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Anno III - N° 3 - Settembre 2003

Lavori originali



Quale psicoanalisi in un reparto per adolescenti?*

Mauro Ferrara



Non molto tempo fa la rivista “Adolescence” (2000) ha pubblicato una piccola inchiesta “a proposito di psicoterapie in adolescenza”. Cinque noti psicoanalisti dovevano rispondere in modo sintetico a poche domande, ritenute evidentemente cruciali, rispetto alla loro pratica professionale. Ebbene, al quesito “Che valore date alla psicoterapia nella presa in carico istituzionale di adolescenti?”, tutti, con una sola eccezione, sottolineavano le difficoltà se non l’impossibilità di coniugare i due termini della questione. A. Braconnier concludeva: “…resto dell’idea che un lavoro di psicoterapia psicoanalitica stricto sensu debba farsi se possibile in articolazione, ma comunque in un altro luogo rispetto alla presa in carico istituzionale”.
La posizione di Braconnier, a rigore di termini, appare indiscutibile; l’incertezza sui fattori terapeutici implicati nell’istituzione, per quanto possa dirsi ispirata anche dalla psicoanalisi, è inevitabile. Tuttavia la cosa mi colpì. Ebbi anche il sospetto che non ci sia uno psicoanalista che, messo alle strette, non ridimensioni volentieri il lavoro quasi trentennale, soprattutto della scuola francese, che ha cercato di tenere insieme cura istituzionale e terapia analitica non solo come una necessità resa virtù, ma come un campo fruttuoso di ricerca e di sperimentazione. Un lavoro che ha prodotto il meglio di sé, forse, proprio in tema di adolescenza.
In effetti molte delle teorizzazioni a cui facciamo riferimento prendono le mosse dal lavoro proprio con gli adolescenti “gravi” negli ospedali e nelle comunità.

Un elemento che tendiamo a dimenticare a questo proposito è che “istituzione” è un termine troppo generico, e che ai diversi modelli corrispondono diversi luoghi umani dove la cura si articola: un ospedale di giorno non è una struttura
residenziale, e l’ospedale vero e proprio è forse l’istituzione più complessa e meno controllabile, e certamente la più condizionata da fattori extraclinici.
Da almeno uno di questi modelli continuiamo, tutti, ad attingere a piene mani: mi riferisco all’istituzione descritta da Raymond Cahn come “…uno spazio di cure fatto di elementi empirici, di circostanze, di interrelazioni complesse che si intrecciano a partire da un’infinità di compiti, di azioni, di parole, di emozioni
e di vissuti (…) in essa contrariamente al modello di cura fondato sulle rappresentazioni o sul processo associativo (…) il cambiamento passa attraverso l’oggetto esterno considerato non solo nelle sue funzioni classiche (identificazioni) ma nelle funzioni di oggetto trasformativo (…)”. (Cahn,1987)
Questo modello ha avuto il merito di rivitalizzare il concetto di quotidianità ampiamente utilizzato nella riabilitazione con gli psicotici adulti grazie al formidabile valore aggiunto della metafora winnicottiana di spazio transizionale, che diventa metafora dello spazio terapeutico istituzionale.
Non solo la pretesa, quindi, di ricondurre nell’ambito della psicoanalisi certe aree dell’esperienza umana di ogni giorno e indirizzarle a fini terapeutici, ma di farlo per il tramite dell’uso dell’oggetto e delle mediazioni che è in grado di proporre.
A questo modello si sono appoggiate anche diverse esperienze italiane di questi anni. Su questa linea erano i lavori presentati in diverse occasioni con i colleghi dell’Unità Adolescenza di Via dei Sabelli (Ferrara, Monniello, Sabatello 1995; Ferrara, Monniello, Sabatello 2001; Ferrara, Carratelli
2001). L’accento poteva essere di volta in volta sulle attività di mediazione culturale come sostegno al funzionamento mentale, sul ruolo del gruppo istituzionale, sulla ripresa delle capacità
autonarrative azzerate dalla crisi ecc…Quello che voglio dire, è che il modello dell’istituzione “alla Raymond Cahn” ha una coerenza e vitalità tali da resistere anche nella navigazione avventurosa del lavoro in ospedale con gli adolescenti in crisi psicotica, spinto com’è da venti contrari impetuosi. Ricordo solo due fatti, che sono sotto gli occhi di tutti: la pressione costante da parte
degli amministratori a una “produttività” sanitaria che interferisce pesantemente con le condizioni e i tempi dell’accoglienza che tentiamo di costruire e mantenere; l’aggressività crescente con cui l’approccio biologico si va impadronendo anche del campo della psichiatria dell’adolescente (fino a pochi anni fa, era frequente dover affrontare in reparto i guasti di terapie psicoanalitiche troppo indulgenti o attendiste verso la malattia mentale. Ora capita molto più spesso di dover mettere mano ai danni provocati da cure farmacologiche troppo aggressive e premature…).
Avendo in mente questo scenario - che contiene elementi di novità preoccupanti - e queste riflessioni, la questione, sulla scia di quella proposta da “Adolescence”, era più o meno la seguente: che ruolo può avere la psicoanalisi in tutto questo, ossia nell’ospedale per adolescenti?

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Vorrei partire da un piccolo frammento clinico, che risale a poche settimane fa: una sedicenne con una lunga storia di comportamenti ossessivi, iniziata intorno ai nove anni e proseguita attraverso riaccensioni periodiche e virulente, che non le impediscono di mantenere un curriculum scolastico brillante. Una prima consultazione diagnostica all’esordio della sintomatologia aveva portato a consigliare una psicoterapia a orientamento analitico, che la nostra sedicenne aveva accettato senza tentennamenti fino al momento attuale.
All’inizio di Agosto parte per una di quelle tipiche, diffusissime vacanze studio che sempre più spesso ritroviamo all’avvio di imprevedibili breakdown. Per
lei, tuttavia, non è la prima volta, e nelle estati passate tutto è filato liscio in contesti simili. Stavolta alla partenza c’è però la sensazione che “qualcosa le
accadrà”. Una serie di piccoli incidenti nei primi giorni, come ricostruiremo insieme, le provocano una sensazione di abbandono e di catastrofe imminente; l’atmosfera eccitata e mediamente promiscua del college le risulta intollerabile e disgustosa. In meno di tre giorni precipita in uno stato di grave scompenso caratterizzato da condotte autolesive con un chiarissimo significato espiatorio, e da una marcata disorganizzazione del pensiero. I genitori riescono ad approntare un rapido ritorno in Italia e può così essere ricoverata d’urgenza.
La conosco, appena tornato dalle ferie, quando è già in condizioni cliniche migliori, anche se si trascina in uno stato di perplessità e di apparente dissociazione accompagnato da rituali invasivi e dolorosi. Mi impone, letteralmente, di “darle un colloquio al giorno”, cosa che esula completamente dalle mie abitudini e dalle mie possibilità.
Dopo pochi giorni di lavoro insieme, durante i quali ho modo di sentire per telefono la sua terapeuta, che mi sembra competente e anche emotivamente in contatto con la paziente, mi consegna questo sogno:
“Sono in un letto che non è il mio. E’ un letto di spine. Provo quasi dolore per il bisogno di fare pipì, ma non posso andare in bagno perché ad ogni movimento le spine mi trafiggono. Sopra il letto, su di una mensola, una statuetta della Madonna; ho la sensazione che mi guardi e mi giudichi cattiva”.
Me lo riferisce come un sogno infantile ricorrente, che la tormentò nel periodo in cui comparvero i primi rituali. Non capisce, soprattutto, come abbia potuto non venirle in mente durante tanti anni di terapia. Le sembra importante ed è
certa che la sua dottoressa avrebbe potuto aiutarla di più se fosse stata a conoscenza del sogno.
A me sembra di avere a disposizione un intero repertorio di possibili interpretazioni selvagge. Selvagge non tanto per il fatto di non essere il suo
“vero” terapeuta, quanto per essermi necessariamente oscura la dinamica transferale che si è attivata, in presenza certo di un investimento massiccio e di un setting fin dall’inizio fortemente ritualizzato dalla paziente. Mi astengo dall’interpretarle in alcun modo il sogno, limitandomi a segnalarle l’impressione che ricordare questo sogno lontano possa inaugurare un modo nuovo di guardare al suo passato infantile, una sorta di “nuovo inizio”. Tuttavia, in uno degli ultimi incontri prima della dimissione, è la paziente stessa a proporre l’associazione tra il sogno e le sensazioni sperimentate nei primi giorni di vacanza al college: estraneità, disgusto, paralisi. Ne riparlerà con la sua terapeuta.


Situazioni di questo tipo non sono eccezionali. Direi anzi che sono frequenti, almeno quanto l’altra tipologia di adolescente che abbiamo descritto in alcuni lavori degli anni passati: mi riferisco al paziente che anziché aggrapparsi famelicamente al rapporto uno a uno, come la ragazza di cui ho accennato qui, sembra evitare l’ascolto e preferisce “inondare” l’intero spazio istituzionale mettendo freneticamente in circolo fantasie, ricordi, sogni e desideri che sollecitano tutto il gruppo ad assumersi una sorta di funzione di coscienza integrativa .
Da quasi tutti gli adolescenti che passano in Reparto si ricavano tuttavia impressioni comuni:
nella crisi psicotica adolescenziale, ma forse nel pensiero psicotico in genere, incontriamo una così brutale trasparenza di contenuti che l’ispirazione analitica dell’istituzione che ne viene coinvolta si manifesta molto più esercitando funzioni di filtro, di selezione degli stimoli che non funzioni di decodifica. Si tratta senz’altro di un vecchio adagio, ma conviene ripeterlo, per evitare certe derive che in genere si consumano a danno dei pazienti;
la condizione di sovraccarico, di affollamento di stimoli interni ed esterni che vivono questi pazienti costituisce in ogni caso una condizione traumatica attuale in cui la posta in gioco sembra sempre la stessa, almeno nel breve periodo:
“organizzare il caos senza rinunciare alla spinta vitale della pulsione” (Novelletto,1995 );
l’istituzione, in questo caso l’ospedale, viene in primo luogo chiamata in causa come potente e necessariamente rigido organizzatore delle coordinate spazio-temporali dell’individuo. Da questa funzione di base, prioritaria, le vicende successive dell’intervento sulla crisi possono dipanarsi verso due strade, complementari nella migliore delle ipotesi. L’utilizzo dell’insieme delle attività strutturanti e di quelle più informali come mediazioni rispetto a un processo di simbolizzazione, interrotto o bloccato, è la prima strada possibile. E’ scontato che non tutto il quotidiano può essere transizionale, nel senso di Cahn: occorre quanto meno che negli spazi formalizzati di discussione e sintesi in equipe circoli pensiero, e che sulla qualità delle risorse disponibili si investa con continuità;
può anche accadere che una relazione segreta e privilegiata venga ricercata anziché evitata, come nell’adolescente che ho presentato. In questi casi ho l’impressione che bisogna lasciarsi usare, anzi sfruttare, per quanto possibile, dal paziente. Credo sia molto pertinente a questi adolescenti la modalità di raffigurazione descritta da Jeammet come la meno matura tra quelle grazie alle quali è comunque possibile far emergere un processo psicoanalitico: è “..l’oggetto percepito come controinvestimento di una realtà interna intollerabile e allo stesso tempo come mezzo di raffigurazione di detta realtà” (Jeammet,2001). Il passaggio in istituzione viene vissuto con una smania da “tutto e subito”, quasi fossero alla ricerca del proprio trauma. La dipendenza rispetto al terapeuta che possono incontrare anche in ospedale al momento della crisi è totale ed ha una qualità più sensoriale che affettiva (“Bisogna vedersi tutti i giorni”). Ma si tratta comunque di incontri preziosi, e di occasioni da non lasciarsi sfuggire.

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Vorrei ora tornare alla domanda iniziale (“Quale ruolo può avere la psicoanalisi nell’ospedale per adolescenti?”) cercando di precisare il mio punto di vista.
L’incontro tra clinica istituzionale e teoria psicoanalitica dell’adolescenza ha prodotto almeno un modello forte, coerente e duraturo a cui più volte mi sono riferito in questa presentazione. Questo modello non ha esaurito la sua spinta innovativa e dobbiamo continuare a farvi riferimento, anzi a sperimentarlo in
contesti diversi per arricchirlo. Ho accennato al rischio di farne abuso, perdendo per strada la specificità del lavoro nelle diverse istituzioni che hanno tempi, risorse e condizionamenti differenti. In ospedale, mi è capitato più volte di pensare come attraverso il ricorso alla teoria dell’“istituzione transizionale”, alla francese, cercassimo a volte di conferire una patente di “nobiltà psicoanalitica” a pratiche che avevano più a che fare col perseguire una qualità decente dell’assistenza, o magari con la semplice buona educazione. Una patente tra l’altro del tutto superflua, visto che il miglioramento dell’ambiente umano che dovrebbe accogliere una persona sofferente è obiettivo già abbastanza nobile di per sé. Non dimentichiamoci che oggi più che mai lo scarto tra i bisogni di un’adolescente in crisi e le risposte date dalle istituzioni può essere drammatico.
La psicoanalisi, per stringere sul tema del Simposio di oggi, resta soprattutto la più completa teoria di cui disponiamo sul potenziale trasformativo insito nell’incontro tra due esseri umani. Nella pratica quotidiana in reparto, personalmente tendo a riferirmi ad essa in un senso non troppo specifico: un limite a cui tendere, o un vettore del lavoro clinico più che uno strumento definito. Anche come un necessario contrappeso a quella specie di iperrealismo diagnostico che spinge a formulare in termini di disturbo mentale ogni passaggio critico dell’esistenza, e non solo rispetto agli adolescenti.

A proposito di adolescenti e di certi incontri effimeri ma significativi che si fanno in ospedale, ho cercato di illustrare come accanto all’assistenza necessaria e alle mediazioni possibili, sia spesso alla nostra portata una relazione individuale che tenga il filo della relazione tra il soggetto e i suoi oggetti interni e rilanci un lavorio fantasmatico sopraffatto o bloccato. In un’ottica di servizio, direi: al Sé del paziente, a una futura psicoterapia possibile e anche al servizio della nostra professione, nella convinzione che ciò che abbiamo da imparare dalla cura di adolescenti in ospedale aiuti a capire la patologia degli adolescenti in generale.

* Questo lavoro è stato presentato al V Convegno Nazionale di Psicoterapia dell’Adolescenza - Psicoanalisi e Psicoterapia: “L’adolescente tra contesti naturali e contesti terapeutici” , Firenze, Convitto della Calza, 18-19 ottobre 2002.


Riassunto

Gli sviluppi della teoria psicoanalitica che hanno portato negli ultimi decenni alla
costruzioni di modelli dell’adolescenza sono emersi spesso da esperienze di clinica istituzionale con adolescenti gravemente disturbati. Tra questi modelli, quello proposto nel tempo da R. Cahn ha avuto una grande influenza anche nel nostro paese.
Partendo da alcune riflessioni cliniche suggerite dall’incontro con pazienti in Ospedale, l’Aa. si propone di sottolineare il valore ancora insostituibile della teoria psicoanalitica come teoria della relazione anche con l’adolescente in crisi psicotica, valore che rischia di essere trascurata se si sposta troppo l’accento sulle applicazioni psicoanalitiche al campo istituzionale, al gruppo di lavoro, alle attività riabilitative ecc..


Bibliografia

“ A propos de la psychothérapie à l’adolescence”. Adolescence, 2000, 18, 1, 297-301.
Cahn R. (1987), “Spazio transizionale e istituzione terapeutica”. In: Adolescenza terminata, adolescenza interminabile, Borla ed., Roma.

Ferrara M., Monniello G., Sabatello U. (1995),
“Adolescenza, psicopatologia e cura istituzionale”. Psichiatria dell’Infanzia e dell’ Adolescenza, 62, 6.
Ferrara M., Monniello G., Sabatello U. (2001),
“L’adolescente borderline in istituzione: ospedale diurno e reparto degenza”. In: “I disturbi di personalità in adolescenza”, F. Angeli ed., Milano.

Ferrara M., Carratelli T.J. (2001),
“L’intervento di emergenza in psichiatria dell’adolescenza. Il primo episodio psicotico: un crocevia della clinica istituzionale”. Psichiatria dell’ Infanzia e dell’Adolescenza.,68,141-149.

Jeammet Ph. (2001) “L’oggetto percepito, l’acted-out e la rappresentazione nel processo psicoanalitico”. Presentato presso il Dip. Sc. Neurol. Psich. Età Evol., Marzo 2001.

Novelletto A. (1995) “Trauma interno e trauma esterno. Un approccio psicoanalitico”. Presentato al IV Congresso Internazionale ISAP- Atene, Luglio 1995.





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