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Anno IV - N° 2 - Maggio 2004

Lavori originali: “Il lavoro psicoanalitico con adolescenti nelle istituzioni”
Roma, 8-15-22 Maggio 2004




“La psicoterapia individuale dell'adolescente tra ambulatorio e day hospital”

Eleda Spano*



Parlare di psicoterapia psicoanalitica individuale dell'adolescente e poter confrontare le diverse possibilità di setting che l'ambito istituzionale mette oggi a disposizione dei giovani pazienti in difficoltà mi pare particolarmente significativo, soprattutto alla luce di una prospettiva storica.
Per quelli di noi che da oltre venti anni lavorano con gli adolescenti all'interno di un' Istituzione che è allo stesso tempo di cura e di ricerca, quale questo Dipartimento, l'evoluzione della riflessione psicoanalitica sul funzionamento dell' adolescente e sulle migliori opportunità per raggiungerlo e aiutarlo si è strettamente intrecciata con il percorso personale. Un percorso lungo, costruito sulle esperienze cliniche, sul costante confronto tra noi operatori e con le analoghe esperienze in Italia e all'estero, sulle esigenze pratiche via via mutevoli dell'ambito in cui ci siamo trovati ad operare. E' dunque a partire da un dato anche autobiografico, nella misura in cui esso si interseca con una linea di ricerca sulla specificità dell' adolescenza, entrando a far parte della dimensione controtransferale, che vorrei condividere alcune riflessioni su questo argomento.
Agli esordi della mia pratica psicoterapeutica, nei primissimi anni '80, non solo l'adolescenza occupava ancora uno spazio piuttosto indefinito tra la psicoanalisi dell'adulto e quella del bambino, ma l'approccio psicoanalitico stesso in ambito istituzionale era tutt'altro che scontato. Il dibattito era ancora centrato sulla possibilità o meno di realizzare in tale sede una psicoterapia psicoanalitica vera e propria. Il modello cui tendere restava quello classico della psicoanalisi individuale, con le sue regole di privatezza, frequenza plurisettimanale, stabilità del setting, relativa impersonalità dell'analista, pagamento, ecc. Nei fatti, la durata della cura, imprevedibile a priori ma comunque lunga, la scarsità di psicoterapeuti formati, la diffusa diffidenza del pubblico verso un approccio che richiedeva un tale impegno, la rendevano raramente proponibile. La penuria di spazi a disposizione rendeva precario il mantenimento della stessa stanza di terapia, condivisa con altri colleghi, che si arricchiva da una seduta all'altra di nuovi graffiti sul muro, di qualche buco nei mobili. Cambiamenti inaspettati sia per il terapeuta che per i giovani pazienti, che mettevano alla prova non solo la tenuta del setting esterno, ma anche quello interno del terapeuta. La frequenza trisettimanale, richiesta dal regolamento di training, si rivelava molto aleatoria e per lo più non accettata. Per non parlare poi del pagamento e di come regolarsi rispetto alle sedute mancate.
Un pensiero psicoanalitico doveva ancora conquistarsi pienamente un suo posto nelle istituzioni di cura e questo ci impegnava maggiormente ad attenerci il più rigorosamente possibile alle regole classiche. La continua dialettica tra il rigore della formazione e gli ostacoli a metterne in pratica i dettami si rivelava però matrice fruttuosa di ricerca, sperimentazione, rimessa in discussione personale e collettiva, contribuendo all'interiorizzazione di un setting che faceva della mente del terapeuta un contenitore capace di prescindere dalle contingenze ambientali. Riferendosi al fondamentale apporto del pensiero di Winnicott e alla "sovrana libertà con cui egli negoziava le esigenze del setting, tenendone tuttavia paradossalmente fermi i principi fondamentali", Cahn ha di recente sottolineato come sia soprattutto e innanzitutto il modo in cui il terapeuta contiene e trasforma le produzioni del suo paziente a designarlo o meno come analista. Qualità dell'ascolto, dunque, che percorre come un unico filo conduttore tutti i registri della pratica, e che consiste "nell' individuazione attenta, continua, delle condizioni di ciò che impedisce o permette il lavoro dell'attribuzione di senso e di appropriazione delle relazioni della psiche con il sé e con l'oggetto".
Abbiamo imparato un po' alla volta a servirci delle caratteristiche dell'ambiente, a considerarle non più come fastidiosi inconvenienti cui ovviare volonterosamente, ma piuttosto come preziosi elementi aggiuntivi di cui tener conto e su cui fare conto. Tanto più che l'adolescente mal sopportava il dispositivo classico della cura, indipendentemente dallo specifico della sua psicopatologia e a dispetto della appassionata convinzione con cui questo gli veniva proposto. I lavori degli psicoanalisti francesi sulla problematica della dipendenza in adolescenza ( penso in particolare a Jeammet ) confermavano ciò che noi stessi stavamo sperimentando. In primo luogo la grande difficoltà per l' adolescente di accedere ad un rapporto intimo duale, vissuto allo stesso tempo come molto eccitante e molto minaccioso.
Chi di noi agli inizi non ha patito la frustrazione di veder fallire quasi subito un incontro che sembrava avviato sotto i migliori auspici ? Chi non ha invidiato i Laufer, con il loro setting plurisettimanale dove la "fantasia masturbatoria centrale" emergeva attraverso interpretazioni accurate e provviste del giusto "timing" ? Chi non ha avuto il timore che fosse un ripiego accontentarsi di ciò che solo poteva essere offerto nella maggior parte dei casi, vale a dire una terapia monosettimanale?
E' del 1984 la costituzione, ad opera di Arnaldo Novelletto, del Gruppo Romano di Studio dell'Adolescenza, che nel 1995 si darà un assetto societario, a misura della sua conquistata maturità, diventando l'ARPAD, con una propria Scuola di Formazione. Il Gruppo Romano riuniva in forma molto spontanea un gran numero di noi che, a diversi livelli di formazione, erano interessati ad imparare sull'adolescenza attraverso lo scambio di esperienze cliniche, il dibattito teorico, il confronto con le altre esperienze all'estero. Le discussioni sulle variazioni della tecnica per trattare gli adolescenti erano all'ordine del giorno e ci inducevano ad affinare sempre più la conoscenza del processo adolescenziale. Favorire o meno il transfert, uso del divano o del faccia-a-faccia, scelta del sesso del terapeuta, rischi legati alla regressione, modalità e timing dell' interpretazione. E naturalmente come contenere gli agiti e quale posto dare alla realtà concreta che l'adolescente porta sempre con tanta urgenza e spesso con tanta violenza.
Ma una volta attuate tutte queste variazioni, si poteva ancora definire psicoanalisi quello che stavamo facendo ? Doveva ancora passare molto tempo prima che un analista autorevole quale R. Cahn scrivesse nel suo ultimo libro, uscito proprio in questi giorni: "Non è forse vero che è fuori dal setting della cura sul divano che è nata la maggior parte delle nozioni e dei modi di approccio che hanno rinnovato e approfondito la tecnica e la teoria psicoanalitica, sia che derivassero dall'approccio ai bambini, agli adolescenti, agli psicotici, ecc....?"
Nel ripensare quegli anni, mi sembra che essi possano rappresentare un po' la nostra adolescenza professionale. Qualcosa cioè che ha camminato a volte silenziosamente dentro di noi costruendo quello che oggi siamo e quello che diventeremo, con tutta la passione, la curiosità, gli errori, la ricerca di un proprio stile, di un' identità personale, con i necessari distacchi e i relativi lutti. Insomma, il nostro comune percorso di soggettivazione.
Una realizzazione importante di questo percorso è legata alla costituzione del Servizio Adolescenza, in seno alla II Cattedra di N.P.I. Si trattava di un servizio ambulatoriale che per la prima volta prevedeva la disponibilità ad una immediata presa in carico dell'adolescente, senza ulteriori passaggi di mano o rinvii. Era apparso evidente, cito Donnet per quanti altri parallelamente si orientavano nella stessa direzione, che "l'adolescente pone abbastanza spesso la sua richiesta in maniera precaria, fuggevole, che va colta. [...]. Molto meno che con un bambino o un adulto è possibile sostenere la finzione di una separazione tra esplorazione e trattamento". Insomma è diventato chiaro che con l'adolescente un incontro rischia sempre di restare l'unico, se non riusciamo a interessarlo o ad esserne autenticamente interessati. Nasce così "la consultazione prolungata", che permette non solo l'affinarsi di criteri diagnostici sempre più accurati e flessibili, ma anche il realizzarsi di numerose psicoterapie vere e proprie. La "funzione terza" svolta dall'Istituzione, con le sue regole e le sue caratteristiche, si rivela un importante contenitore nel trattamento delle psicopatologie medio-gravi che in prevalenza si presentano al Servizio, e che qui assai più che nel privato possono essere trattate. Contemporaneamente è vivo l'interesse per l'approccio plurifocale di questi casi difficili, che l'istituzione facilita per la presenza al suo interno di diverse figure professionali. Cominciamo a utilizzare la teorizzazione di Jeammet sullo spazio psichico allargato dell'adolescente e riflettiamo sul possibile uso dei transfert laterali che l'adolescente è fisiologicamente portato a fare, quale preziosi alleati nel lavoro.
Così, nel 1997 questo Servizio confluisce nel nuovo Ospedale Diurno per adolescenti, alla cui costituzione ho avuto la fortuna di partecipare fin dall'inizio. Non mi dilungherò sulle sue caratteristiche, perché se ne è già parlato in questi tre incontri e ne abbiamo già scritto in diverse occasioni.
La posizione del terapeuta individuale in un setting istituzionale di questo tipo è particolarmente complessa. Egli non è l'unico interlocutore del suo paziente né quello privilegiato, non è l'unico oggetto del transfert, fa parte di un gruppo con il quale in parte viene identificato e in parte si identifica. Condividendo la vita quotidiana del reparto con tutte le dinamiche interpersonali e di rapporto con l'istituzione, il terapeuta è sollecitato da più parti, e concretamente immerso a tutti i livelli in scambi che mettono in tensione aspetti diversi della sua identità e dei diversi ruoli che è chiamato a svolgere spesso contemporaneamente. Per il fatto stesso di essere il terapeuta di più ragazzi che spesso sono presenti nello stesso giorno, è facilmente oggetto di confronti, gelosie, attacchi che si amplificano, rimbalzano nella seduta, generando controatteggiamenti che necessitano continuamente di un ascolto attento del proprio controtransfert. Può capitare che in un momento particolarmente delicato della relazione con il paziente, i colleghi del gruppo segnalino preoccupazione, richiedano al terapeuta di intervenire, nell' aspettativa pressante, a specchio forse con quella dell'adolescente stesso, che il terapeuta "sappia", sappia che sta succedendo, sappia cosa fare, sappia come ci si deve comportare. Questo può generare vissuti di intrusione, senso di colpa, ansia, ma anche onnipotenza, inducendo reazioni diverse e non necessariamente appropriate. Ma può altrettanto succedere che, a dispetto dello scoraggiamento del terapeuta in alcuni momenti in cui tutto sembra immobile e ripetitivo, emerga dal confronto con gli altri operatori un lato tenuto fuori dalla seduta, depositato altrove, che riapre alla speranza e riavvia il processo. A patto naturalmente che una dimensione di gruppalità si sia potuta attivare dentro di noi.
Inizialmente mi veniva assai più naturale offrire, appena ce ne fosse l'opportunità, sedute ambulatoriali, riservando la proposta di frequenza in Diurno a quelle situazioni più gravi e "meno trattabili", come nei casi di ritiro scolastico, isolamento sociale, break down in atto, grave inibizione del pensiero. Man mano però che un gruppo di lavoro si andava costituendo attraverso gli scambi quotidiani, le discussioni bisettimanali di gruppo, la conoscenza personale, gli scontri ed il sopravvivere ad essi, anche il mio assetto di psicoterapeuta si modificava. I riti condivisi, l'assunzione e lo scambio dei ruoli più svariati a seconda delle esigenze e delle emergenze, contribuivano a cementare il piacere di far parte di un gruppo.
Sempre più raramente mi sono trovata nella difficoltà di far accettare a un giovane paziente o alla sua famiglia l'inserimento nell'Ospedale Diurno, che considero oggi il dispositivo più completo ed efficace nella maggior parte delle situazioni in cui siamo chiamati a intervenire. La difficoltà maggiore resta semmai proprio quella di quei giovani pazienti, apparentemente più brillanti, con un buon rendimento generale ma con un sottostante disturbo narcisistico, che sembrano precipitarsi nella esclusività del rapporto, salvo reciderlo bruscamente alla minima disillusione o impantanarsi in una relazione che è sempre a rischio di fascinazione reciproca e di stallo. Il dispositivo del Diurno, proprio per la presenza di operatori diversi e per lo scambio continuo tra essi, consente una certa diluizione degli investimenti, interventi a vari livelli anche sul piano della realtà concreta dei ragazzi, attività e laboratori che funzionano come oggetti di mediazione, consentendo al ruolo dello psicoterapeuta una maggiore libertà e specificità. Inoltre, proprio per il fatto di essere presente nel luogo di questi variegati scambi, il terapeuta riguadagna, sul piano della propria individuazione come oggetto reale, differenziatore di imago, quello che può perdere sul piano della neutralità.
Ci sono naturalmente alcuni casi in cui l'inserimento nel gruppo dei ragazzi genera tale angoscia e rifiuto da poter essere riproposto solo in un secondo tempo, o addirittura mai. Ma molto dipende anche dalla convinzione o dalla fermezza con cui l'offerta viene portata avanti.
Ci sono poi quei ragazzi che dopo un periodo anche lungo di assiduità in Diurno, avendo ripreso felicemente il loro percorso evolutivo, chiedono di continuare individualmente e ambulatorialmente la terapia. In questi casi, che ci confortano sulla validità del nostro operato, l'andamento della psicoterapia non è sostanzialmente diverso da quello di una psicoterapia condotta nello studio privato. Il distacco dal gruppo dei coetanei e da quella immagine di sé che nel gruppo si rispecchiava e si identificava, comporta sempre un certo lavoro di lutto, ma anche il riconoscimento della propria capacità di affrontarlo, grazie a quella curiosità sul proprio funzionamento mentale che l'Ospedale Diurno ha contribuito a far emergere.
Naturalmente l'Ospedale Diurno non è sempre un luogo ideale, e per il suo buon funzionamento necessita di un grande investimento e di un po' di idealizzazione da parte di ciascuno. E' facile intuire come un gruppo di lavoro di questo tipo sia uno strumento delicato, esposto com'è alle angosce spesso molto primitive che gli adolescenti vi depositano, alla pressione di tante richieste, alla necessità di adempiere anche necessari obblighi amministrativi. Mi riferisco alla corretta compilazione e aggiornamento delle cartelle cliniche, alla stesura di certificati, relazioni, registrazioni di ticket, prenotazioni. Ho in mente in particolare le RAD (Rapporti di Accettazione-Dimissione), croce e delizia di ogni reparto di ricovero. Esse rappresentano concretamente il riscontro del lavoro svolto e la produttività del reparto, nell'ottica aziendale da cui non si può prescindere. Richiedono quindi una particolare cura, così come la quotidiana registrazione delle presenze dei ragazzi e delle prestazioni effettuate. Farsi carico di questo aspetto (ben al di là della buona volontà con cui ci si può prestare a fare ciò che serve quando serve) consente di valutare meglio l'andamento del reparto, le variazioni delle richieste, e soprattutto ci costringe a riflettere sulle diagnosi. Ogni ammissione in Diurno deve essere contestualmente accompagnata da una diagnosi provvisoria, che diventerà definitiva alla chiusura della RAD, cioè alla dimissione. Tale diagnosi deve essere formulata e codificata sulla base di uno strumento classificatorio che nel nostro caso è l'ICD 9. Non è facile per chiunque abbia una formazione psicoanalitica sottostare ad un'esigenza di questo genere, che rischia di incasellare prematuramente un ragazzo in una categoria diagnostica che non ci soddisfa mai completamente e che richiede un notevole sforzo per non rimanere pura descrizione fenomenologica di un sintomo scollegato dalla valutazione del processo evolutivo. Tuttavia le RAD sono lì, da chiudere ogni tre mesi e spesso da riaprire subito, fanno parte del "sito analitico allargato", ci riguardano tutti, e a modo loro contribuiscono a segnare una continuità, una comunanza tra noi.
Personalmente ho trovato molto utile, nell' assolvere a questo compito, non perdere di vista la concettualizzazione di Ladame, che insiste sull'importanza di riferirsi costantemente nella valutazione al processo evolutivo (ancora in corso, momentaneamente bloccato o a rischio di chiusura) sulla base di due assi di riferimento fondamentali, quello dell'articolazione tra investimento narcisistico e investimento oggettuale, e quello della funzionalità del preconscio. Nei quali rientrano naturalmente ulteriori parametri, quali l'esame di realtà, le funzioni dell'io, la tendenza o meno all'agito, la capacità di rêverie.
In questa prospettiva anche la compilazione della RAD acquista un altro significato, che non è di routine, e risulta al contrario un' utile occasione di riflessione ed elaborazione, come non mi stanco di ripetere ad ogni cambio di semestre agli specializzandi che lavorano con noi. Mi pare uno dei modi possibili per cercare di far lavorare insieme, al meglio che ci riesce, quella mente terapeutica e quella mente amministrativa di cui si è parlato nel corso di questi incontri. Diversi livelli di funzionamento che ci appartengono entrambi e che, rialimentandosi reciprocamente, potrebbero produrre grande vantaggio per il funzionamento di tutto il "sito", inteso come il luogo dove curanti e pazienti co-esistono.

Note
* Psicologa, Psicoterapeuta, Ospedale Diurno per Adolescenti, II Div. N.P.I Dipart.Scienze Neurologiche, Psichiatriche e Riabilitative Università degli Studi di Roma La Sapienza. Socio Ord. ARPAD e SIPSIA.

Bibliografia
Cahn R. (2002). La fin du divan? Ed. Odile Jacob, Paris. Trad.It. (2004). La fine del divano? Ed. Borla. Roma.
Donnet J.L. (1983). Sur le rencontre avec l'adolescent. Adolescence, 1, 1. 45-61
Jeammet Ph. (1992). Psicopatologia dell'adolescenza. 13-53. Ed. Borla. Roma.
Ladame F., Perret-Catipovic M. (1998). Jeu, fantasme et réalités. Le psychodrame psychanalytique à l'adolescence. Paris: Masson.
Monniello G., Spano E. (2003). Il trattamento in Ospedale Diurno della psicopatologia adolescente. La clinica istituzionale tra individuo e gruppalità. Psichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza. 2003, 70: 325-334.


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