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Anno III - N° 3 - Settembre 2003

Lavori originali



Il Contenimento dell’Aggressività Distruttiva*

Linda Root Fortini**




Introduzione
Propongo una riflessione teorico-clinica sul trattamento degli aspetti distruttivi della personalità, più specificamente dell’aggressività distruttiva che Meltzer (1968) descrive come il sintomo della sottomissione del Sé alla parte cattiva. Rosenfeld (1964) parla di un tipo di personalità caratterizzata dal terrore di sentire il bisogno dell’oggetto e di esserne dipendente, un terrore che può scatenare il tentativo di attaccare l’oggetto stesso. Per questo tipo di paziente qualunque segno di emozione equivale alla debolezza, la fonte dell’identità è prevalentemente esterna e l’individuo perde il senso del sé quando si allontana dall’ambiente.
Nell’adolescente questo tipo di disturbo, che può essere collocato nella sfera della patologia narcisistica, è strettamente legato allo sviluppo di una situazione edipica negativa, per cui l’adolescente ha intolleranza per gli aspetti femminili della sua identità, difficoltà a gestire la passività e a fare lo spostamento sulla relazione con il padre. In questo quadro clinico di un disturbo che riguarda le interazioni genitori-figli nella prima infanzia, l’ingresso dell’adolescente nel mondo degli adulti può essere gravemente danneggiato. Ogni trattamento psicoterapeutico dovrà tenere presente la pericolosità di questi pazienti, il loro bisogno di contenimento e la necessità di lavorare nella prospettiva di stabilire un setting adeguato.
S. Fraiberg (1987) definisce l’incapacità primaria di formare legami un “disturbo di non-attaccamento.” Secondo l’autrice, nell’incontro con queste persone, si avverte “una sottile sensazione di distanza spaziale, di lontananza, di ‘non-connessione.’ La loro storia di vita….non rivela la presenza di nessuna relazione umana significativa…(solo) incontri casuali…Un compagno…può essere scambiato indifferentemente con un altro; in assenza di amore, non c’è dolore per la perdita…(C’è) l’impoverimento della gamma emozionale. Non c’è gioia, né dolore, né colpa, né rimorso. ….(e c’è) una singolare mancanza del senso di umorismo.
Non è tanto il potenziale di violenza che contraddistingue questo gruppo di persone quanto l’atteggiamento di indifferenza nei confronti della vita e l’assenza di legami.
Secondo Kernberg (1987) la sindrome di diffusione dell’identità è il fattore fondamentale per la diagnosi differenziale della patologia narcisistica. La diffusione dell’identità, che ha radici nella prima infanzia, si manifesta nell’esperienza soggettiva di un cronico sentimento di vuoto, in percezioni contraddittorie del Sé e in percezioni superficiali, piatte e impoverite degli altri.

L’Antefatto
A meno di un mese dal raggiungimento della maggior età, in una notte calda di piena estate Thomas, a casa da solo, si ubriaca e butta dalla finestra una bottiglia incendiaria mancando di poco una macchina di passaggio. Viene arrestato in flagranza per i reati di tentato omicidio e di porto d’arma da guerra.
Il Tribunale per i Minorenni decide la misura cautelare di collocamento del minore in una comunità, con l’obbligo di frequentare il Ser.T e con il mantenimento dell’attività lavorativa esterna con l’accompagnamento quotidiano del padre. Dopo circa un mese in comunità T. si comporta in modo provocatorio: in stato di ubriachezza fa dei danni materiali e viene rimandato a casa. Viene decisa una seconda misura cautelare di un nuovo inserimento in un’altra comunità che produce effetti ancora più disastrosi. T. ha una crisi di rabbia e spacca tutto. Viene emessa una seconda incriminazione nei confronti di T., ormai maggiorenne, per il reato di lesioni, aggressione e danneggiamento. La terza misura cautelare dispone il ritorno definitivo a casa in stato di libertà con l’obbligo di effettuare un programma al Ser.T. e con la specifica richiesta della collaborazione dello psicologo.
Il progetto terapeutico integrato predisposto dal Ser.T. consiste in una convenzione di lavoro, colloqui con la psicologa, incontri con l’assistente sociale e un sostegno ai genitori.
Sono ormai passati circa 7 mesi dalla prima denuncia giudiziaria, dalla lunga e tormentosa esperienza di due inserimenti in comunità diverse e da una seconda denuncia giudiziaria per reati commessi da maggiorenne durante il periodo di rinvio al giudizio, per cui adesso T. rimane in attesa di due processi penali.

La famiglia
La madre, donna irascibile, è una professoressa della scuola media; il padre, persona mite, fa l’imprenditore.
Entrambi sono traumatizzati dagli eventi recenti e non sanno come comportarsi con il figlio: non si fidano di lasciarlo da solo ma non stanno volentieri con lui.
T. terrorizza la famiglia con le sue crisi di rabbia e le sue azioni violente, come rompere bicchieri scaraventandoli in terra, o sedie, sbattendole contro il muro. A tavolo c’è ormai un’atmosfera insostenibile: T dà ordini e tutti devono ubbedire.
Sullo sfondo di un sadismo ego-sintonico, l’unica alternativa alla sofferenza che T. abbia a sua disposizione pare essere quella del controllo spietato degli altri attraverso il disprezzo e lo sfruttamento parassitario.
T. ha avuto molte difficoltà scolastiche e dopo la terza media ha accumulato solo insuccessi: non riesce a continuare lo studio in una scuola tecnica professionale né a fare un corso privato. La situazione di apprendimento iè ntollerabile per T. perchè equivale a non sapere, a non essere in controllo ed a vivere passivamente.

Le primissime relazioni oggettuali
La madre racconta che la sua gravidanza è stata normale ma accompagnata da un persistente senso di nausea dal quale non riusciva a trovare sollievo fino al quarto mese e mezzo, quando decise di chiedere al medico un farmaco specifico. A detta della madre il bambino non aveva la pazienza di succhiare al seno quindi lo ha nutrito con il latte artificiale. Nei primissimi mesi di vita T. dormiva o piangeva dimenandosi così tanto da non permettere alla madre di tenerlo in collo. Era un bambino così irrequieto che la madre doveva cercare di distrarlo nel tentativo di ridurre i suoi pianti furiosi. La madre ricorda di non essere stata capace di calmare il bambino se non facendogli fare continuamente bagni caldi.
Ricorda che durante l’infanzia di T. era costretta a stare sempre a disposizione del figlio per intrattenerlo. T. non sopportava di perdere l’attenzione della madre. Se per caso rimaneva solo, si scatenava in lui uno sfogo di pianti e di movimenti corporei irrefrenabili che potrebbe far pensare che la presenza dell’oggetto l’aiutava a mantenere una qualche presa sulla realtà.
Nel suo breve racconto, “Il Quinto Figlio,” la scrittrice inglese Doris Lessing (1988) descrive una situazione simile, sia pure più grottesca, della battaglia di una madre che sente di aver in grembo un feto-pugile, quasi un nemico selvaggio per cui la madre deve prendere sedativi per calmarlo. Non sa cos’è questo bambino ma sente dentro di sé una rabbia sorda da cui non riesce a liberarsi. Dopo la nascita il bambino rimane indifferente ai giocatoli, non vuole stare in braccio e, quando desidera qualcosa, annuncia, “voglio questo---dammi quello” e gradualmente sembra assumere le caratteristiche spaventose di un mostro.
L’esperienza sensoriale del bambino è fondamentale per il processo dello sviluppo del Sé (che Novelletto definisce il processo di soggettivazione). Il legame madre-bambino è il prodotto di un complesso sviluppo sequenziale che si evolve nei primi mesi di vita.
Spitz (1965) parla di un “dialogo” in cui i messaggi provenienti dal bambino vengono interpretate dalla madre e i messaggi provenienti dalla madre vengono presi come segnali dal bambino.
Fonagy e Target (2001) descrivono l’attaccamento sicuro come un processo intersoggettivo in cui il bambino giunge a conoscere la mente della madre mentre questa cerca di comprendere e di contenere gli stati mentali del bambino, permettendo al Sé fisico di evolvere gradualmente in un Sé riflessivo. Il senso di Sé si costituisce sulla base delle esperienze con il mondo esterno e gradualmente si formano dei modelli interni di ciò che il bambino incontra, in modo da poter identificare l’oggetto e saper come si muove. Se c’è un mismatch fra bambino e ambiente si attiva una protezione difensiva del Sé e può svilupparsi una distruttività patologica. Questa distruttività patologica è il risultato di una fusione tra la struttura del Sé e l’aggressività difensiva.
Il comportamento disforico-collerico di T., manifestato già nelle primissime settimane di vita, fa pensare ad un lattante che vive una frustrazione infantile precoce dovuta alla mancanza di un’esperienza di ancoraggio corporeo alla figura materna.
Nel caso di T., caratterizzante la relazione madre-bambino è la presenza di una madre ansiosa che non tocca volentieri il suo bambino e un bambino che percepisce i segnali affettivi materni come incoerenti e incostanti. Quindi l’iper-eccitabilità corporea precoce di T-bambino può essere letta come un tentativo di adattamento in cui la madre viene provocata di toccarlo più di frequente. Ma se col tempo non ci sono risposte materne positive, quest’iper-eccitabilità corporea può evolversi in una regressione narcisistica difensiva del bambino che cerca di procurarsi da solo gli stimoli che la madre gli rifiuta.
Quanto più precocemente si manifestano i segnali del disturbo narcisistico della personalità, secondo Kernberg (1975), tanto più grave è il disturbo.

La Psicoterapia
Ai primi incontri con la psicologa, T. viene accompagnato dalla madre. Madre e figlio sono tutt’e due di bella presenza, alti e snelli. La madre ha un viso contratto e preoccupato mentre T. appare indifferente, quasi estraneo alla propria situazione: solo il corpo, teso come un elastico, comunica alta tensione. Il suo atteggiamento è di sfida negativa. Si veste con indumenti sportivi costosi e firmati. Un elemento incongruo e confusivo è la sua pettinatura alla Shirley Temple con lunghi riccioli fino alle spalle che si scuotono con ogni movimento della testa, come se volesse scacciare qualsiasi pensiero dalla mente.
T. dimentica regolarmente gli orari dei colloqui con la psicologa ma, avendo assegnato alla madre il compito di ricordarglieli, accusa lei di aver sbagliato. Si potrebbe dire che T. è apparentemente in seduta ma realmente resiste e usa gli aspetti esterni del setting per cercare di mantenere il suo controllo anche sulla terapeuta. I colloqui sono poveri di contenuti, tutto sembra superfluo, niente interessa e ogni discorso viene banalizzato.
T. appare rassegnato al fatto che deve fare colloqui con la psicologa ma dichiara di non aver problemi. L’atteggiamento di T. è di diffidenza e di auto-sufficienza. La sua negazione di aver un qualche problema riduce la terapia ad essere l’unico vero problema da affrontare.
Al posto del programma sul territorio T. vorrebbe solamente riprendere il suo lavoro, sostenendo di saperlo fare bene ma non considera il fatto che il suo ex-datore di lavoro non lo vuole più.
Dice di avere una ragazza e degli amici ma non riesce a descriverli in modo vivo o con affetto. Non li chiama mai per nome né racconta qualche evento trascorso con loro. Più che essere persone significative per lui sembrano oggetti inanimati, cosa che fa pensare alla mancanza di legami. L’impressione è quella di relazioni sociali impoverite e basate su una fantasia di essere un leader con gli altri che si adeguano a lui.
Non legge niente, guarda poco la televisione, non fa attività sportiva. T. non ricorda niente del suo passato e dice di non aver memoria. I genitori riferiscono che sta spesso chiuso in camera con la ragazza. In un breve scritto sul narcisismo e sulla violenza negli adolescenti, Meltzer (1989) afferma che la mentalità dell’adolescente di oggi non è quella di credere, come una volta, che l’innamorarsi porterà all’intimità sessuale ma che l’attività sessuale farà nascere il sentimento di amore: l’esercizio fisico induce un affetto interiore.
Kernberg indica nell’incapacità dell’adolescente di innamorarsi il segnale di una patologia del Super-Io. A fronte una carenza di maturazione del Super-io, si manifesta frequentemente il comportamento antisociale in quanto il Super-io non integrato non è in grado di proteggere contro un’eccessiva attivazione di aggressività.
Nel primo incontro con T. cerco di spiegare il nostro comune obiettivo che è quello di arrivare alla data dell’udienza con il giudice con un programma accettabile sia al giudice che a lui stesso e che dobbiamo gestire insieme. T. reagisce positivamente: appare più in ascolto, meno annoiato e capace di distinguere, sia pure in modo minimale, tra il proprio sé e quello dell’altro, tra obiettivi pertinenti alla sua vita e le sue emozioni nei confronti dei familiari e in particolare della madre.
Non faccio mai pressione su T. di parlare dell’evento incriminato nel rispetto del suo bisogno di non comunicare. Winnicott (1963) insegna che l’adolescente ritiene che lo psicoterapeuta curioso sia
una persona che vorrebbe invadere il suo essere.
Faccio notare a T che il suo metodo di ricordare la data della seduta non sembra funzionare tanto bene per noi, perché i genitori si sentono autorizzati ad occuparsi anche loro del nostro lavoro. Il messaggio implicito al paziente è che si fa trattare come un bambino. Successivamente, T. riesce a ricordare da solo il giorno della seduta e a trattare direttamente con la terapeuta invece di usare la madre come un tramite. L’intervento sembra aver mobilitato in T. le risorse dell’Io in modo da aiutarlo a superare un comportamento passivo d’auto-distruttività in quanto dipende dalla madre e la odia.
Un indicatore esterno di maggior adeguamento alla realtà avviene quando, iniziando l’inserimento lavorativo a convenzione (che il servizio riesce ad attivare rapidamente), T. si taglia i riccioli assumendo così un’identità maschile più definita.
Nella seduta dopo l’udienza in cui viene decisa la messa alla prova, T. racconta adeguatamente l’incontro con il giudice con solo un po’ di stizza in quanto ha dovuto aspettare fino alla tarda mattinata per l’udienza. Senza dimostrare emozioni riferisce che il giudice, una donna, era “alla mano” mettendosi praticamente al pari suo. Improvvisamente c’è uno sbalzo di umore: invece di sentire sollievo e soddisfazione per aver affrontato l’incontro con il giudice, T. si sente grandioso ed esageratamente vincente. Mi chiede se sono davvero straniera perché lui vorrebbe tanto viaggiare e mi fa alcune domande. La seduta sembra bloccarsi su una nota falsa, svuotata di senso e sospesa nel tempo.
Infastidita ed irritata, perdo, lì per lì, la mia capacità recettiva nei confronti del paziente e cerco quasi di “colpirlo” verbalmente. Assumo un’istanza superegoica attaccante nell’introdurre un argomento, recentemente riportato sui giornali e così simile alla sua storia giudiziaria, di un grave episodio di una bomba carta buttata in uno stadio con il rischio che qualcuno si facesse male e T. risponde piattamente: “non vado allo stadio” . E’ evidente che il mio intervento non è stato condiviso dal paziente, anzi che quest’ultimo lo sente come un’espropriazione o un tradimento, situazione che Correale (2001) chiama furto di pensiero. Secondo Kernberg (1975) il paziente con una patologia narcisistica tende a vivere ogni attività diretta a collegare aspetti del suo mondo esperienziale come un attentato al suo senso precario di benessere e di vitalità.
In una giornata un po’ più calda del solito, T. arriva in seduta e, parlando in modo affrettato, esprime, per la prima volta, un suo disagio e un reale bisogno. Dice che ha la pelle, tutta arrossata e piena di bollicine, che si riscalda facilmente per cui vorrebbe aprire la finestra. Spiega che gli succede perché si lava troppo. Questa reazione psicosomatica potrebbe far pensare al fallimento del contenimento della pelle e ad un crollo momentaneo del funzionamento protettivo di una seconda pelle (Bick 1964). Secondo E. Bick la prima sensazione della pelle è collegata all’esperienza passiva del bébé di essere tenuto da un oggetto esterno. Se fallisce tale esperienza diventa necessario per il bambino di crearsi misure compensatorie attraverso difese primitive come il fenomeno della seconda pelle. Meltzer (1977) aggiunge che la natura dell’identificazione narcisistica è più in collegamento con l’identificazione adesiva che con quella proiettiva e la relazione con l’oggetto sembra un aderire strettamente all’oggetto in mancanza di un senso di uno spazio interno. In questo stato l’adolescente sembra non aver una pelle oppure ne ha una così sottile da richiedere uno scudo contro stimoli esterni.
Adesso che sta lavorando con la convenzione per quattro ore la mattina, si evidenzia il vecchio problema dei soldi. In passato T. spendeva sempre tutto lo stipendio nell’abbigliamento e, se non bastava, chiedeva di più ai suoi. Spiego che in questo programma non è consentito ai genitori di dare soldi al figlio il quale deve saper arrangiarsi con il mezzo stipendio della convenzione (reality testing riguardo alla necessità di definire limiti e confini). Per aiutarlo a risolvere il suo problema economico propongo a lui, sotto forma di un gioco, quattro scelte possibili in un ordine decrescendo di legittimità e di maturità dell’Io***: la prima scelta è quella di rinunciare ai tanti vestiti (sicuramente ne ha più di quelli che può mettere), un’altra quella di aspettare e mettere da parte la somma necessaria per comprare un particolare indumento che gli piace, un’altra ancora è quella di fare debiti e, l’ultima, quella di commettere un reato come rubare. Anche se T. incuriosito e attento sembra capire il discorso, non risponde. Solo nel salutare a fine seduta, per la prima e l’unica volta, ringrazia come se fosse capace ora di recuperare il valore della terapeuta come oggetto reale e in parte affidabile. Sappiamo bene invece che quasi sempre manca il senso di gratitudine in questi pazienti.
All’inizio dello stesso mese in cui l’anno precedente era avvenuto il grave episodio del loro figlio, i genitori, quasi in preda al panico, chiedono alla psicologa un colloquio per riferire che una sera T. è tornato a casa ubriaco dopo una festa d’addio per un amico che andava in vacanza all’estero (evento che implica il tema della separazione). Lo hanno sentito girare per la casa, agitato e poi andare in cantina dove, hanno scoperto dopo, stava solo cercando un segnale stradale con la scritta “strada senza uscita” (rappresentazione letteralmente concreta della necessità di frenarsi e imporsi un auto-controllo?). Secondo i genitori tutto è finito lì. Diversamente da quella terribile estate, quest’anno T. riesce ad organizzarsi e va in vacanza con amici, anche se riferisce successivamente in seduta che non gli è piaciuto stare chiuso in tenda.
Nell’autunno T afferma che non sta spendendo per i vestiti, che non gli interessano più tanto e che sa controllarsi meglio sia nella gestione dei soldi che nelle voglie. Questo evidenziarsi di una
discreta capacità di T. di auto-valutazione mi spinge, probabilmente prematuramente, a chiedergli se sarebbe in grado di avvertire, e eventualmente gestire, un sentimento di rabbia che sente montare dentro di sé. Non risponde; ovviamente la domanda è per lui inaccessibile. Ma poco dopo T. replica indirettamente e parla di come, da quando va il pomeriggio in palestra a fare il pugilato, ha tanti “acciacchi”, dimostrando di ragionare in termini di uno stare male fisico invece che in termini di sofferenza mentale. Commento che sta parlando di sé come se fosse un vecchio e T., sorprendentemente, fa un bel sorriso. Pur trattandosi di un Sé fisico rappresentato da uno stato pre-simbolico, T. sembra aver vissuto un’esperienza intersoggettiva di sintonia emotiva con la terapeuta. Il mondo degli affetti di T., per quanto fragile e sfuggente, appare in questo particolare scambio meno caotico e più decifrabile, tanto da aver potuto stabilire con la terapeuta un contatto umano condiviso. Sembra così allentarsi temporaneamente la spinta aggressiva utilizzata per mantenere unita la rappresentazione di sé.

Una Rappresentazione Agita dell’Aggressività Distruttiva
Torniamo a quella notte calda di piena estate, alla fine ufficiale dell’adolescenza, e all’evento di una aggressione-senza-senso, quello che Fonagy e Target (1995) chiamano “violenza gratuita” (mindless violence), che è un modo di controllare stati mentali travestiti in stati del corpo e dove il corpo agisce l’esperienza al posto della mente. Quell’estate T. non era andato in ferie nè aveva voluto stare con la famiglia in campagna. Era rimasto solo a casa in una città vuota. Tornando a casa tardi e disinibito dall’abuso di alcool, T. scatena un’azione sfrenata e furiosa per compensare un senso persecutorio di tradimento. Solo e frustrato sfoga una sua rabbia incontenibile, perde contatto con la realtà e si comporta come se si sentisse attaccato. Kernberg (1987) definisce breve episodio psicotico una tale manifestazione di temporanea regressione indotta dall’uso di alcool e priva di una capacità di esame della realtà.Proviamo ad ipotizzare che la madre, che rappresenta l’esperienza della dipendenza negata, sia vissuta da T. come parte del proprio corpo, come in una fantasia concreta di incorporazione. ****, e che il bisogno primitivo di essere guardato e tenuto nelle braccia della madre risvegli in T. ansie e paure intollerabili. Per non sentire quel vuoto antico di non essere pensato da una madre, T. cerca disperatamente di liberarsi dalla sofferenza: dà fuoco ad una bottiglia di alcool che ha bevuto per
intera in modo che diventi una rudimentale bomba incendiaria da espellere, con rancore rabbioso, dal suo corpo. L’atto violento che T. ha commesso può rappresentare l’esperienza infantile di un vuoto primario di legami affettivi che, nell’adolescenza, si somma ad un’incapacità di svincolo da una situazione edipica irrisolta perché mai costituita.
Si ripete come in un brutto copione l’uso dell’aggressività, non al servizio dello sviluppo del sé ma per distruggere, in un atto difensivo, l’oggetto. Il conflitto centrale è: come poter vivere senza la madre se dall’inizio della vita la madre non è stata qualitivamente presente?
Secondo Rosenfeld (1964) gli aspetti distruttivi del narcisismo maligno si oppongono al riconoscimento della separazione tra Sé e l’oggetto in quanto la consapevolezza della separazione significa sperimentare sentimenti di dipendenza e di angoscia. Spiega Rosenfeld, che il paziente narcisista tende a credere di essersi auto-generato e di poter nutrirsi e curarsi senza aver bisogno di aiuto. A fronte della realtà della dipendenza T. preferisce non esistere e la morte può apparire per lui una soluzione ideale a tutti i problemi.
Rifletterei con le parole di S. Fraiberg (1987) secondo cui: “la morte interna diventa la fonte di una tensione intollerabile del terrore estremo di non-esistere, della dissoluzione del Sé. La morte interna fa sì che a volte le persone abbiano bisogno di potenti scosse psichiche per affermare la propria esistenza (come usare droghe o commettere atti brutali). La malattia della povertà emozionale crea la fame di sensazioni forti. L’assenza di legami umani può promuovere una morbosa alleanza tra pulsioni sessuali e aggressive e una modalità di scarica in cui una forma distruttiva di aggressività diventa la condizione sotto cui la pulsione sessuale si manifesta.”

Conclusione
L’adolescenza è un periodo di maturazione verso lo stato adulto ed è anche un periodo di ritorno dall’infanzia con la riattivazione degli impulsi edipici. Winniccott (1971) sostiene che la fantasia inconscia primaria alla base dello sviluppo puberale è quella della morte di qualcuno. L’adolescente ha la capacità fisica di possedere l’oggetto e anche di distruggerlo. C’è ora presente un potere che complica i sentimenti di odio. Il quesito è quindi: come l’adolescente si pone davanti al proprio potere? Negli adolescenti maschi la violenza fa sentire reali mentre una vita facile comporta una minaccia di depersonalizzazione. Per Winnicott (1965), il paradosso dell’adolescenza è che l’unico vero rimedio è il passare del tempo ma l’adolescente vuole risposte immediate.
Nel caso di T. siamo di fronte ad una situazione di emergenza (un atto violento) senza una richiesta di aiuto da parte del diretto interessato che è stato invece costretto a sottomettersi ad una risposta istituzionale obbligata. Quanto può un paziente come T. beneficiare di un trattamento psicoterapeutico con le suddette caratteristiche? Secondo Winnicott (1965), il quadro clinico di un grave deficit iniziale dello sviluppo affettivo con l’organizzazione di una difesa molto primitiva (nel caso di T. un arresto dello sviluppo alla fase di non-differenziazione del Sé, con un’azione automatica di difesa auto-protettiva al servizio della sopravvivenza), è una controindicazione alla psicoterapia.
Allo scopo di differenziare il quadro clinico di T. da sindromi psicotiche, ho seguito l’indicazione di Kernberg (1987) mettendo alla prova la capacità di esame di realtà del paziente che l’autore definisce come: “Capacità di differenziare il Sé dal non-Sé, le origini intrapsichiche delle percezioni e degli stimoli da quelle esterne e come capacità di valutare realisticamente il proprio affetto, comportamento e contenuto di pensiero nel quadro delle comuni norme sociali. L’esame di realtà si riflette nella capacità del paziente di provare empatia per la percezione che il clinico ha dell’interazione con lui.”
Ho qui riportato tre esempi di esame di realtà utilizzati durante la psicoterapia. Riguardo ai primi due, uno relativo all’uso della madre per farsi ricordare l’appuntamento con la psicologa e, l’altro, la problematica della gestione dei soldi, T. sembra essere riuscito a distinguere tra se stesso, le sue difficoltà e ciò che è pertinente al proprio benessere rispetto a ciò che i genitori vorrebbero da lui. Nel terzo esempio, senz’altro più complesso, dove chiedo a T. se si sente in grado di avvertire una rabbia che monta dentro di sé, avviene solo un debole riconoscimento di qualcosa che non funziona in lui con uno spostamento sull’area del corpo invece che su quella intrapsichica. La risposta di T. che dice di avere tanti acciacchi, sembra indicare che il paziente continua ad aver un quadro di sé confuso e caotico. Con il mio intervento scherzoso sulla vecchiaia inteso ad evitare una rottura del nostro dialogo, sembra che sia stato recuperato, almeno momentaneamente, uno scambio vivo e perfino affettivo tra T. e il terapeuta.
Avvicinandosi all’udienza che valuterà positivamente il periodo della messa alla prova, T. si presenta in seduta come se fosse un bambino che scalcia e protesta. Attaccando la psicologa con una raffica di parole piene di disprezzo, dichiara perentoriamente di voler lasciare il programma quando finisce l’obbligatorietà di frequenza imposto dal giudice. Sorpresa e ferita, sono anche impaurita dal suo desiderio di svincolarsi con una tale violenza. Non intervengo, ne prendo atto e penso al suo terrore della dipendenza. In successive sedute riusciremo ad esaminare realisticamente come il programma era adattato ai suoi bisogni e com’è stato capace di utilizzarlo bene. T. matura in questo periodo l’idea di voler riprendere gli studi, di continuare la convenzione di lavoro e di non interrompere del tutto la psicoterapia.


Note:

* Questo lavoro è stato presentato al V Convegno Nazionale di Psicoterapia dell’Adolescenza - Psicoanalisi e Psicoterapia: “L’adolescente tra contesti naturali e contesti terapeutici” , Firenze, Convitto della Calza, 18-19 ottobre 2002.
** Psicologa e psicoterapeuta, Azienda Sanitaria 10 di Firenze; membro ordinario e didatta dell’Associazione Fiorentina di Psicoterapia Psicoanalitica (A.F.P.P.)
***Nel III Convegno Nazionale di Psicoterapia dell’Adolescente tenuto a Roma nel 1997, Kernberg fece cenno ad una tecnica che cerca di promuovere nell’adolescente con patologia narcisistica perplessità (puzzlement) circa il suo comportamento per poter valutare se il paziente è capace di empatia per i propri sintomi.
**** S. Isaacs (1948) ritiene che la fantasia di incorporazione sia tra le fantasie inconsce più precoci ed arcaiche e che rappresenta, a livello psichico, gli impulsi orali.

Riassunto
L’autrice descrive il trattamento psicoterapeutico di un adolescente con una grave patologia narcisistica. Tale trattamento fa parte di un programma socio-riabilitativo richiesto dal Tribunale per i Minorenni. Viene discusso in particolare la necessità in seduta di contenere l’aggressività distruttiva del paziente il quale, terrorizzato dal bisogno della dipendenza, si difende dal legame con atteggiamenti di sfida e di disprezzo. Sono analizzate in dettaglio alcune tecniche utili che hanno favorito l’evolversi di una qualche sia pure fragile alleanza terapeutica.


Bibliografia
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