PSYCHOMEDIA --> HOME PAGE
A e P --> HOME PAGE --> N° 2 - Maggio 2004




Anno IV - N° 2 - Maggio 2004

Lavori originali: “Il lavoro psicoanalitico con adolescenti nelle istituzioni”
Roma, 8-15-22 Maggio 2004




“Gli interlocutori nel trattamento degli adolescenti in istituzione”

Arnaldo Novelletto*



Appena si scende sotto la superficie del discorso ufficiale convenzionale, il ruolo di consulente o di supervisore dello psicoanalista nell'istituzione risulta a tutt'oggi vago, controverso, spesso improvvisato e comunque mal definito. Manca tuttora una lettura esauriente della storia a cui questo ruolo professionale è andato incontro e di conseguenza manca un'impostazione metodologica della formazione e dell'esperienza necessarie ad assicurare e mantenere l'adeguatezza e l'efficienza di servizi psicoterapeutici in ambito pubblico.
Se si vuol dare un'occhiata alla storia che si è andata accumulando, non si può prescindere dalla esperienza personale che ciascuno ha vissuto. Per quanto mi riguarda, la mia attività professionale, prima formativa, poi operativa, è cominciata contemporaneamente in ambito psicoanalitico e in ambito istituzionale ed è sempre proceduta parallelamente su entrambi i fronti. I miei ricordi sono quindi un mosaico di tante istituzioni diverse, susseguitesi le une alle altre e spesso frequentate più d'una per volta. Ho cominciato negli ultimi anni cinquanta con i reparti universitari di specializzazione psichiatrica ma contemporaneamente lavoravo in ospedale psichiatrico. Negli anni in cui svolgevo il mio training psicoanalitico nell'istituzione deputata ho continuato a lavorare nei c.m.p.p. per adolescenti del Tribunale per i Minorenni e di altri enti assistenziali, nelle case di rieducazione per minorenni gestite direttamente dallo Stato e in quelle affidate su convenzione a istituzioni private. Negli anni settanta sono tornato con un posto di ruolo nell'istituzione universitaria creando al suo interno nuove forme di accoglimento per gli adolescenti, ma intanto lavoravo come psicoanalista privato. Negli anni novanta ho collaborato a nuove iniziative di assistenza per gli adolescenti nei servizi sociali e nelle unità materno-infantili di comuni e regioni, curando in modo particolare la formazione specialistica e l'aggiornamento delle varie categorie di operatori implicati nel trattamento degli adolescenti e delle loro famiglie. Come ultima attività, dal 1999 a tutt'oggi sono consulente in un C.D. i per adolescenti borderline a triplice gestione: comunale, sanitaria pubblica e cooperativistica.
Nel corso di questo iter mi sono ovviamente sempre più coinvolto nelle necessità di condivisione, empatia e collaborazione con tutti i membri dell'una o dell'altra di quelle équipes che poco a poco si sono imposte ovunque come strumento insostituibile per trattare gli adolescenti problematici.
Nel 1990, in occasione della nascita della rivista Adolescenza, cercai di tirare qualche conclusione sulle attività di lavoro istituzionale che avevo svolte fino allora. Ne venne fuori un breve articolo intitolato "Servizi e cure" che oggi può ben rappresentare il quadro un pò ingenuo, se non patetico, di quell'epoca, sia per me che per le istituzioni che frequentavo.
Il messaggio che intendevo lanciare era rivolto non tanto al personale operativo tecnico dei vari servizi (psichiatri, psicologi, assistenti sociali, educatori ecc) ma piuttosto al personale che definivo amministrativo e che specificherò meglio tra poco. Quello che intendevo comunicare era press'a poco questo: non aspettiamoci che la bontà delle cure prestate agli utenti dipenda dalla progettazione razionale di servizi costruiti per loro. Infatti i servizi sono i primi ad avere bisogno di cure da parte di operatori ed amministratori che, dopo averli progettati, sappiano mantenerli in uno stato di funzionalità tale da consentirgli di svolgere il proprio ruolo istituzionale. E' per questo che l'antichissima parola greca "terapeuta" non significa dirigente, sapiente, ricercatore, guaritore o simili, ma semplicemente servitore. Cioè terapeuta è colui che è capace di avere cura del prossimo e prima ancora di se stesso, di avere cura delle proprie doti, dei propri strumenti, del proprio mestiere e del ruolo dei collaboratori. Non solo gli utenti, ma anche i servizi, per farli funzionare vanno curati.
Naturalmente il mio messaggio cadde nel più assoluto silenzio. Io poggiavo indubbiamente su un solido pavimento lastricato di buone intenzioni, ma non mi ero accorto che in fondo quello che offrivo all'attenzione di chi mi avesse letto era niente di più di una critica. Usando il termine amministratori io non intendevo riferirmi ad un livello gerarchico particolare, né ad una categoria definita di funzionari. Mi riferivo e mi riferisco tuttora a persone che svolgono e che spesso si appassionano a funzioni amministrative, intese non come mansioni istituzionali concrete ma come funzioni della mente. Alludo cioè alla differenza che passa tra due attività psichiche: da un lato quella di chi regola a livello cosciente e razionale le condizioni dell'incontro tra l'utente e il servizio come funzioni del servizio stesso e, dall'altro lato, quella dell'operatore che vive emozionalmente quello stesso incontro con l'utente, come rapporto interpersonale, come servizio di sé e del prossimo.
Dunque non avevo nessuna intenzione di scomodare problemi di diritto del lavoro, ma piuttosto di facilitare il passaggio da una forma superata di équipe, quella medico-psico-pedagogica (dentro la quale la funzione amministrativa era fortemente rappresentata) ad un'altra forma di équipe, più al passo con i tempi. Un'équipe intesa come una struttura mentale diversa, quella di un apparato pluripsichico di cui ogni membro poteva rappresentare una parte componente. Solo che allora, nel 1990, era ancora troppo presto per aspirare a questo passaggio e io stesso non me ne rendevo conto. L'analisi delle dinamiche psicologiche tra operatività terapeutica ed organizzazione mentale amministrativa era in una fase ancora pervasa da una visione sostanzialmente dualistica, come quella che viene fatalmente prodotta da ogni carriera istituzionale ma purtroppo anche dalla dialettica di una psicoanalisi individuale tradizionale. Il traguardo principale per il buon funzionamento dell'équipe sembrava quello di far prendere coscienza, a ciascun membro dell'équipe, delle proprie parti scisse, così da non proiettarle impulsivamente sui propri interlocutori (dentro o fuori l'équipe), ma da poterle integrare, conciliare, elaborare in altrettanti compromessi costruttivi. Ma questa impostazione, se adottata dal consulente in seno all'istituzione, proprio perché spiccatamente dualistica, si rivelava aperta ad un uso spesso eccessivo dell'interpretazione fra pari, e peggio ancora se fra dipendenti e dirigenti. L'interpretazione sporadica, a sua volta, comportava fatalmente tensioni conflittuali, angosce persecutorie, bruschi capovolgimenti dell'equilibrio narcisistico degli interlocutori, dallo scoraggiamento depressivo all'entusiasmo onnipotente. Il limite più difficile da superare in quella fase era quello del troppo facile approdo a conclusioni apparentemente definitive e immodificabili, sia verso gli interlocutori interni dell'équipe (i colleghi di competenza diversa) che verso gli interlocutori esterni (gli "amministratori" assenti o, indifferentemente, gli utenti psichicamente disturbati). In queste condizioni il rischio maggiore, per il consulente, era quello di accorgersi che chi finiva per ritrovarsi nella funzione psichica di amministratore, cioè di rappresentante della parte cosciente dell'Io e fautore del dualismo, era proprio lui stesso, ciò che spesso coincideva con l'interruzione anticipata della consulenza o supervisione.
I quasi tre lustri che sono passati da allora sono stati necessari per oltrepassare quel livello della consulenza possibile nei servizi per adolescenti. E' importante rendersi conto che l'evoluzione che è avvenuta da qull'epoca a oggi non è stata solo frutto di un progresso delle conoscenze psicoanalitiche. Mi riferisco a tutti gli avanzamenti relativi alla concezione della mente prodotti dalla psicoanalisi di gruppo (Bion, Kaës, ecc), alla patologia del narcisismo, alla terapia delle psicosi e stati borderline, alle terapie psicoanalitiche nuove rispetto alla cura psicoanalitica classica e infine alle terapie in istituzione. Ma è stata anche frutto dei cambiamenti(compresi quelli meno coronati da successo) che sono intervenuti nelle funzioni organizzative, amministrative e manageriali reali di certi settori istituzionali, in particolare quelli dell'assistenza sociale e della sanità. Certe ridefinizioni ope legis di mansioni istituzionali, sia all'interno che all'esterno dell'amministrazione pubblica (ad esempio la cosidetta "aziendalizzazione" della Sanità), come pure certi fenomeni sociali complessi (ad esempio lo sviluppo del volontariato rispetto a quello del pubblico impiego), nel loro processo di riformulazione di funzioni e competenze, hanno rimodellato certe identità professionali (specie nei settori educativo, assistenziale, psicosociale ecc.). Questi cambiamenti hanno portato a modificazioni psicologiche importanti della struttura e delle dinamiche interne dell'équipe plurispecialistica (che abitualmente si occupa degli adolescenti in difficoltà trasversalmente a più di un'istituzione), modificazioni che il consulente psicoterapeuta non può assolutamente ignorare, come dirò fra poco.
Dunque la storia dell'intervento del consulente psicoanalista nelle istituzioni per adolescenti ci parla da un lato di conoscenze di nuova formazione, ma anche di esperienze vissute in gran parte sul campo, autodidatticamente, nel contatto quotidiano diretto con la moltitudine degli interlocutori istituzionali (individui e gruppi) e con i destinatari dell'intervento (adolescenti e adulti).

* * *

Vediamo ora, per quanto riguarda l'impostazione metodologica dell'intervento, cos'è accaduto a monte del consulente, nel suo rapporto formativo con quell'altra istituzione da cui avrebbe potuto legittimamente apettarsi non solo qualifica professionale, ma anche sostegno, solidarietà. Parlo ovviamente dell'istituzione psicoanalitica.
Appena 15 giorni fa è uscito, sull'ultimo numero della Rivista di Psicoanalisi, un articolo di due colleghi, Giovanni Foresti e Mario Rossi Monti, intitolato "La psicoterapia istituzionale trent'anni dopo". Esso ripercorre, dai contributi stranieri iniziali a quelli più recenti, lo sviluppo delle idee dei tanti psicoanalisti che hanno tentato di applicare il metodo psicoanalitico alle istituzioni psichiatriche.
Purtroppo il fatto che l'articolo limiti il suo orizzonte alle istituzioni psichiatriche dell'adulto lo priva dei moltissimi contributi di esperienza e di ricerca accumulatisi in campo infantile e, più recentemente, in campo adolescente. Quindi ci si accorge subito che la valutazione che si può fare dell'intervento psicoanalitico partendo dall'unico vertice osservativo del paziente adulto, rimanda fatalmente alle controversie ormai fortemente datate intorno alla riforma basagliana. Ciò premesso, i due autori distinguono classicamente l'origine dell'interesse psicoanalitico per la pratica psichiatrica istituzionale in due orientamenti opposti: da un lato portare materialmente il lettino nelle istituzioni psichiatriche, dall'altro derivare dalla cura psicoanalitica classica delle nevrosi una psicoterapia psicoanalitica applicabile alle patologie fondamentalmente psicotiche che rappresentano la stragrande maggioranza dell'utenza istituzionale. Questo secondo approccio è quello dei cosiddetti "analisti senza divano" (Racamier 1972) nel quale rientrano praticamente, per le caratteristiche tecniche dei trattamenti dei bambini (ma solo in parte degli adolescenti), tutti gli analisti che lavorano nelle istituzioni materno-infantili. Foresti e Rossi Monti auspicano che un confronto serio e serrato si possa avviare tra queste due "anime" del mondo psicoanalitico. Tuttavia quando essi passano ad elencare i tre filoni su cui ricostruire le alterne vicende della relazione tra psichiatria e psicoanalisi, ci ritroviamo fermi a questioni estremamente logore, come:
1) le trasformazioni del mandato sociale della psichiatria: custodia versus risparmio (leggi i limiti che l'aziendalizzazione oppone ad uno sviluppo organico degli interventi psicoterapeutici in istituzione)
2) le determinanti emotive del lavoro istituzionale (leggi l'annosa teorizzazione della conflittualità tra gli assunti di base bioniani e il gruppo di lavoro).
3) Il mutato orizzonte teorico-metodologico della diagnosi e la funzione clinica dello psicoanalista (che, pur riconoscendo allo psicoanalista un ruolo autorevole sul piano tecnico, non prende minimamente in considerazione il problema relazionale della sua integrazione in una équipe terapeutica stabile).
Se però spostiamo la nostra attenzione dalle istituzioni psichiatriche dell'adulto a quelle che oggi si occupano di adolescenti e di giovani adulti, ci troviamo di fronte ad una situazione del tutto diversa. Anche se una storia dell'intervento psicoanalitico in questa fascia di età sull'intero territorio nazionale è tutta da fare, dati precisi dimostrano che gli esordi in questo settore sono stati diversi da quelli del settore adulto, sviluppatosi dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici. Fin dalla prima edizione del mio libro "Psichiatria Psicoanalitica dell'Adolescenza" (1986) ricordai la nascita dei c.m.p.p., quasi tutti gestiti da psicoanalisti, in seno ai Tribunali per Minorenni nei primi anni 60; la nascita dei primi corsi di formazione in psicoterapia dell'età evolutiva; l'attività che tanti membri ordinari della SPI avevano intrapreso nelle varie istituzioni pubbliche per adolescenti (a Roma, a Milano, a Novara e poi in tanti altri centri). A quell'epoca sembrava che l'istituzione psicoanalitica si trovasse, aperta e spianata avanti a sé, una strada maestra che nell'assenza di altre istituzioni concorrenti la portava a svolgere un ruolo naturalmente egemone di orientamento, insegnamento specialistico, consulenza, supervisione nei confronti di tante istituzioni addette allo sviluppo, alla formazione, alla cura delle giovani generazioni, oltre che all'analisi individuale degli adulti nevrotici.
Ebbene, nel 2000, in occasione del V Convegno della Società Internazionale di Psichiatria dell'Adolescenza, la rivista Adolescence pubblicò un numero speciale dedicato alla psicoterapia in adolescenza, con il contributo delle principali nazioni europee. Se andiamo a vedere cos'era successo in Italia tra il 1980 e il 2000, troviamo un quadro completamente cambiato. Le istituzioni di osservazione e trattamento per gli adolescenti, pubbliche e private, si erano molto propagate. In una ventina di gruppi, alcuni dei quali operanti con una relativa autonomia all'interno di servizi pubblici, si eseguivano psicoterapie psicoanalitiche. Molti erano i soci della SPI che facevano consulenze e supervisioni nei suddetti gruppi e in servizi pubblici. Ma l'istituzione psicoanalitica non figurava in nessuna forma ufficiale di competenza psicoterapeutica, didattica od organizzativa, né in campo infantile né giovanile né di psicoanalisi di gruppo. Da molti anni erano sorte, fuori dell'istituzione psicoanalitica, almeno una dozzina di associazioni e scuole di formazione per psicoterapeuti dell'infanzia e adolescenza e per analisti di gruppo che, con il tempo, avevano legittimato la propria costituzione nel quadro della legge 56/89 (legge Ossicini). Invece l'istituzione psicoanalitica arrivò solo nel 1999 a costituire al suo interno un proprio training di "perfezionamento" in psicoanalisi dei bambini e adolescenti, al quale si poteva accedere solo dopo conseguita l'associatura come psicoanalista di adulti e dal quale a tutt'oggi non è uscito ancora nemmeno un "perfezionato".
Non è questa la sede per ricostruire quali dinamiche socio-culturali abbiano indotto l'istituzione psicoanalitica italiana a rinunciare ad una leadership praticamente incontestabile nella formazione, rappresentanza e gestione organizzativa dei trattamenti psicoterapeutici di bambini e adolescenti, sia nel privato che in istituzione. Sta di fatto che oggi in campo adolescente la competenza psicoterapeutica (ivi compresa quella che è destinata a svolgersi in istituzioni pubbliche) e la funzione didattica corrispondente sono rappresentate nel modo più aggiornato e funzionale dalle associazioni in buona parte fondate da psicoanalisti ma, per forza di cose, fuori dall'istituzione psicoanalitica. Le più antiche tra loro, tra cui l'A.R.P.AD., hanno ormai oltre venti anni d'età. Negli ultimi dieci hanno organizzato cinque convegni nazionali di psicoterapia dell'adolescenza e hanno rappresentato l'Italia in tante occasioni scientifiche all'estero.
Io penso che la stessa nascita spontanea di questi gruppi extra-istituzionali sia stata un fenomeno sano di risposta a una delle difficoltà istituzionali più diffuse, di cui soffre anche l'istituzione psicoanalitica, e cioè la riluttanza a modificare il proprio assetto concettuale e le proprie strutture organizzative di pari passo con i bisogni sociali e le sofferenze psichiche di nuova comparsa.
Ma non è tanto sul piano dell'autorevolezza teorico-tecnica che l'assenteismo dell'istituzione psicoanalitica ha fatto sentire il suo peso negativo. Ben maggiore è stato l'effetto che esso ha fatto sentire altrove, per esempio sulla differenziazione delle forme d'intervento clinico che si sarebbero potute offrire a chi ne ha bisogno. Invece l'istituzione psicoanalitica ha preferito restare ancora esclusivamente legata alla cura psicoanalitica classica, svolta sul divano e a frequenza il più possibile intensiva. Per me non è un caso che nei paesi in cui questa tendenza è stata più rigida, gli psicoanalisti abbiano visto le loro clientele assottigliarsi, il numero degli allievi in training diminuire, la lunghezza del training aumentare per l'irreperibilità di pazienti sufficientemente abbienti da permettersi il costo di sedute molto frequenti, l'esame di associatura diventare più problematico e meno attendibile per l'eccesso di pazienti cui viene proposta la cura classica malgrado che la loro struttura psichica non lo consigli. Questa rivoluzione delle condizioni professionali dello psicoanalista (specie di quello esordiente) è molto meno evidente in quei paesi che hanno salvaguardato la loro via d'approccio non solo al patrimonio teorico della psicoanalisi ma anche ai rapporti di collaborazione con le altre istituzioni dello stato addette alla difesa della salute del cittadino, sopra tutto a quelle dell'infanzia e dell'adolescenza.
Al contrario, la possibilità d'impiego della psicoanalisi nei vari bacini di sofferenza, a cominciare da quelli infantili, adolescenziali e del giovane adulto, laddove viene patrocinata dalle società psicoanalitiche nazionali, favorisce il dialogo, il confronto dialettico e conseguentemente la ricerca fra istituzione psicoanalitica, università e istituzioni cliniche e sociali pubbliche.
L'effetto mobilitante che l'adolescenza in particolare svolge sulla mente dell'analista è davvero stupefacente. Però purtroppo non è stato finora ben capito dagli psicoanalisti d'adulti il perché esso sia così utile per la vitalità della psicoanalisi e per la creatività dello psicoanalista. Secondo me tale effetto è dovuto essenzialmente al fatto che la fase adolescente dello sviluppo psichico, fino a tutto il periodo del giovane adulto, sciorina nella relazione con lo psicoanalista, come in una specie di tavola sinottica, l'intrecciarsi di quei processi di sviluppo che solo qualche anno più tardi lo stesso soggetto, dichiarato adulto, nel caso migliore (cioè che arrivi a consultare uno psicoterapeuta invece di uno psicofarmacologo) potrà presentare in forme raggrinzite o congelate dalle difese e dai sintomi più svariati strutturatisi nel frattempo. Pensiamo alle tematiche d'identità rispetto alla confusione, di dipendenza rispetto all'autonomia, di narcisismo rispetto all'oggettualità, di strutturazione del super-io rispetto alla violenza, di pensiero riflessivo rispetto all'azione impulsiva dell'adolescente. A meno che si sia verificato un breakdown (qualora durante l'infanzia e la latenza i meccanismi di filtro come la famiglia, la scuola, le consultazioni superficiali abbiano già fallito nel loro compito), l'adolescente che non si è ancora allontanato troppo dal processo evolutivo e dalla relazione con l'oggetto potrà mettere in luce fin dalle prime battute della relazione terapeutica le condizioni fondanti dell'autoreferenzialità e della trattabilità, cioè le premesse per ricorrere se necessario alle risorse terapeutiche in tutte le fasi successive della vita.
L'utente adolescente, per la sua normale tendenza a proiettare i suoi introietti originari su oggetti nuovi, è particolarmente attento e sensibile all'autenticità e all'affidabilità degli interlocutori che si offrono. Forse nelle consultazioni pubbliche più ancora che in quelle private. Si deve proprio a questo se autori come Raymond Cahn, Philippe Jeammet, François Ladame, che, oltre ad operare attivamente in istituzioni pubbliche, si sono dedicati fin dall'inizio delle loro carriera allo studio psicoanalitico dell'adolescenza, sono al tempo stesso attentissimi agli sviluppi futuri dell'istituzione psicoanalitica in generale e considerano ovvio che la metodologia psicoanalitica si applichi, in forme tecniche di nuova concezione, alle istituzioni cliniche, educative e sociali. Di Cahn, in particolare, è appena uscita, nella collezione che dirigo presso l'editore Borla, l'ultima opera dal titolo significativo: "La fine del divano?". Cahn è esplicito nell'affermare che l'apprendimento e l'impiego, sia in sede privata che in sede istituzionale, di nuove tecniche psicoanalitiche, oltre la cura classica sul divano, è essenziale se si vuole che le potenzialità ancora grandissime della psicoanalisi siano raccolte e utilizzate da un'utenza più numerosa, evoluta ed estesa a tutte le fasce di età, anche in istituzione.

* * *

Forse mi sono troppo dilungato nelle questioni preliminari di ricostruzione storica e d'impostazione metodologica per poter dare all'effettiva pratica della consulenza tutta l'ampiezza che merita. Dovrò quindi limitarmi ad alcuni punti che ritengo fondamentali e che in parte hanno già fatto capolino in quanto ho detto finora.
Voglio innanzi tutto distinguere, a scanso di confusioni, due tipi di attività che spesso sono congiunti da un "e/o" come se fossero quasi sinonimi: supervisore e consulente. A mio parere l'attività di supervisione è diretta al singolo psicoterapeuta che chiede ad un collega più esperto, episodicamente o continuativamente, la valutazione di un proprio trattamento. Se la supervisione viene svolta davanti ad un gruppo di altri allievi comporterà anche una dinamica gruppale, di cui il supervisore potrà o meno tener conto. Ma la dialettica in gioco è diretta comunque ad un unico terapeuta e al di lui paziente o, nelle supervisioni dosidette "di gruppo", ad una categoria unica di terapeuti che almeno in parte recepiscono l'insegnamento ognuno a proprio uso e consumo. Quanto alla formazione del supervisore, essa è affidata solo alla sua esperienza e alla sua creatività, non presuppone un iter prestabilito. E ciò vale pure per la frequenza: la supervisione può essere occasionale o ridursi a brevi cicli, giusto per consentire agli allievi di farsi un'idea delle opzioni teorico-tecniche del supervisore o per consentire a quest'ultimo di far conoscere temi a cui si è particolarmente dedicato o che ritiene significativi per il progresso tecnico delle cure.
L'attività di consulenza, invece, è quella di uno psicoterapeuta che fa parte dell'équipe, cioè di un gruppo, e ne fa parte stabile, con frequenza regolare e in un setting definito e condiviso. Il suo ruolo non può quindi essere né saltuario né inteso solo come un insegnamento estemporaneo. Anche se non accade ancora istituzionalmente, io credo che la consulenza potrebbe essere appresa come ogni altra tecnica, nel quadro di un training formativo.
Per quanto riguarda il lavoro in istituzione ritengo opportuno concentrare l'attenzione solo sulla consulenza. Parlare di consulenza nelle istituzioni per adolescenti con problemi psichici significa presupporre l'esistenza di un'équipe numerosa, di cui do per scontata la composizione plurispecialistica, senza dover elencare le professioni che possono farne parte. Questa è la tradizione ormai acquisita per il trattamento di tutti i disturbi psichici più seri dell'adolescente (disturbi di personalità, strutture narcisistiche di varia gravità, dalle strutture borderline alle psicosi, disturbi del comportamento alimentare, tossicodipendenze, comportamenti violenti soggetti a misure penali ecc. ecc.). Tradizione che è stata acquisita per fondate ragioni, dalla necessità di trattamenti diversificati (psicoterapie individuali o di gruppo, insegnamenti differenziali, pedagogie particolari ecc.), alla necessità di suddividere fra gli operatori le angosce troppo intense di un rapporto a due, alla necessità di offrire occasioni di transfert diversi ecc. Chi dice équipe dice istituzione, quindi l'équipe è il terreno specifico del consulente in istituzione. Nell'équipe m.p.p., la pluralità non andava oltre il livello diagnostico, nel quale si assegnavano compiti individuali ai vari membri che solo periodicamente si ritrovavano in riunioni di sintesi anche molto distanziate. La nuova équipe invece cura nel suo insieme e sa di poterlo fare solo in questo assetto.
Qual è il contributo specifico del consulente? Il suo compito è appunto quello di costruire e mantenere in seno al gruppo-équipe un setting ed un metodo di lavoro. Perché l'équipe possa lavorare proficuamente ai problemi degli adolescenti che sono i suoi oggetti elettivi, è necessario assicurare nel suo seno quelle condizioni di pensiero, di empatia e di tolleranza reciproca che ne fanno un gruppo di lavoro. I modelli concettuali dell'analisi di gruppo devono poter essere messi a confronto con i modelli concettuali che rientrano nella competenza professionale specifica di ciascun membro del gruppo quando, da operatore, si mette di fronte alle problematiche dell'utente. Al consulente è richiesta pertanto una sensibilità particolare nell'individuare tempestivamente tutte quelle dinamiche micro e macro gruppali che possono minacciare la coesione, ostacolare la funzionalità, isterilire la creatività del gruppo-équipe. Credo che tutti questi compiti di per se stessi rendano chiaro perché il consulente non può essere un visitatore estemporaneo del gruppo ma deve esserne un membro integrante, custode di una continuità e regolarità del setting di lavoro e responsabile di una propria quota di controtransfert. Il compito dello psicoterapeuta, come dicono lucidamente Foresti e Rossi Monti, nell'istituzione come nella stanza d'analisi, resta quello di muovere dall'interno il sistema con cui s'interagisce e di cui si fa parte, liberandone le energie intrinseche, invece di pretendere di pilotarlo dall'esterno.
E' ovvio che questa autonomia gruppale potrà porre al consulente considerevoli difficoltà quando l'oggetto del lavoro di gruppo si troverà ad essere materiale di diretta provenienza istituzionale (disposizioni, cambiamenti, orientamenti). Penso che tutti sappiamo per esperienza quanto questo materiale possa suscitare nel gruppo sia risonanze dirette che collusioni da parte di un numero più o meno grande di membri. Mi riferisco proprio a quelle funzioni psichiche di tipo amministrativo di cui bisogna dare per scontata la comparsa o il ritorno.
Ma può esserci anche di peggio, cioè che l'équipe si trovi a dover fronteggire ed elaborare, prima nella realtà dell'utente e poi, inevitabilmente, nell'ambito stesso del gruppo, una convergenza di più istituzioni nella stessa composizione del gruppo, con la conflittualità interistituzionale che è abbastanza tipica di queste situazioni. Quando ciò si verifica non è raro osservare che la conflittualità si può estendere contemporaneamente a più livelli verticali: da quello intraéquipe, a quello intraistituzionale (tra l'équipe e l'istituzione) a quello interistituzionale (tra due o più istituzioni diverse).
Uno dei rimedi a cui spesso si ricorre in questi casi, sopra tutto da parte delle istituzioni, è il concetto d'integrazione. E' un concetto che probabilmente risale a teorie fisico-matematiche, magari applicate alla neurofisiologia, ma che di solito è applicato a fenomeni gruppali di disgregazione, frammentazione, scissione nell'intento di esercitare una sorta di richiamo agli attaccamenti di base.
Noi dell'A.R.P.AD. (insieme a me Giovanna Montinari, Daniele Biondo ed Emilio Masina) tra il 2000 e il 2003, nel quadro delle legge 285, abbiamo svolto una ricerca sull'integrazione intra ed interistituzionale insieme a un vasto gruppo di operatori di vari livelli gerarchici del Comune di Roma e di altre istituzioni implicate nel lavoro con gli adolescenti in affidamento al Servizio Sociale Minorenni. La ricerca è stata pubblicata in un volumetto intitolato "Mediazione interistituzionale", dal momento che il filo conduttore che si è man mano definito nel suo corso ci ha condotto, attraverso la raccolta e l'elaborazione di tantissimo materiale, al concetto di mediazione. Semplificando all'estremo, dirò che l'integrazione, requisito ovviamente essenziale per chiunque (l'adolescente, l'operatore, il gruppo-équipe e l'istituzione) è tuttavia una meta che in qualche misura è facile idealizzare. In realtà invece è un limite irraggiungibile, un valore relativo che si può raggiungere solo a condizione che i suoi presupposti non siano stati gravemente compromessi da eventi ambientali negativi, e che comunque dipende da un processo di sviluppo che a sua volta richiede disponibilità, consenso spontaneo, condivisione. La mediazione definisce appunto il processo relazionale necessario affinché qualunque soggetto (individuo, gruppo o istituzione) possa avvicinarsi il più possibile all'integrazione. La mediazione costituisce la funzione principale del consulente nel gruppo-équipe, sia quando l'équipe si confronta con le problematiche del singolo utente adolescente, che quando si rivolge, magari per difendere la propria sopravvivenza, con le funzioni amministrative implicite nell'istituzione.
In conclusione ho cercato di fornire un quadro di massima del trattamento degli adolescenti in istituzione, ma sopra tutto di esporre la visione che se ne ha in seno all'ARPAD, cioè in una associazione che, senza ovviamente trascurare lo sviluppo infantile, riconosce all'adolescenza la specificità di un obiettivo a sé stante. Devo dire che finora siamo stati ripagati dal constatare che l'approfondimento di questo periodo evolutivo apre orizzonti nuovi e molto promettenti anche su quel periodo di recente comparsa che non riesce ancora ad uscire da una definizione provvisoria come quella di "giovane adulto", ma questo è un tema da affrontare in altra occasione.

Note
*Direttore della Scuola di formazione A.R.P.AD.


Bibliografia

Bion W.R. (1961) Esperienze nei gruppi. Armando, Roma 1971
Cahn R. (1998) L'adolescente nella psicoanalisi. L'avventura della soggettivazione. Borla, Roma, 2000
Cahn R. (2002) La fine del divano? Borla, Roma, 2004
Cahn R., Ladame F. (1992) Psicoterapia, psicoanalisi e adolescenza. Un dibattito. Adolescenza, 1995, 6:,258-269.
Foresti G., Rossi Monti M. (2004) La "psicoterapia istituzionale" trent'anni dopo. Rivista di Psicoanalisi, 2004, 50:, 233-249.
Kaës R. (1976) L'apparato pluripsichico. Arnando, Roma, (1983)
Ladame F. (2000) Les traitements psychanalytiques: quelques principes generaux. Adolescence, 2000, 18:, 1, 97-101.
Novelletto A. (1986) Psichiatria psicoanalitica dell'adolescenza. Borla, Roma, 1986.
Novelletto A. (1990) Servizi e cure. Adolescenza, 1990, 1:, 131-139.
Novelletto A.., Masina E., Montinari G., (1997) L'immagine del lavoro con gli adolescenti negli operatori del Comune di Roma e del privato sociale. Atti del Convegno "Parlare con gli adolescenti; 21-38. Edizioni del Comune di Roma.
Novelletto A., Masina E., Montinari G., (1998) L'immagine dell'adolescenza nella mente dell'operatore. Risultati della ricerca. 24-38.
Novelletto A., Biondo D., Monniello G., (2000) L'adolescente violento. Franco Angeli, Milano, 2000.
Novelletto A., Masina E., Montinari G., a cura di (2001) Gli adolescenti e i loro contenitori. Case famiglia e centri diurni del Comune di Roma. Edizioni del Comune di Roma.
Novelletto A., Pelanda E., de Vito E. (2000) Pratique de la psychanalyse et de la psychothérapie à l'adolescence en Italie. Adolescence, 18:,1, 235-241.
Novelletto A., Biondo D., Masina E., Montinari G. (a cura di) (2003) Mediazione interistituzionale. Edizioni del Comune di Roma.
Racamier P.C. (1972) Lo psicoanalista senza divano. Cortina, Milano, 1982.



PSYCHOMEDIA --> HOME PAGE
A e P --> HOME PAGE --> Anno IV- N° 2 - Maggio 2004