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Anno III - N° 3 - Settembre 2003

Lavori originali



Adesso me ne vado: Tentato suicidio e riparazione, un dodicenne e i suoi genitori

Annamaria Musa*




Può il tentato suicidio di un figlio obbligare i genitori a intraprendere il doloroso cammino di revisione, rielaborazione e riparazione rispetto a una comunicazione malata all’interno del contesto naturale, producendo quel cambiamento che era la richiesta disperata della condotta violenta?
Il presente lavoro tenterà di dare una risposta a questa domanda testimoniando come, a partire dalla acuità del trauma, i genitori abbiano saputo preparare la strada alla psicoterapia del figlio che, col suo gesto, li aveva obbligati a intraprendere un cammino speculare di ricerca di senso e di riappropriazione di ruolo attraversando i territori dell’orrore, della disperazione e della speranza.
“Adesso me ne vado”; queste le ultime lapidarie parole registrate nella mente di una madre che voleva credere che il figlio stesse andando a scuola, benchè non indossasse il giubbotto in una fredda mattina di gennaio e fosse privo di zaino.
Il figlio che chiamerò Ottaviano uscito di casa, si avviava, ma non verso la strada, saliva le scale condominiali fino al pianerottolo fra il secondo e il terzo piano e si lanciava, come in un tuffo ,a testa in giù.
I giornali avrebbero poi titolato sul disagio scolastico.
La scelta del piano, le ultime parole che anche grammaticalmente, con l’utilizzo del medio intransitivo, azione in cui il soggetto è al tempo stesso agente e paziente, accentuano il senso del distacco fino ad assumere un senso di ineluttabilità; le modalità del lancio, non lasciano dubbi sull’intenzionalità di gesto definitivo che realizzasse la profezia tante volte espressa da Ottaviano nei momenti di conflitto: “O l’ammazzo o mi ammazzo”, minaccia rivolta solitamente contro il fratello.
Al momento del tentato suicidio Ottaviano ha 12 anni, frequenta con risultati deludenti la seconda media di un prestigioso Istituto privato confessionale della città. E’ secondogenito di cinque, il fratello maggiore ha 16 anni, la terzogenita 6, le gemelline ultime nate 3.
Il contesto naturale è connotato da benessere economico cui non fa riscontro un pari livello socioculturale. La promozione sociale è stata affidata dalla madre alla frequentazione della scuola privata da parte di tutti i figli.
La coppia gestisce un’attività commerciale con annesso laboratorio di produzione, di proprietà. Abita al primo piano del palazzo sede dell’attività economica, con scarsissima separazione degli spazi tra attività pubblica e vita privata, la quale risulta sovraesposta, soprattutto in momenti come quello di cui stiamo parlando.
Il cortile in cui Ottaviano precipita è prospicente al laboratorio paterno.
Tutti assistono, tutti sanno, tutti chiedono, giudicano, a volte aiutano, come quando un cliente medico consiglia l’intervento di uno psicologo e, ricevutone mandato, si attiva per un invio. Quando i genitori di Ottaviano mi chiamano sono passati quattro giorni da quello che, in seguito, lui chiamerà “il volo”, metafora gentile per indicare la propria defenestrazione.
Ottaviano è determinato a morire per non essere costretto ad uccidere: sugli eventi scatenanti l’agito, irrompe la fantasia parricida.
Lo scenario familiare, nei due giorni precedenti l’agito era caratterizzato da forte aggressività tra i figli e tra loro e il padre, l’impulsività violenta non riceveva alcun contenimento anche a causa dell’assenza della madre che si era trattenuta in montagna con le bambine, utilizzando le vacanze natalizie.
Lasciati soli in città, con i compiti delle vacanze da terminare e il lavoro da riprendere, i ragazzi consumavano il tempo sulla consolle della play station di Ottaviano, all’epoca oggetto nuovo, ambito, introvabile perché di recentissimo lancio commerciale, il padre metteva regole per l’utilizzo della stessa.
A rendere più torbido il clima, la sconfitta calcistica della squadra del cuore dei ragazzi ad opera di quella eletta dal padre.
La mattina successiva a questo evento anticipatore, la play station è scomparsa , sequestrata.
E’ questo l’inizio delle ostilità, una guerra senza esclusione di colpi, tra il primogenito e il padre, la cui unica vittima in ogni momento e sotto ogni punto di vista risulterà Ottaviano.
Il primogenito porta avanti il conflitto, Ottaviano lo subisce passivamente, tenta di ritagliarsi uno spazio difensivo studiando, ha paura, cerca la madre al telefono, non la trova.
Mentre Ottaviano tenta queste operazioni - ambivalente tra padre e fratello, visto che proprio il fratello monopolizzava l’uso dell’oggetto magico sottraendolo a lui legittimo proprietario - in rapida successione il primogenito sequestra al padre i propri effetti personali, tra cui il cellulare. Il padre, che fa la spola tra laboratorio e casa, intima la restituzione entro un tempo dato, scaduto il quale si ritrova la porta di casa sbarrata, tenta di sfondarla, il figlio maggiore chiama la polizia. Al tentativo paterno di entrare nell’appartamento dalla finestra con l’ausilio di una scala e l’assistenza dei dipendenti, il figlio allontana la scala con un intento plateale e violento contro il padre che perde l’equilibrio e chiama a sua volta la polizia
La Forza pubblica è invocata da entrambi i duellanti a contenimento di una violenza personale marcata da pulsioni omicide. In presenza della polizia i due si ritrovano frontalmente, il padre aggredisce il figlio con un pugno e lo caccia di casa, i poliziotti se ne vanno, dopo aver tentato formalmente di portare pace. Quando rimarrà solo con Ottaviano il padre, in un raptus violento contro chi era stato ostaggio di entrambi, distruggerà, scagliandoli a terra, la play station di lui e il cellulare del fratello, i doni di Babbo Natale.
Se questa sequenza di eventi evoca il ritmo del videogioco, la rottura dell’oggetto chiama in causa bruscamente la realtà, si rompe il guscio protettivo che Ottaviano si era dato cercando di estraniarsi nella sua condizione di ostaggio, ambivalentemente identificato con la violenza del fratello contro il padre e con quella del padre contro la prepotenza del fratello che trattava il suo giocattolo come fosse il proprio. Ora che il padre ha agito il gesto violento contro di lui, Ottaviano è costretto a scegliere il nemico e a rivolgere l’odio contro il padre..
“Non lo perdonerò mai”, dice in una delle prime verbalizzazioni spontanee in seduta.
In tale atmosfera intrisa di violenza non si percepisce la distanza generazionale, si agisce e controagisce allo stesso livello di mancanza assoluta di controllo entrando in contesa per un oggetto simbolico di desiderio su cui tutti accampano diritto.
Quando la madre ritorna, il figlio maggiore ha chiesto asilo a una vicina, Ottaviano riesce a piangere, è pieno di rabbia e di paura, all’indomani ricomincerà la scuola e lui non è preparato. Dalla madre ottiene alleanza e la rassicurazione che potrà andare a scuola il giorno seguente ancora, a patto che utilizzi l’assenza per fare qualche compito. Di questo patto non viene messo al corrente il padre.
Questi, quando all’indomani lo trova dormiente all’ora della sveglia, gli intima di vestirsi e di uscire di casa: ”se non hai fatto i compiti lo giudicherà la maestra, finisci la terza media e poi farai il muratore”.
La madre non testimonia a favore di Ottaviano, lascia fare al padre, tradisce.
E’ la seconda rottura dell’illusione: l’irrompere della realtà intollerabile in uno scenario eccitato e irreale: è qui che obbedendo passivamente, Ottaviano compie attivamente la trasgressione estrema: “Adesso me ne vado”; sale le scale, poi il tonfo.
Molto ci sarebbe da dire sull’immersione nella virtualità, sui suoi effetti anestetizzanti la percezione del reale e sulle condotte tossicomaniche dei suoi fruitori, ma approfondire queste tematiche sarebbe tema per altra sessione.
Qualcosa possiamo dire sul ruolo della madre, invocata come mediatrice nel conflitto nell’illusione che possa funzionare ancora come scudo paraeccitatorio. Quando lei non risponde, disillude, tradisce l’odio ha il sopravvento e Ottaviano decide di agire su di sé la distruzione diretta contro il padre, rompendo Sé come il padre aveva rotto il suo giocattolo, dimostrando di essere padrone della propria morte come il padre aveva dimostrato di essere padrone della play station e della madre.
“O mi ammazzo o l’ammazzo”, Ottaviano attacca il Sé per non uccidere.
Credo che proprio questo scenario sacrificale, presente nel preconscio dei genitori, li abbia condotti a chiedere rapidamente aiuto, consegnandosi senza infingimenti e senza difese alla consultazione e questa sincerità del dolore potrebbe sembrare la spinta che ha condotto Ottaviano in psicoterapia una volta dimesso dall’ospedale.
A ben vedere, sembra piuttosto che l’agito del figlio abbia condotto loro su un percorso di presa di coscienza e di richiesta d’aiuto che, a distanza di tempo, ha prodotto quel cambiamento che il gesto violento aveva imposto.
Contesto terapeutico
L’intervento di crisi è rivolto dapprima alla coppia, nel momento in cui Ottaviano è ospedalizzato e in cui tutta la famiglia è emotivamente travolta dal trauma, colpevolizzata e incapace di elaborare l’accaduto.
Il primogenito, protagonista attivo dell’evento scatenante, non è ancora rientrato in famiglia. L’ultimo incontro col padre è stato al Pronto Soccorso, dove ha aggredito verbalmente il padre in una situazione plateale mortificante di marca proiettiva. La sorella di 6 anni ha visto Ottaviano steso a terra nel sangue e ha portato la notizia a scuola e alle sorelline più piccole. La madre dichiara che il giorno stesso della disgrazia sarebbe uscita di casa per chiedere aiuto, essendo la situazione conflittuale in famiglia divenuta insostenibile, ma Ottaviano l’ha preceduta con un tonfo di cui non riesce a estinguersi l’eco.
Al primo incontro con la coppia vengo investita da un’ondata di piena di emozioni, angosce, terrore e di autentico dolore. Raccontano senza accusarsi, assumendosi responsabilità intollerabili, il padre, soprattutto, la responsabilità della propria aggressività che frequentemente esita in agiti violenti.
La madre non si perdona di non essersi contrapposta al marito per proteggere il figlio e tener fede al patto fatto con lui.
Entrambi si definiscono incapaci di gestire la complessità dei bisogni di tutti i membri della famiglia, i propri compresi, così occupati come sono a costruire il benessere economico, sfinendosi di lavoro, l’unica cosa che riesce loro bene, l’unico modo noto per riparare il disturbo della relazione.
La terapeuta ascolta, funzionando come una diga che contiene, impedendo l’esondazione.
Propongo incontri ravvicinati, bisettimanali, ai quali verranno, nonostante gli impegni, nelle due settimane che separano dalle dimissioni del ragazzo.
In questo periodo vedo il fratello maggiore che mi viene descritto agitato, insonne, incapace di ricucire il rapporto con il padre che peraltro pretende da lui scuse formali di fronte ai testimoni degli insulti. Lo invio ad un collega psichiatra che attraverso l’offerta farmacologica possa agganciarlo per una psicoterapia.
Anche da lui ascolto la ricostruzione dei fatti che gli permette una breve, parziale elaborazione.
Per la sorella minore propongo e prendo contatto con i servizi territoriali affinché anche lei possa avere una risposta al proprio bisogno di elaborare.
Alle dimissioni del ragazzo, la psichiatra chiamata per la visita prende contatto con me e assieme concordiamo che sia lei a prescrivere la psicoterapia.
Ottaviano viene dimesso dopo 15 giorni di ricovero in Neurologia con la diagnosi di disforia, prescrizione di farmaci ansiolitici da assumere secondo necessità, la prognosi ortopedica è in termini di mesi, dovrà portare un corsetto notte e giorno. Ottaviano risulta debilitato, ha perso il 50% di sangue e 10 Kg di peso.
Quando lo vedo per la prima volta mi trovo di fronte un ragazzo danneggiato che dimostra più dei suoi 12 anni. Si muove a fatica, il busto è irrigidito dentro il corsetto, i capelli sono rasati, sul cuoio capelluto evidenti i segni di lesione. L’occhio sinistro testimonia il riassobimento lento dell’emoraggia, lo sguardo è fisso ma intenso, spalle e collo sono contratti. Del dolore di questa contrattura si lamenterà a lungo e a ragione, essendo sfuggita alla valutazione diagnostica una frattura all’epistrofeo, calcificatasi scorrettamente. Errore diagnostico che esiterà in un nuovo ricovero e in un corsetto ancora più paralizzante che fascerà anche la nuca fino al mese di giugno.
Nella prima seduta Ottaviano, pur affermando che “ ora va tutto bene e in casa non si litiga più“, non tenterà di banalizzare il proprio tentato suicidio ma lo chiamerà il “volo“ quasi ad ingentilire il gesto, liberandolo del suo contenuto violento, e si illuminerà di un sorriso, quasi guardasse a se stesso da un’altra distanza, con tenerezza e compassione, alla mia restituzione sul volo di un uccellino che decide di abbandonare il nido prima del suo tempo, quando non ha ancora imparato a volare.
Alla metafora del volo dell’uccellino tornerà sempre nei momenti di crisi che hanno accompagnato la lenta e accidentata convalescenza e riabilitazione, quando tornerà più volte a minacciare di ripetere il gesto, quando andrà con il padre a visitare la finestra del volo, quando farà “volare come un uccellino“ dalla stessa finestra la bambola e, in altra occasione, l’orsacchiotto della sorella.
Tentativi di elaborazione agita su oggetti inanimati, ai quali veniva restituito senso nella seduta e che produrranno il sogno di un volo dall’esito infausto, sempre dalla stessa finestra, un volo accidentale, non voluto, sensoriale: “Sentivo l’aria sulla faccia, sentivo di cadere e ho avuto paura ”. Finalmente.
La presa in carico congiunta di Ottaviano e dei suoi genitori, scelta obbligata dall’acuità dell’emergenza traumatica, ha richiesto un aggiustamento in termini di contratto. Avrei ridotto gli incontri con i genitori a una volta la settimana, considerando chiusa la fase del pronto soccorso e avrei mantenuto tale scadenza per il tempo necessario a raccogliere l’anamnesi personale e familiare, poi avremmo ridotto la frequenza, mentre avrei preso in carico Ottaviano, riservandomi di valutare il ritmo delle sedute lungo il percorso.
La presa in carico del ragazzo e dei suoi genitori è risultata nel tempo la risposta più idonea a permettere di coniugare il contesto naturale a quello terapeutico. La terapeuta si è lasciata utilizzare come filo di sutura di lacerazioni antiche, i cui margini dovevano essere riavvicinati per permettere la sopravvivenza e la circolazione degli affetti e, a partire da qui, per sostenere un percorso di separazione e individuazione che poteva non solo essere tollerato ma desiderato.
Attraverso l'utilizzo della terapeuta come ponte di comunicazione, i protagonisti hanno appreso a comunicare affettivamente, sempre più liberi da paralizzanti sentimenti di colpevolezza e alleggeriti da ricatti emotivi.
Quando Ottaviano ha espresso, dopo un anno e mezzo di trattamento, la volontà di terminare la psicoterapia, ottenendo dalla terapeuta l'incoraggiamento al nascente desiderio di autonomia, i genitori si sono sentiti liberi di proseguire il loro percorso terapeutico, nell'intento verbalizzato di fare "un investimento sul futuro" per diventare genitori migliori per ciascuno dei figli, dei quali riconoscevano specificità, differenze e bisogni cui rispondevano in maniera differenziata.
A quattro anni dall'agito suicidario, Ottaviano sembra reinsediato in un processo adolescenziale, nella costruzione di un'identità che va definendosi anche in relazione a realistici progetti futuri. La madre sta concludendo il proprio percorso psicoterapico individuale. Il padre, nel difficile cammino di riappropriazione di un ruolo affettivo e autorevole, bonificato da agiti violenti è transitato da un momento di crisi depressiva con fantasie suicidarie, e non ha esitato, nel riacutizzarsi della crisi personale, a chiedere nuovamente aiuto, sostenuto dalla moglie, a chi lo aveva soccorso al momento del trauma.
Dopo alcuni mesi di lavoro comune, la coppia sembra avere ritrovato un equilibrio e un inedito piacere ad occuparsi reciprocamente di sè e dei figli, con un ascolto attento alle bambine che li stanno confrontando con nuove sfide non più vissute come paralizzanti.

Riassunto
Quando i genitori di Ottaviano chiedono aiuto sono passati quattro giorni da quello che lui, in seguito, chiamerà "il volo", metafora gentile per indicare la propria defenestrazione dal terzo piano. Ottaviano ha 12 anni, ed è determinato a morire per non essere costretto ad uccidere, sugli eventi scatenanti l'agito si muove, senza possibilità di contenimento, la fantasia parricida.
L'intervento di crisi è rivolto dapprima alla coppia genitoriale, nel momento in cui il figlio è ancora ospedalizzato e in cui tutta la famiglia è emotivamente travolta dal trauma, colpevolizzata e incapace di elaborare l'accaduto.
Ottaviano è secondogenito di cinque figli, il primogenito maschio di 16 anni è stato attivo protagonista, assieme al padre, dell'evento scatenante il progetto suicidario del fratello, la terzogenita di 6 anni ha visto il corpo del fratello riverso sull'asfalto e alle gemelline di 2 anni e mezzo ha comunicato confusamente che Ottaviano si era buttato. La madre dichiara che quel giorno stesso sarebbe uscita di casa per chiedere aiuto, perché la conflittualità familiare si era fatta insostenibile, Ottaviano l'ha preceduta con un tonfo sordo di cui non si riesce a estinguere l'eco.
La tempestiva richiesta di aiuto dei genitori, che si consegnano indifesi alla consultazione, potrebbe sembrare la spinta che ha condotto Ottaviano in psicoterapia una volta dimesso dall'ospedale. A giudicare da come sono andate le cose sembra piuttosto che il suo agito abbia condotto genitori su un percorso di presa di coscienza e di richiesta di aiuto .
La presa in carico congiunta di Ottaviano e dei suoi genitori, scelta obbligata dall'acuità dell'emergenza traumatica e dalla non percorribilità di alternative, è risultata nel tempo vincente rispetto alla rimessa in circolo degli affetti, alla possibilità di nominarli e elaborarli e ha condotto alla maturazione, nella madre, della scelta di un proprio percorso terapeutico presso una collega.
Attraverso l'utilizzo della terapeuta come ponte di comunicazione, i protagonisti hanno appreso a comunicare affettivamente, sempre più liberi da paralizzanti sentimenti di colpevolezza e alleggeriti da ricatti emotivi.
Quando Ottaviano ha espresso, dopo un anno e mezzo di trattamento, la volontà di terminare la psicoterapia, ottenendo dalla terapeuta l'incoraggiamento al nascente desiderio di autonomia, i genitori si sono sentiti liberi di proseguire il loro percorso terapeutico, nell'intento verbalizzato di fare "un investimento sul futuro" per diventare genitori migliori per ciascuno dei figli, dei quali riconoscevano specificità, differenze e bisogni cui rispondevano in maniera differenziata.
A quattro anni dall'agito suicidario, Ottaviano sembra reinsediato in un processo adolescenziale nella costruzione di un'identità che va definendosi anche in relazione a realistici progetti futuri. La madre sta concludendo il proprio percorso psicoterapico individuale. Il padre, nel difficile cammino di riappropriazione di un ruolo affettivo e autorevole, bonificato da agiti violenti è transitato da un momento di crisi depressiva con fantasie suicidarie, non ha esitato a chiedere nuovamente aiuto , accompagnato dalla moglie, a chi lo aveva soccorso al momento del trauma.
Dopo alcuni mesi di lavoro comune, la coppia sembra avere ritrovato un equilibrio e un inedito piacere ad occuparsi reciprocamente di sé e dei figli, con un ascolto attento alle bambine che li stanno confrontando con nuove sfide, non più vissute come paralizzanti.


*Psicologa e psicoterapeuta- Area G Milano




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