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Anno IV - N° 1 - Gennaio 2004

Lavori originali




“Il futuro delle psicoterapie di adolescenti e la prevenzione della psicopatologia dell'adulto” *

Raymond Cahn



La psicopatologia dell’adolescente è stata a lungo ignorata o trascurata. Quando si aveva a che fare con giovani che presentavano disturbi psichici o condotte anomale, tutt’al più li si collocava nelle grandi categorie cliniche classiche (nevrosi, distimie, psicosi, psicopatie) senza alcuna specificità particolare. La comparsa della psicoanalisi avrebbe dovuto cambiare le cose. “Il ritardo della pubertà rende possibili processi primari postumi”, scriveva Freud nel 1895. Ed è in effetti a partire dalla posteriorità, illustrata dal modello di Emma, che si organizza tutta la problematica inerente alla cura psicoanalitica dell’adulto. Donde il posto apparentemente decisivo che l’adolescenza viene ad assumere nella comprensione della patologia nel suo insieme. Ma in realtà un posto minimo, dal momento che le possibilità di elaborazione rappresentazionale e simbolica non si raggiungono che alla fine di questa fase dello sviluppo psichico e, di conseguenza, l’emergenza e la formazione di una nevrosi di transfert tale da permettere la ricostituzione della nevrosi infantile si rivela sempre, nel corso dell’adolescenza, più o meno oscurata, per non dire inafferrabile. E’ perciò che la maggior parte degli psicoanalisti tendono praticamente a non prenderla in considerazione, e a pensare che non si possa passare alle cose serie finché l’adolescenza non è conclusa o vicina alla conclusione. Se, ovviamente, i desideri e i conflitti dei primi anni di vita prendono forma dopo la pubertà, di fatto l’unico asse di riferimento è quello nevrosi di transfert-nevrosi infantile, che esclude l’adolescenza.
C’è voluto il lavoro dei pionieri dell’approccio psicoanalitico agli adolescenti per far sì che negli ultimi decenni una ricca messe di fatti e di elaborazioni teoriche venisse non soltanto ad arricchire considerevolmente la nostra comprensione della psicopatologia adolescente, ma anche ad inserirla in modo più rigoroso in una prospettiva diacronica, dai suoi inizi fino ai suoi effetti a lungo termine, così da riconoscere il ruolo determinante che essa svolge nell’organizzazione definitiva della mente e nelle sue eventuali turbe.
Il tema di questa mia relazione conclusiva viene dunque a ratificare in modo del tutto naturale l’importanza che ormai si riconosce a questo periodo della vita, vero crocevia a partire dal quale il soggetto sceglierà una direzione piuttosto che un’altra e che perciò determinerà il suo destino. Direzione e destino che potranno essere più o meno modificati se il soggetto s’imbatte in uno “psi”. Il tema del mio discorso è appunto ciò che entra in gioco a quel punto e ciò che può risultarne a più lungo termine. Ecco perché mi sento piuttosto oppresso dalla vastità del mio compito, tanto più che i lavori psicoanalitici sulla questione sono particolarmente rari o poco espliciti.
E’ vero che in questo Congresso, Fonagy e Westen hanno stimato in 1.500 i lavori riguardanti questo argomento. Ma, per loro stessa ammissione, gli ostacoli metodologici che si oppongono al loro esame sono quasi diabolici e non permettono di giungere a conclusioni valide. Ovviamente le cose vanno diversamente per ciò che riguarda l’azione dei farmaci psicotropi e quella delle terapie cognitivo-comportamentali, di cui i medici pratici sono oggi in grado di comunicarci i risultati numerici. Sappiamo che questa prassi prende di mira direttamente uno o più sintomi nell’intento di ridurli o di farli scomparire, correggendo gli errori logici che essi implicano. Gli effetti che essa produce risultano quindi chiaramente riscontrabili e quantificabili in molti casi, specialmente nei disturbi ossessivo-compulsivi o in disturbi precisi, più o meno invalidanti. Bisogna tuttavia ricordare che molto spesso questa cura è praticata sotto SSRI e ansiolitici, che i risultati a medio e lungo termine non sono ancora accertati, che il rischio di un sintomo sostitutivo non è preso in considerazione, e infine che gli stessi cognitivisti riconoscono la grande difficoltà di stabilire confronti tra i risultati a seconda del metodo impiegato.
E’ vero che una valutazione terapeutica, di qualunque natura essa sia, quando riguarda una popolazione nel suo insieme e non solo il campione studiato, pone problemi di metodo estremamente difficili. Basti un solo esempio recente: gli adolescenti che hanno fatto un tentativo di suicidio e che hanno poi iniziato un lavoro psisoterapeutico presentano un tasso di recidive superiore a quello degli adolescenti che non sono stati seguiti né trattati. Ognuno può trarne le conclusioni che vuole, ma come pensare che il rimescolamento interiore che la terapia implica, anche se comporta certamente il rischio di questi agiti più o meno spettacolari, ha tuttavia più probabilità di fornire risultati a lungo termine di un’altra qualità rispetto a quelli che non avranno provveduto a quei rimaneggiamenti che sono necessari dopo una crisi del genere? Senza considerare anche un’altra ipotesi, cioè che l’indicazione di un lavoro psicoterapeutico sia stata data più su quegli adolescenti che presentavano disturbi psichici gravi, che sugli altri. Ecco perché in questo genere di ricerche, al di là dei fatti oggettivabili è importante, se non necessaria, una valutazione psicopatologica il più possibile approfondita. Essa soltanto potrà misurare ciò che si è autorizzati a sperare nel futuro immediato o a più lungo termine, a partire da un trattamento piuttosto che da un altro, e riferire gli effetti ottenuti nella loro quantità così come nella loro qualità rispetto all’obiettivo che ci si prefiggeva in partenza.
Dunque ogni psichiatra di adolescenti dovrebbe sentirsi in dovere, ogni volta che decide un’azione terapeutica, non soltanto di valutare lo stato del paziente (com’è ovvio) ma anche ciò che egli spera da quella azione. Scelta terapeutica che avviene tra tante altre possibili e che potrà essere confermata, ridiscussa o più o meno rimessa in dubbio nel corso o al termine dell’impresa. Orbene, su quali basi si fonda la convinzione di quel dato “psi” che per quel dato disturbo la risposta più adatta è proprio quella? Le sue esperienze precedenti? Di quanti anni, di quanti casi, rispetto a quali valutazioni comparative, se non quelle uscite da un procedimento puramente intuitivo che, come sappiamo, la maggior parte delle volte si conclude con la conferma dell’ipotesi di partenza? Eppure due o tre criteri in grado di ottenere un consenso unanime ci sarebbero. Innanzi tutto, visto che l’adolescenza è un periodo cruciale che condiziona più o meno irreversibilmente l’avvenire, come si può pensare di non offrire ai giovani, quando sono gravemente disturbati, quella che può essere per loro l’unica e ultima occasione per venirne fuori? In secondo luogo, a una sintomatologia grave deve contrapporsi un trattamento intensivo e, come corollario, a una sintomatologia leggera un trattamento leggero. Però la logica apparentemente incontestabile di tale ragionamento può rischiare di slittare insensibilmente verso una posizione ideologica o addirittura passionale, così da relegare tutti coloro che non vi si attengono nelle tenebre dell’errore, se non della mancanza professionale. Secondo questo modo di vedere, infatti, la seduta giornaliera sul divano, per molti anni di seguito, diverrebbe, per i giovani perversi, paranoidi, depressi gravi e per quelli che hanno tentato di suicidarsi o mutilarsi, l’unico modo per far sì che i loro affetti riprendano vita e senso attraverso il transfert. In caso contrario si dirà che non gli è stato permesso di “sentirsi immunizzati rispetto ad una follia futura”. Immunizzato vuol dire testualmente “reso refrattario agli agenti patogeni”, “protetto”, “al riparo”, cosa che nessun altro approccio psicoterapeutico potrebbe garantire (Laufer, 1984). Se il progetto è esattamente quello di “invertire la patologia”, altre affermazioni più recenti dello stesso autore vengono tuttavia ad attenuare notevolmente la sua posizione: “Sapendo che i risultati sono incerti, noi continuiamo a sperare che sia possibile evitare una patologia devastante, ricorrendo alla cura psicoanalitica”, che non è proprio la stessa cosa. E’ vero che l’équipe del Centro di consultazione Brent, a Londra, ha svolto un lavoro eccezionale sia per il numero di casi trattati che per la sua durata e il suo rigore motodologico. Eppure è difficile credere che la problematica dell’adolescenza, così come l’intendono i Laufer, esiga che le indicazioni terapeutiche abitualmente poste dalla maggioranza degli analisti debbano essere quasi rovesciate, senza contare che la psicoanalisi sul divano nei giovani pone già, per suo conto, molti problemi. Tuttavia non siamo qui per discutere l’enorme capitolo delle indicazioni tarapeutiche e delle loro modalità. Ci contenteremo di prendere in considerazione un certo numero di quei fili conduttori che, in seno a questa oscura questione, tentano di determinare la finalità e i risultati che ci si aspettano da ogni progetto terapeutico. Per esempio le tre categorie lauferiane (il semplice funzionamento difensivo, il vicolo cieco dello sviluppo, e la sua fine anticipata in una organizzazione già fissata). Oppure i punti di repere fissati da E.Kestemberg a partire dalla valutazione della depressione, dell’idealizzazione o del rifiuto del corpo nella loro intensità e finalità. Oppure ancora, seguendo Jeammet, le diverse figure patologiche di soluzione della dipendenza. O, come ho fatto io, le vicissitudini del processo di soggettivazione, ecc.
Qualunque sia il tipo di lettura adottato, una volta che il trattamento (funzione sia della problematica del soggetto che delle opzioni teoriche e tecniche del terapeuta) sia in corso, a che punto lo si può considerare conforme agli obiettivi auspicati? Se si eccettua un’osservazione circostanziata di Novick, la letteratura è praticamente muta circa le modalità e i criteri di conclusione di queste cure. Talvolta si potrà trovare un’allusione ai risultati più o meno soddisfacenti del trattamento o qualche considerazione generale di un genere molto simile a quelle delle conclusioni dei racconti delle fate. Da parte mia ho cercato recentemente di proporre, insieme a Nicole Taieb-Fliestein, qualche riflessione su questo tema.
Per quanto riguarda gli eventuali effetti di uno o più colloqui, il follow up dimostra che molto spesso essi sfociano in uno scioglimento più o meno circoscritto del conflitto o in una autentica ripresa dello sviluppo. Gli effetti delle psicoterapie analitiche, viceversa, sono più difficili da valutare.
Cominciamo dagli adolescenti nei quali prevale un’organizzazione di tipo nevrotico. Può accadere che il lavoro analitico, alla fine di un trattamento più o meno lungo, permetta in misura sufficiente la soluzione di un conflitto adolescente e con essa la rimozione dei conflitti circa le pulsioni genitali o quelli della nevrosi infantile. Oppure si potrà riscontrare una nevrosi già consolidata che può implicare la continuazione prolungata del trattamento anche oltre l’adolescenza e magari il passaggio sul divano.
Con gli adolescenti che presentano un blocco dello sviluppo, la durata del trattamento risulta necessariamente lunga. Il grosso volume che Moses ed Egle Laufer hanno dedicato a nove dei loro casi in analisi offre un contributo particolarmente interessante alla nostra riflessione. Due di loro hanno interrotto di colpo la cura. Gli altri sette erano ancora in analisi dopo quattro o cinque anni, alla frequenza di cinque sedute la settimana sul divano. Quattro sembravano aver acquistato la capacità di un certo investimento sul piano intellettivo, con una attenuazione varia, ma sicura, dei sintomi. Era il caso di fermarsi lì, a metà strada, perché ormai erano in grado di “riconoscere meglio ciò che provavano…e arrivare a una certa organizzazione del pensiero”? O viceversa, visto che perduravano tutti i meccanismi di difesa arcaici più o meno invalidanti, proseguire il trattamento, come hanno fatto gli autori, malgrado il desiderio ricorrente d’iterromperlo da parte di quei ragazzi? La realtà dimostra infatti che, qualunque sia la scelta tecnica adottata in questo tipo di casi, o il trattamento permette la ripresa di un processo di soggettivazione, oppure bisogna rassegnarsi ad ottenere risultati più o meno ridotti o limitati. In quest’ultimo caso non rimane che predisporre per anni, se non per tutta la vita, dei controlli più o meno continui e apportare, ogni volta che si può, l’aiuto necessario a fronteggiare i rischi futuri di scompenso, di catastrofe e/o di crisi depressive.
Per tornare a considerazioni più generali, è probabile che una delle ragioni del silenzio sulle conclusioni del trattamento sia dovuta alla frequenza delle interruzioni più o meno repentine, imprevedibili o imposte dall’adolescente quando la cura sembrava proseguire il proprio corso.
Il sopraggiungere delle vacanze, la fine dell’anno scolastico, l’inizio di un legame con un partner o, talvolta, la ricaduta o la regressione a uno stato che renda più facili i passaggi all’atto e i meccanismi proiettivi, sono gli eventi che più spesso determinano questi casi tipici, senza contare la rottura brutale e repentina, che pone problemi ancora diversi. Talvolta la prospettiva di un arresto delle sedute ha dato luogo a un lavoro di elaborazione, talaltra ha colto il terapeuta alla sprovvista. In entrambi i casi, l’interruzione non può non rappresentare un passaggio all’atto in cui l’analista si sente tirato in ballo.
Nella mia esperienza, sia nel caso che la decisione d’interrompere sia stata concordata tra entrambe le parti, sia nel caso contrario, l’iniziativa parte sempre dal lato dell’adolescente, e ciò va nel senso delle mie opzioni teoriche. Mi sembra infatti che l’analista è tenuto ad integrare nella propria valutazione la paura di dipendenza dell’adolescente così come il bisogno che questi sente di verificare, nella vita reale, ciò che ha ricavato dal suo lavoro analitico. Allora potrà lasciare il terapeuta senza distruggerlo, con il sentimento di avere i mezzi interiori per poter riprendere il cammino nella direzione che ha fatto propria. L’esperienza condivisa con l’analista resterà come risorsa alla quale ricorrere in caso di necessità.
Ciò non vuol dire però che il terapeuta ratifichi qualunque proposta dell’adolescente, né rinunci (se è il caso) a fargli rivedere la sua proposta, interpretandogliene il significato. Anche quando la decisione dell’adolescente appare chiaramente come un agito, l’analista, dicendo chiaramente che è di parere contrario ma rispettando la decisione del suo paziente, salva la possibilità di dare a questa esperienza il valore di un vissuto sufficientemente buono, in una differenza accettabile tra i due partner. Così, per quanto incerta, si conserva la possibilità di un eventuale ritorno. Inoltre è meglio non ingaggiarsi con l’adolescente in quello che per lui diventerà subito un braccio di ferro. Ci metterebbe tutta la sua energia, ciò che potrebbe tradursi in una rottura trionfale, tale da precludergli ogni possibilità di un eventuale ritorno. Se ne andrebbe pieno di vergogna e colpa. Intanto, analista e trattamento saranno stati squalificati. Si può anche tener conto di un altro punto di vista, come quello proposto da Guillaumin: considerare le interruzioni deliberate come una delle forme di ricerca inconscia di trauma da parte degli adolescenti. L’impatto del trauma della separazione ricondurrebbe l’energia alle fonti pulsionali profonde, per quel festino in cui l’oggetto abbandonato sarebbe infine consumato con modalità introiettive.
In questi ultimi decenni l’esperienza di casi gravi ci ha certamente aiutati ad approfondire la nostra tecnica. Essa dovrebbe anche averci insegnata la modestia e l’accettazione dei nostri limiti, che non sono sinonimo d’impotenza. Nei casi più fortunati siamo combattuti tra due poli: da un lato il rimpianto di non aver spinto i nostri sforzi più avanti e l’inquietudine circa la qualità e solidità dei risultati; dall’altro la soddisfazione (se non la sorpresa) sempre nuova della capacità e del piacere di questi adolescenti nel riappropriarsi del loro nuovo stato e nell’usarlo. Quanto ai nostri insuccessi, se certamente ci obbligano a interrogarci sul nostro modo di ascoltare, essi non devono però farci escludere l’ipotesi che anche una riorganizzazione nel modo di funzionare di questi casi, per quanto limitata, possa tuttavia verificarsi.
In adolescenza le cure non si svolgono in un ambiente stagno e asettico. L’ambiente e gli avvenimenti esterni ostacolano il loro svolgimento e i loro effetti, oppure esacerbano i traumi e i conflitti del passato. Ma allora se si vogliono integrare questi fattori esterni nel processo e se ne vuole permettere per quanto è possibile l’appropriazione soggettiva, nulla vieta di accettare gli effetti benefici degli eventi positivi, anche quando non sono necessariamente conseguenza delle nostre azioni. Gli incontri e le circostanze, positive o negative, della vita fanno parte della problematica adolescente o post-adolescente. A questo titolo essi non possono non entrare a far parte della nostra valutazione globale. Per quanto per noi analisti la specificità della nostra azione possa apparirci prioritaria, con i soggetti di questa età la nostra funzione spesso si rivela essere più quella di un traghettatore che di un agente di guarigione, salvo riprendere o terminare il compito che ci compete quando il soggetto, diventato adulto, deciderà in questo senso.
Certo, lo scarto tra ciò che si sperava, ciò che sembrava auspicabile o necessario e ciò che è effettivamente accaduto è troppo spesso considerevole e difficile da accettare. All’estremo opposto, e più spesso di quanto pensiamo, gli effetti della nostra azione oltrepassano le nostre aspettative. Donde l’estrema difficoltà di valutarla, sia quando si conclude che quando sembra prematuramente interrotta.
Quanto alla seconda parte del tema, cioè l’evoluzione a lungo termine della psicopatologia dell’adolescenza, è ancora avvolta dall’oscurità, se si eccettuano ovviamente quei casi gravi che richiedono periodi di cura lunghissimi. L’assenza totale d’informazioni sull’evoluzione dei soggetti che sono stati trattati in adolescenza può significare sia il loro recupero o guarigione che la loro ricaduta o aggravamento. D’altra parte la richiesta, in tempi successivi, di una terapia o di un’analisi può rivestire i significati più diversi, se non opposti: un’evoluzione positiva che a seguito di circostanze più o meno drammatiche torna a regredire, oppure una ripresa di trattamento per alleviare uno stato difficilmente sopportabile e fin lì irriducibile, oppure ancora la ripresa di un lavoro per il quale il soggetto aveva già provato interesse e vantaggi, tanto da volerlo approfondire e consolidarlo. Senza contare l’effetto positivo, ritrovato a distanza di anni, di una parola, uno scambio, una confessione espressi durante una terapia anche corta o subito interrotta, anche se il nome o l’indirizzo del terapeuta era stato rimosso.
Nelle analisi di adulti i ricorsi dell’adolescenza possono essere rievocati, ma di solito ciò che ne emerge è soltanto un’eco debole e lontana, a meno che non forniscano al soggetto l’occasione di rivivere un’adolescenza mancata o segnata da eventi esterni traumatici.
Un impatto dell’adolescenza nelle analisi di adulti, tanto ignorato quanto determinante, si può verificare negli stati limite. Gli adulti che ne soffrono presentano un funzionamento quasi identico alle corrispondenti patologie adolescenziali: l’intensità dei momenti depressivi e della regressione narcisistica, il carattere spesso particolarmente arcaico dell’angoscia, il grado di decadimento del lavoro psichico causato dal prevalere di meccanismi di difesa drastici. Negli adulti come negli adolescenti l’analista è obbligato ad adottare tutta una serie di accorgimenti tecnici riguardo al setting e ai tipi d’intervento. Come a Bergeret e a Kernberg, tutto ciò ha suggerito anche a me l’ipotesi di un arresto, di una fissazione su posizioni scaturite dalla pubertà, apparentemente imposte dalla minaccia oggettuale e dal cedimento delle basi narcisistiche, di cui il soggetto rimane prigioniero in età adulta.
Le organizzazioni a tinta psicopatica sono una variante particolare di tale problematica. Di fatto esse costituiscono l’immensa moltitudine dei soggetti più o meno disadattati in cui violenza e condotte delinquenti sono in primo piano. Da un certo punto di vista esse sono vicine agli stati limite per la loro sensibilità speciale agli eventi e alla realtà dell’oggetto, la loro dipendenza travolgente da quest’ultimo, la povertà della vita fantasmatica e delle capacità di simbolizzazione, la tendenza alla scarica immediata. Nella loro presa in carico la massività del fallimento ambientale e delle carenze affettive pone tutto il problema delle frontiere tra psichiatria e campo sociale, e dei rimandi dall’una all’altro (Flavigny). I rischi di ricaduta o di fissazione su questo tipo di funzionamento sono evidentemente considerevoli e aggravati dalla tossicomania o dalle sanzioni giudiziarie. Eppure ci sono speranze di un esito diverso nella misura in cui la presa in carico di questi giovani si può suddividere tra luoghi d’interesse diversificato e sulla possibilità d’incontri con adulti disponibili, per tutto il tempo necessario. Ciò pone, ancora più acutamente che con altri adolescenti disturbati, il problema della capacità della società di fronteggiare la vastità e la difficoltà di questo compito.
Un altro ineludibile problema è quello delle patologie prepsicotiche e psicotiche in adolescenza e del loro divenire. Io ho tentato di valutare una popolazione trattata a lungo in istituzione terapeutica, con controlli catamnestici da 2 a 15 anni dopo il ricovero (Cahn, 1988). Su 53 casi si riscontrava il 30% di scomparsa dei disturbi (evoluzione molto positiva), il 25% di aggravamento fino all’instaurarsi di un quadro schizofrenico irreversibile e il resto, cioè poco meno della metà, collocato in un quadro complesso dove tipi di funzionamento psicotico coesistevano con possibilità di autonomia, senza che fosse possibile valutare la loro evoluzione a lungo termine. Accanto a questa valutazione l’équipe, alla luce della teoria della psicosi che essa segue, ha esaminato sistematicamente tutti i fattori, positivi e negativi, della sua azione, per una durata di molto mesi o anni, e ha avanzato un’ipotesi capace di spiegare le cause di cambiamento.
Misurare l’impatto delle nostre differenti azioni terapeutiche in questo tipo di patologie è molto difficile, tenuto conto di una percentuale imprecisabile di evoluzioni spontanee favorevoli, tanto più se si aggiunge la confusione diagnostica possibile con un primo episodio maniaco-depressivo. Abbiamo fatto la stessa valutazione catamnestica su un’altra popolazione di 53 casi limite, anch’essi trattati a lungo in istituzione. L’evoluzione è stata molto positiva in due terzi di loro, negativa in circa il 10% e stazionaria in un quarto dei casi. Dunque grazie alle indagini istituzionali d’ispirazione psicoanalitica condotte sopra tutto negli U.S.A., in Australia e in Francia, sembra che in questo tipo di patologia ci si può attendere un’azione terapeutica efficace quando essa accoppia e articola ciò che si svolge nella relazione con il terapeuta o i curanti nell’insieme del vissuto giornaliero con la sua doppia dimensione, di ripetizione e di esperienze nuove. In questo modo l’istituzione, nella misura in cui offre un quadro di vita e un dispositivo adeguato al suddetto obiettivo, viene ad assumere una dimensione sempre importante e talvolta decisiva, che la chemioterapia aiuta o sottende. Un’azione del genere include anche la famiglia, perché a volte permette di ridurne il peso patogeno e a volte di contribuire alla sua evoluzione. Ma permette anche di chiarire meglio il senso delle ripetizioni nelle quali il terapeuta e/o l’istituzione si sono imbattuti. Nei casi migliori l’assetto narcisistico si è consolidato e l’eccitazione si è abbassata, così da non sollecitare difese invalidanti e da permettere rimaneggiamenti, talvolta stupefacenti, del tipo di funzionamento mentale.
Per concludere toccherò il problema enormemente più vasto che è rappresentato dall’impatto delle problematiche psicopatologiche dell’adolescenza sulla salute mentale e, più particolarmente, dalla prevenzione della psicopatologia adulta. Le enormi difficoltà che incontriamo nel valutare l’azione immediata e a medio termine dei nostri sforzi terapeutici bastano a dimostrare che si tratta di un compito impossibile. Tuttavia i lavori di questo Congresso, come anche le mie affermazioni precedenti, attestano che i nostri sforzi, per quanto incerti e problematici, non sono vani. Grazie alla mobilità e alla reversibilità ancora rilevante delle organizzazioni psicopatologiche e delle capacità di rimaneggiamento durante l’adolescenza, la nostra azione può influire, ora parzialmente, ora in misura considerevole o addirittura decisiva, sul futuro dei giovani con cui abbiamo a che fare. Però esistono difficoltà ineliminabili. Per esempio noi, psichiatri d’adolescenti, non conosceremo mai quei casi la cui psicopatologia, più o meno grave, resterà silente in adolescenza finché essi non saranno costretti a ricorrere a uno psichiatra d’adulti. Viceversa quest’ultimo non conoscerà quei casi che noi abbiamo guariti.
Allora non potremo mai metterci l’anima in pace? Nessuna teoria globale dello psichismo potrà venirci in aiuto a questo proposito? La sola che possa svolgere questo ruolo è la psicoanalisi. La maggior parte degli analisti che hanno abbordato il problema dell’adolescenza, in maggioranza l’hanno collocato in una prospettiva di sviluppo e non hanno esplorato il suo aldilà, salvo lavori recenti (come quelli di Guillaumin) centrati peraltro sulla post-adolescenza.
Eppure esiste una teoria psicoanalitica che si colloca esattamente nel nostro punto di vista diacronico. Mi riferisco alla teoria di Piera Aulagnier. Non è un caso che ella abbia assegnato un ruolo così determinante alla temporalità, all’incontro con l’altro, secondo regimi psichici diversi, dalla nascita fino al periodo conclusivo del lavoro identificatorio dell’Io. Questo lavoro sfocia su una delle tre modalità di impatto con il conflitto che costituiscono la potenzialità nevrotica, psicotica e polimorfa.
Quest’ultima si esprime nei prototipi della perversione, di certe espressioni psicosomatiche e di certi comportamenti agiti. Una volta che queste potenzialità si siano installate, gli incontri che il soggetto farà al di là di questo periodo conclusivo a volte manterranno l’equilibrio più o meno precario che si è stabilito, altre volte lasceranno emergere un processo fin lì latente, tale da trasformare la potenzialità (nevrotica, polimorfa o psicotica che sia) in uno stato manifesto, con tutte le conseguenze, più o meno imprevedibili o fatali, di cui era gravida. Purtroppo non si capisce bene come l’adolescenza si situa in questo processo. A monte, a valle o proprio nel cuore di questa fase conclusiva? A seconda della risposta che si dà a questa domanda, il suo impatto sul futuro del soggetto sarà inteso in modo del tutto diverso, e ciò ridurrà un po’ l’interesse che questa teorizzazione avrebbe potuto avere per la nostra riflessione.
C’è però un altro approccio, anch’esso diacronico, che accorda un posto determinante all’adolescenza nello sviluppo futuro della mente. Esso è fondato sul processo di soggettivazione e sulle sue vicissitudini, così come si stabilisce e si svolge dalla nascita alla morte. L’adolescenza ne costituisce uno dei momenti fondamentali, grazie all’instaurarsi di uno spazio psichico personale. Infatti è in quel momento che il lavoro di soggettivazione differenziante e di appropriazione soggettiva rappresentativa, attraverso la simbolizzazione primaria e quella secondaria che fiancheggia tutto il corso dello sviluppo, vanno assumendo il loro senso e il loro assetto definitivo, più o meno favorevole o ingrato. E’ il lavoro che permette o meno l’appropriazione del corpo sessuato, l’impiego delle capacità creative del soggetto in un processo di emancipazione, di disalienazione del potere dell’oggetto e, quindi, di trasformazione del superio e costituzione dell’ideale dell’Io.
Dunque è proprio in adolescenza che si forma il tipo di funzionamento mentale che vigerà per il resto della vita, secondo le grandi categorie seguenti.
1) La prima implica la conclusione favorevole del processo di soggettivazione, indipendentemente dalla qualità e intensità dei conflitti. Esso darà luogo a tutto il ventaglio delle problematiche nevrotiche, che a loro volta si collocano nella cura analitica secondo l’asse nevrosi di transfert-nevrosi infantile in un’area di gioco condivisa, a partire da un mondo comune di rappresentazioni. Ciò implica una conflittualità inconscia contenuta in uno spazio psichico proprio, ben delimitato dall’extrapsichico.
La formula di Pasche “angoscia, Edipo, libertà e colpa sono collegati”, significa che la nevrosi esprime essenzialmente le difficoltà che il soggetto ha ad usare questa libertà.
2) La seconda categoria concerne il vasto capitolo delle difficoltà estreme o degli insuccessi del processo di soggettivazione. E’ in adolescenza, infatti, che si esacerbano gli ostacoli, esterni o interni, al conseguimento di pensieri e desideri propri, della propria identità, quando l’incessante lavoro di slegamento-rilegamento in tutti i campi, narcisistici od oggettuali, rischia di essere compromesso dall’eccesso di slegamento. In tal caso tutto sembra svolgersi come se la reviviscenza tardiva delle angosce depressive e di separazione, amplificata dal conflitto edipico e dalle ferite narcisistiche che ne derivano, facesse riemergere le prime angosce, fin lì poco o nulla superate. Per via retroattiva si mobilitano allora i meccanismi arcaici, il cui peso in certi casi rischia di diventare determinante. Donde il ricorso alla regressione narcisistica, alla costante esternalizzazione, alla scissione, all’espulsione delle tensioni fuori dalla mente con l’agire e la somatizzazione, alle identificazioni prese in prestito, alla disperata ricerca di un’autenticità introvabile.Tuttavia l’evoluzione degli insuccessi del processo di soggettivazione non è univoca. A volte spontaneamente, più spesso con l’aiuto di una psicoterapia sufficientemente intensiva ed efficace, il processo di soggettivazione prenderà una piega più favorevole, per cui la modalità nevrotica del funzionamento mentale finirà per avere la meglio. Altre volte, all’estremo opposto, la situazione si aggraverà fino a lasciar prevalere meccanismi come il diniego, il disinvestimento, la scissione o le identificazioni proiettive, e con essi il rischio di un successivo scompenso psicotico nelle sue varie manifestazioni cliniche. Nella maggior parte dei casi questa problematica “al limite” si solidificherà in età adulta, dando luogo a quella clinica non nevrotica e all’infinità delle sue espressioni. Il denominatore comune sarà l’insufficienza o l’assenza delle capacità di mentalizzazione, e ciò farà sì che questi soggetti diventeranno dei sopravvissuti anziché dei viventi(come negli stati limite), delle macchine che vanno avanti senza problemi, ma con un afflusso libidico appena sufficiente al funzionamento operativo (come nelle psicosomatosi), delle fortezze incapaci d’invertire alcunché al di fuori di se stesse o la parte del mondo riservata al loro uso (come nelle patologie narcisistiche che somigliano di più alle manifestazioni dell’adolescenza). In quest’ultimo caso mi riferisco al masochismo morale (Green) dove dominano l’ascetismo, la rinuncia pulsionale o i sogni messianici, oppure la personalità narcisistica di Kernberg con la sua grandiosità altezzosa, il suo diniego della dipendenza, la svalutazione permanente degli altri. In senso generale e quali che siano le loro forme, le problematiche narcisistiche si organizzarono in questo modo per evitare il pericolo delle sollecitazioni pulsionali ed evitare così ogni introiezione. O, all’inverso, quella che domina è la dipendenza dall’oggetto e il pericolo depressivo che l’accompagna e che spiana la strada a tossicomanie e depressioni. Però una gran parte dei pazienti che oggi vengono in analisi lo fanno meno per uno stato depressivo che per difficoltà di vita. Il loro malessere diffuso e la loro conflittualità mal strutturata fanno sì che la loro sofferenza e la richiesta di aiuto non siano ben definibili. La loro autonomia sembra fragile e incompleta, i limiti tra i sessi e le generazioni talvolta incerti fino alle condotte incestuose. Alcuni sono prigionieri di un eterno presente, incapaci di sostenere una dialettica sui fini e sui mezzi, lasciando intravedere un’adolescenza interminabile, una soggettivazione incompiuta. Le difese narcisistiche fungono da argine alle carenze o agli eccessi della barriera contro gli stimoli, all’insufficienza delle possibilità d’elaborazione psichica.
3) La terza categoria è contrassegnata da una radicale estraneità impiantata dall’oggetto all’interno del soggetto e ricca di effetti a partire dalle prime fasi narcisistiche fino all’adolescenza. Una minaccia di questo genere lascia il soggetto, nel corso dell’infanzia, totalmente in balia dell’oggetto, con il risultato di una silenziosa spoliazione sulla berlina della rigidità, del conformismo, dell’inibizione, della povertà d’investimenti.
Minaccia che rischia di diventare intollerabile in adolescenza, quando il soggetto tenterà di porsi come autonomo, con la sua identità sessuata davanti a un ambiente famigliare che spesso si sforza di mantenere ad ogni costo su di lui il proprio possesso o il proprio rifiuto negato. Allora si manifestano i vari rimedi difensivi obbligati – quelli giustamente definiti psicotici – e specialmente le diverse forme di misconoscimento della realtà interna ed esterna, con la scissione che comportano, che va dal diniego fino al ritiro più o meno radicale per arrivare, nel corso dell’adolescenza o in età adulta, alla rottura psicotica.

Penso di aver tratteggiato a grandi linee un certo numero di collegamenti possibili della psicopatologia dell’adolescenza con quella dell’adulto. Essa implica un approccio psicodinamico con tutte le sue conseguenze terapeutiche. Tra queste una priorità assoluta va riservata alla dimensione relazionale, all’azione psicoterapeutica, quali che siano le sue modalità (psicoanalitica, di sostegno, di accompagnamento) e qualunque sia il setting (individuale, famigliare, di gruppo o istituzionale), con l’aiuto, spesso utile e talvolta indispensabile, della chemioterapia. La patologia si inscrive nel contesto attuale della crisi economica, sociale e culturale, con tutte le conseguenze che ciò implica in termini di difficoltà crescenti a rendere possibile il processo di soggettivazione. Infatti si osserva una prevalenza sempre più marcata delle patologie narcisistiche e un aumento progressivo di nuove patologie rappresentate da disturbi della condotta e dipendenze tossicomaniche di ogni genere. Questo impatto della crisi della società, insieme al ridimensionamento dei mezzi materiali che ci sono concessi per la nostra azione, vengono a rendere ancora più difficile il nostro compito, pur senza mettere in dubbio il nostro orientamento generale di fronte alle patologie di questa età.
I progressi della neurobiologia e della psicofarmacologia e l’apporto rivoluzionario che se ne può sperare, (nella prospettiva sempre attuale delle “serie complementari” proposta da Freud) non devono però condurci a orientamenti suscettibili d’imporsi sulla nostra pratica attuale, fino a sostituirsi ad essa. Al ritmo con cui le cose vanno cambiando, non si può scartare del tutto l’ipotesi della prescrizione sistematica di pillole della felicità o d’iniezioni-ritardo, magari per tutta la vita, di prodotti che modifichino più o meno radicalmente le condotte degli adolescenti-problema. Qualcuno potrà anche rallegrarsene, giustificando questo tipo d’approccio con un’ideologia scientista che dovrebbe avvicinarci al Migliore dei Mondi. E’ dunque particolarmente opportuno ricordare che, se il primato dell’infanzia permane, oggi l’adolescenza ha assunto, non solo agli occhi dei clinici ma anche a quelli della società intera, una posizione chiave nella scala della vita. E’ l’età in cui l’identità e le identificazioni dell’essere umano sono globalmente modificate, cioè a dire che vengono riorganizzate in una forma stabile, che siano vivibili o meno, patologiche o no. Questa prospettiva è la sola che ci può evitare la minaccia sempre più incombente di una psichiatria dell’adolescente centrata sul sintomo piuttosto che sul soggetto.

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Traduzione di Arnaldo Novelletto


* Relazione conclusiva al VI° Congresso della Società Internazionale di Psichiatria dell’Adolescenza, Roma 26-29 giugno 2003




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