflessive.
Dico questo in riferimento alle società antiche, come il medioevo, in cui l’allevamento dei bambini non prevedeva una particolare attenzione all’aspetto soggettivo della crescita bensì era prevalente la spinta a identificare il bambino con l’adulto (basta pensare all’abbigliamento!). Sicuramente c’era, per necessità, una maggiore interazione fra esseri umani, ma sulle modalità di questa interazione bisogna discutere.
Credo che l’attenzione al bisogno di soggettivazione, che il professor Novelletto ha chiaramente riassunto nell’introduzione a questa serata e che sta interessando la psicoanalisi, abbia le sue premesse anche nella dimensione sociale, una necessità che ha acquisito visibilità e dignità anche se, in termini personali, sono sempre esistiti uomini e donne capaci di trattare l’altro come soggetto, di avere una certa empatia o di riconoscersi essi stessi come soggetti, ma in termini sociali.
La novità scientifica quindi potrebbe essere quella di riconoscere, condividere e studiare un bisogno fondamentale dello sviluppo umano.
Dal punto di vista della cura psicologica ciò significa avere presente dentro di se questa necessità, ed appropriarsi della tecnica che ne favorisce la realizzazione, anche in considerazione della specificità della persona che si rivolge a noi, adolescente o adulto, con le sue specifiche aree di sofferenza.
Anche se oggi il modo di allevare i bambini è diverso e c’è, potenzialmente, un maggiore spazio per favorire il processo di soggettivazione ( tutti sanno molto di più sui bisogni evolutivi del bambino, è nato un mondo a loro misura di giochi, abiti, luoghi ecc…), vediamo bene che la tendenza ed il rischio stanno nel fatto che ciò venga realizzato, il più delle volte, in maniera troppo meccanica e distorta, e che venga messo in atto un falso processo di soggettivazione, che da luogo alla solitudine, al lasciare fare, all’abbandono psicologico dell’altro.
Questo spiegherebbe in parte anche l’altra osservazione del professore e cioè che gli adulti, il frutto di questa nuova società, sono portatori di un malessere specifico che non è riconducibile alle scoperte della prima psicoanalisi.
Ciò non significa negare il valore di ciò che è stato scoperto ed utilizzato ma accettare che la cura psicoanalitica, in quanto scienza dell’uomo, deve e può crescere con lui.

Adriana Maltese
Abbiamo spaziato su tutta una serie di ambiti, dal filosofico al poetico. Mi chiedo se questa tavola rotonda sia una tavola rotonda conclusiva o se, invece, possa essere considerata come un discorso di apertura. Devo dire che la questione della soggettivazione oggi l’ho pensata in tanti modi. Non ne ho un modello in mente e in questo momento non potrei dire che definizione le darei, per quale opzione propenderei. Credo che come gruppo la tavola rotonda di oggi ci sia servita per cominciare a confrontarci, ma abbiano ancora tanto da lavorare per trovare dei punti in comune. Mi chiedo se il nostro prossimo anno scientifico, possa essere dedicato a questo tema, possibilmente con dei lavori clinici, dove ci sforziamo, se ci riusciamo, di dimostrarci all’opera, come noi intendiamo funzionare in questo tentativo. Questo tentativo l’ha fatto Laniso di più ogni altro, però credo che dobbiamo andare avanti su questo; c’è molto da lavorare mi sembra, e sono d’accordo con l’intervento di Catarci: noi abbiamo bisogno di strumenti tecnici, di riferimento, perché facciamo un lavoro clinico e su quello dobbiamo tentare di lavorare.

Paola Carbone
Volevo dire che mi sono piaciute molto le cose che si sono dette, però mi pare che è importantissimo seguire questo metodo. In fondo voi avete fatto degli interventi brevi questa sera, forse presentando un po’ più il succo di un discorso, anche di un discorso clinico. La sintesi del caso di Laniso, pur essendo molto essenziale, penso che sia stata sufficiente a darci un idea di quello che ci voleva dire. Non voleva tanto parlarci del paziente, ma mettere il caso in relazione ad un modello tecnico, che ha un riferimento teorico. A proposito della tecnica, riprendere il pensiero freudiano significa riprendere il metodo di una persona che della tecnica ha cercato di dare una giustificazione teorica, il più possibile coerente con gli strumenti che aveva, cosa che, secondo me, altri non hanno fatto. Neanche Cahn, che tanto si è soffermato sugli aspetti tecnici, ha tanto teorizzato, in effetti ci ha dato dei parametri innovativi, con situazioni cliniche alle quali riferirsi.



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