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Anno III - N° 2 - Maggio 2003

Adolescenti e istituzioni




Sieropositività e adolescenza: un incontro difficile

Maria Teresa Heusch e Emilio Masina



Presentiamo qui la primissima fase di una consulenza svolta dalla nostra cooperativa (1) per l'associazione "Arché" la quale si occupa del sostegno a bambini e adolescenti sieropositivi e alle loro famiglie.
La domanda di "Arché"
L'associazione si era rivolta alla cooperativa per rispondere alla richiesta di alcuni adolescenti sieropositivi di effettuare una psicoterapia.
Questa domanda ne ha sollecitate in noi delle altre:
- Vi è un legame tra la richiesta di psicoterapia rivolta dagli adolescenti ad "Arché" e la domanda dell'associazione a "Rifornimento in volo"?
- In che misura la condizione di disagio espressa dai ragazzi rappresenta il disagio degli operatori di "Arché"?
- In che cosa lo stato di sieropositivit&Mac246; di questi adolescenti modifica il fisiologico percorso di sviluppo dell'adolescente?
Abbiamo dunque deciso di effettuare l'accoglimento di due adolescenti inviati da "Arché" e di svolgere contemporaneamente un ciclo di incontri con gli operatori dell'associazione per discutere sia il senso della loro domanda di intervento che l'andamento degli accoglimenti da noi effettuati.
Gli incontri con Arché
Lo scopo dei nostri incontri è stato innanzi tutto quello di favorire la conoscenza reciproca e stabilire un ponte tra i nostri diversi modi di essere e di vedere le cose, tra le rispettive culture, competenze, esperienze: appunto sieropositività e adolescenza. Tempi e spazi di riflessione comune sono serviti a capire meglio ruoli e funzioni organizzative dell'associazione, ad evidenziarne i punti di forza e le criticità, a riflettere sul significato che assume per gli stessi operatori la rivelazione della sieropositività su un versante e l'invio dei ragazzi ad una struttura esterna per una psicoterapia sull'altro.
Una prima questione riguarda l'evoluzione positiva della terapia farmacologica contro l'infezione da HIV che ha radicalmente trasformato l'obiettivo della presa in carico dei bambini sieropositivi e delle loro famiglie centrato sull'aiuto concreto e sul sostegno rispetto ad un susseguirsi di malattie che portava inevitabilmente alla morte prima dell'avvento della pubertà. Oggi, sorprendendo lo stesso mondo medico, i ragazzi hanno superato questa soglia critica e sono diventati adolescenti. La presa in carico dei ragazzi e delle famiglie da parte di "Arché" ha subìto un capovolgimento e in primo piano si sono evidenziate tutte le difficoltà connesse al vivere la vita, innanzi tutto quella di crescere sapendo di essere sieropositivi.
Questi ragazzi dunque non sono mai stati immaginati in un futuro. Fin dalla nascita sono stati associati alla malattia e alla morte. L'essere nati sieropositivi li ha confinati in un luogo senza uscita, e ha privato le persone che li hanno cresciuti della possibilità di pensarli proiettati in un avvenire.
Una seconda questione è centrata sulla delicatezza della comunicazione della diagnosi di sieropositività nel corso dell'adolescenza. Questa comunicazione, che viene data dalle famiglie, preparate dagli operatori dell'associazione è stata spesso sollecitata dai ragazzi stessi, anche a causa degli interrogativi sollevati dalle terapie "invasive" cui devono sottomettersi anche in assenza di sintomi.
Ci è parso, per quel che riguarda l'associazione, che il punto cruciale su cui sembra necessario soffermarsi con un lavoro di costante approfondimento sia proprio il passaggio - avvenuto di fatto prima di essere ipotizzato - dall'assistere bambini malati, predestinati, al prendersi cura di adolescenti in difficoltà, da accompagnare nel percorso verso l'età adulta. Questo passaggio ha posto il problema del cambiamento dei modelli teorico operativi da usare con l'adolescente, diversi da quelli idonei alla presa in carico del bambino.
Attualmente "Arché" segue circa quaranta adolescenti: un gruppo piuttosto turbolento che mette in discussione qualsiasi iniziativa dell'associazione con un comportamento del tipo "mordi e fuggi". Alcuni dei ragazzi hanno cominciato a commettere atti antisociali, come quello di rubare all'interno degli ospedali dove vengono periodicamente ricoverati per accertamenti. Altri fanno uso di stupefacenti.
L'accoglimento degli adolescenti
1) Angelo, 17 anni, ha chiesto una terapia "forte". Puntuale, gentile, rimane in attesa delle nostre domande a cui risponde educatamente e brevemente. Descrive la sua solitudine. Abita in una stanza insieme a sua madre e litigano spesso. I suoi genitori erano divorziati. Quando aveva 9 anni suo padre è morto per un incidente ma a lui hanno detto che era partito, che era andato in America. Si ricorda di aver pensato: "Poteva portare anche me!". L'ha saputo dopo tanti mesi; ancora adesso è molto arrabbiato con la nonna che non l'ha fatto andare al funerale. La nonna non telefona mai, sua madre è l'unico punto di riferimento. Ha un fratello grande, che la madre ha avuto a 16 anni, ma non si vedono quasi mai. Accenna con rimpianto ad un campeggio di Arché durante il quale ha conosciuto una ragazza spagnola. Si sono scritti per un pò, ma poi la lontananza. Ora a S.Valentino è solo. Il suo amico Luca la ragazza ce l'ha! Gli piacerebbe avere una casa, una moglie, dei figli, fare il lavoro dell'animatore di bambini, per il resto non sa, è abituato ad essere descritto dagli altri. Angelo lascia a noi l'iniziativa della domanda e chiude la risposta con un "Eee basta!". Anche quando parla di sentimenti abbiamo la sensazione di parole che galleggiano senza essere ancorate e che non ci si possa soffermare a pensare insieme. Parla con foga della madre che gli sta sempre addosso, della difficoltà di convivere con lei per la sua instabilità e i suoi problemi - "Lei sì che avrebbe bisogno di fare una terapia!" - e dice di volersene andare via, forse in una casa-famiglia. Non ne può più di casa sua, si sente come una pentola a pressione: ha avuto il pensiero di buttarsi giù dal terrazzo. Poi cambia tono e dice qualcosa come "Mia madre muore se io me ne vado". Siamo alla fine del colloquio quando Angelo ci esplicita il dilemma che lo tormenta e come si senta a rischio di catastrofi. Ma sembra chiedere una risposta nel reale: parlare del mondo interno è sentito come troppo rischioso.
Il mercoledì successivo lascia un messaggio: non sta bene e non può venire. Lo aspettiamo, inutilmente, il mercoledì seguente.

2) Marco ha 16 anni; la consultazione è stata chiesta congiuntamente dagli operatori dell'associazione e dall'assistente sociale del Tribunale per i Minorenni, presso il quale si sta svolgendo un procedimento penale a carico del ragazzo.
Marco arriva al primo incontro apparentemente mal disposto, esordendo con un "Nun me piace de chiacchierà", ma basta una piccola facilitazione a dare inizio ad un lungo racconto, fatto con slancio e intensa partecipazione emotiva. Racconta della scuola, della sua famiglia, del suo quartiere e infine dell'episodio di violenza che lo ha visto coinvolto e per il quale ha un processo penale in corso. Ripete in diverse forme in tutti i suoi racconti che lui diventa cattivo solo per difendersi: "Io sono buono, non attacco mai per primo ma non mi devono toccare i più deboli, prima di tutto mia madre e i miei fratelli più piccoli". Marco descrive con tenerezza e minuziosità la sua "doppia famiglia", composta dai figli nati dall'unione dei suoi genitori e dalle successive unioni di entrambi con altri partners. Comunica così la morte del padre avvenuta cinque anni fa. Lo descrive tutto in negativo, in contrasto con la bontà della madre, vittima dell'uomo, tossicodipendente, che fino a che hanno vissuto insieme le ha estorto denaro per comprarsi la droga.
A questo punto Marco racconta spontaneamente e dolorosamente l'episodio che lo ha visto coinvolto. Alcuni suoi amici hanno aggredito un ragazzo extracomunitario. Lui non ha preso parte all'aggressione ma quando il ragazzo è rimasto a terra gli ha sottratto dalla tasca il telefono cellulare: "Non so perché l'ho fatto, mentre mi allontanavo con la metro ho cominciato a sentirmi male, in colpa, mi sentivo come se avessi rubato ad un morto, allora ho deciso di tornare indietro a restituirlo, è così che la polizia mi ha preso".
La terapeuta è molto colpita dal racconto, dalla pregnanza simbolica dell'agito di Marco, che avverte come un realizzarsi contemporaneo di una identificazione con il padre e del suo omicidio simbolico da parte del figlio, "rubare a un morto". Perché anche il padre rubava per comprarsi la droga e spesso era in carcere. "Non diventare come tuo padre!" lo aveva ammonito la madre dopo l'episodio. Ma quel non sapere perché avesse commesso l'atto denunciava il suo valore di agito di una fantasia inconscia relativa alla fusione-confusione tra l'aggredire e l'essere aggredito e, forse, l'essere contagiato e il contagiare. E' stato questo l'unico argomento sottaciuto da Marco nel primo colloquio, la sua condizione di sieropositività.
Al secondo colloquio arriva deciso a non continuare gli incontri, per la troppa pressione intorno a lui: "Non è per te che non voglio continuare ma troppe persone mi stanno addosso, devo pensare alla scuola". Solo un canale comunicativo è percorribile, quello di fare con lui la squadratura del foglio necessaria a preparare una tavola da consegnare il giorno dopo a scuola. Si parla della importanza della squadratura del foglio per poter realizzare il quadro e delle sue regole, non così semplici come possono sembrare.
Adolescenza e sieropositività
Pur consapevoli di aver vissuto un'esperienza breve e limitata, vorremmo condividere alcuni pensieri che parole ed eventi di vita di questi ragazzi ci hanno sollecitato.
Ci sembra che i traumi e le perdite che questi ragazzi hanno sofferto fin dalla nascita e che li hanno visti testimoni-vittime di situazioni drammatiche si siano incistati in loro a causa degli interdetti, dei silenzi, delle menzogne del contesto ambientale: un pesante fardello di "conosciuto non pensato". Contrariamente a chi può piangere comunitariamente la morte di un genitore, conservarne il ricordo e la nostalgia dentro e fuori di sè in maniera attiva, a rinforzo della propria identità, questi ragazzi si sono ritrovati soli e spinti a sfuggire l'intensità emozionale dell'evento. Imbarazzi, cancellazioni, menzogne non hanno loro permesso di stare in contatto con ciò che stava avvenendo. Così la perdita non ha potuto essere integrata mentre è rimasta aperta la ferita narcisistica, il bisogno dell'oggetto-sè con la sua carica di dolore-rabbia, sempre pronta a traboccare. Come quella di Angelo contro la nonna, responsabile non solo dell'inganno circa la morte del padre ma anche di non essere stata quella che, continuando ad amarlo e a mantenere il legame con la sua memoria, poteva costituire il polo affettivo terzo necessario per poter prendere le distanze dal legame-prigionia che lo unisce alla madre.
Se la necessità di distanziarsi dai genitori è un'esigenza adolescenziale e dà origine ad un'ansia fisiologica, il dilemma angoscioso che Angelo vive quando immagina di staccarsi dalla madre rimanda alla vulnerabilità, conseguenza dei ripetuti traumi sofferti. La morte, centrale nella vita reale e fantasmatica di Angelo, viene vista come l'unico modo di uscire dall'impasse, cambia solo il soggetto-destinatario: lui stesso se permarrà nel legame fusivo con la madre; la madre se lui oserà distaccarsi. In questi termini polarizzati la questione non è affrontabile col pensiero; può solo essere evacuata. In questo senso possiamo intendere l'apparente contraddizione tra l'urgenza di Angelo di venire a parlare con gli psicologi e l'interruzione precoce dei colloqui.
Diversamente, nella storia di Marco l'agito violento sembra instaurare brutalmente un processo di separazione e segnala la rottura fra un prima - essere bambini, fisicamente impotenti, indifferenziati, immersi nel rapporto fusionale con l'oggetto - e un dopo, in cui il legame di dipendenza entra in conflitto con la spinta adolescenziale verso l'autonomia. Il cellulare rubato e poi riportato ci segnala il bisogno impellente di Marco di uscire all'esterno, definirsi e collocarsi nell'area maschile paterna e, nel contempo, l'angoscia di identificarsi con un padre che rubava ad una madre vittima, molto amata. Così Marco, difensore dei deboli, sembra espiare la colpa paterna dopo essersi trovato a ripeterla senza saperlo.
E' possibile un cambiamento?
Dunque proprio nel momento in cui l'adolescente sta attraversando una zona di sabbie mobili perché vive il sentimento di una rottura-cambiamento nel proprio corpo e nei propri affetti, lo svelamento della sieropositività ridefinisce i fatti del passato e lo immette in un destino di trasmissione di contagio, subìto-trasmesso, proprio ad opera di quella sessualità che gli trasforma il corpo, il pensiero, gli affetti, e che è spinto a sperimentare.
Ad un altro livello, quello della realtà, sono cambiati i termini della questione. Mentre viene rivelata la sieropositività viene detto che vivere oggi è certo - purché con l'aiuto dei farmaci - e quindi bisogna prepararsi il futuro. Anche accedere alla sessualità è permesso, naturalmente con le necessarie precauzioni - forse anche procreare figli sani sarà possibile e allora ci si può preparare ad una vita "normale".
Ci domandiamo cosa significhi, oggi che questi adolescenti sono stati sottratti all'ineluttabilità di un destino di morte, restituire loro, anche in termini psichici, la possibilità della vita.
In questa prospettiva la comunicazione della diagnosi di sieropositività, punto nodale per prendere possesso della propria storia, sembra potersi aprire ad esiti diversi. Il rischio è che possa costituire un punto di arrivo illusorio, attraverso la rivelazione traumatica e passivizzante di una verità in sè, di un'essenza che trascende il soggetto, che può arrestare il processo di soggettivazione, precludere lo spazio psichico offerto dall'adolescenza, e confinare definitivamente l'adolescente nell'esperienza, già sperimentata, dell'autoemarginazione. E' utile ricordare che il non detto e i segreti così a lungo mantenuti all'interno della famiglia sono parte di un più ampio silenzio e di un'esclusione che la società nel suo complesso stende attorno al tabù che circonda l'HIV. Pensiamo peraltro che il percorso che concerne lo svelamento della verità possa costituire un più forte e diretto legame tra coloro che sono coinvolti in queste vicende e che questo legame possa essere un punto di forza per l'adolescente. Poter usufruire dell'appoggio di un contesto relazionale articolato, sicuro e attento sul piano affettivo, di una comunicazione che cerca di essere autentica e sintonica può costituire per l'adolescente sieropositivo un'esperienza di conferma e sostegno al Sè che gli permetta di aprirsi alle trasformazioni e ai conflitti adolescenziali.
Vorremmo concludere con le parole di Marco: "La cornice è fondamentale, altrimenti non si può fare il disegno". Ci sembra alludano al fatto che il processo di soggettivazione può avvenire solo all'interno di un contenitore che lo pensi e lo renda possibile. In altri termini, se il disegno rappresenta la possibilità di approdare al contatto con il proprio Sè, per cominciare a tracciare possibili configurazioni, la squadratura del foglio rappresenta la necessità di usufruire di quei requisiti che ne stanno alla base: ambiente sufficientemente buono, contenimento, reverie, rispecchiamento. Andando oltre ci piace citare Fonagy (1995, in Moccia e Nebbiosi) che sposta l'accento "dall'internalizzazione dell'oggetto contenitore all'internalizzazione di un Sè che si pensa da dentro un oggetto contenitore interno". Anche se abbiamo presente che non stiamo qui parlando di neonati e neppure di una situazione psicoanalitica, riteniamo che in ogni relazione affettivamente consistente per l'adolescente la percezione di ciò che l'altro pensa di lui costituisca una parte importante della sua realtà soggettiva: "Tu credi che io pensi e perciò io esisto come soggetto che pensa" (Moccia e Nebbiosi op.cit.).
Diventa dunque fondamentale guardare all'immagine interna che noi operatori ci siamo fatti di questi adolescenti, della loro storia "predestinata". Il "sono abituato ad essere descritto dagli altri" di Angelo ci sembra abbia a che fare con una identità che non ha potuto che organizzarsi attorno ad eventi reali e fantasmatici legati alla sieropositività. Potremo pensare questi ragazzi diversi dai bambini che sono stati, destinati ad una vita breve e assistita? Saremo capaci di restituire loro l'individualità e di assumere una nuova prospettiva, centrata sulle possibilità e risorse dell'adolescenza, ma anche sulle difficoltà, sui rischi, sui conflitti di questa fase della vita? Riusciremo a creare uno "spazio di incontro", ad individuare un approccio con l'adolescente che non cada nell'infantilizzazione e/o nella precoce autonomizzazione? Saremo in grado di lavorare alla squadratura del foglio?

Riassunto

L'articolo descrive la prima fase di un progetto di intervento richiesto dall'associazione per bambini e adolescenti sieropositivi "Arché" alla cooperativa di aiuto psicologico agli adolescenti "Rifornimento in volo". L'intervento è stato centrato sull'accoglimento di due adolescenti inviati da Arché alla cooperativa per una psicoterapia psicoanalitica e su un ciclo di incontri con gli operatori dell'associazione finalizzato ad effettuare l'analisi della domanda rivolta alla cooperativa e alla discussione dell'andamento degli accoglimenti dei ragazzi.
Dopo un approfondito lavoro di discussione gli operatori di "Arché" e di "Rifornimento in volo" hanno potuto condividere la difficoltà di rispondere alle problematiche evidenziate dall'associazione attraverso l'offerta di una psicoterapia agli adolescenti "difficili". Si è evidenziata piuttosto la necessità di far precedere l'invio e la presa in carico dei ragazzi di "Arché" da un lavoro di chiarificazione con le coordinatrici dell'associazione. Tale lavoro dovrà essere finalizzato a cogliere ed elaborare le criticità del lavoro delle coordinatrici, in particolare quelle connesse con il passaggio dall'assistere bambini sieropositivi al prendersi cura di adolescenti, e a facilitare un' efficace restituzione ai ragazzi seguiti della loro situazione psicologica che possa motivarli ad intraprendere una psicoterapia.

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- Winnicott D.W. (!974), Gioco e Realtà, Roma, Armando

1) Il gruppo di lavoro di "Rifornimento in Volo" era formato da Elena Baratti e M.Teresa Heusch (gruppo con gli operatori) Carla Massoni e M. Chiara Pandolfo (accoglimento adolescenti) Giovanna DAntonio (osservatrice-recorder) Emilio Masina (supervisione). Ha collaborato all'intervento di consulenza la prof. Anna De Luca, responsabile del servizio di psicosomatica, sezione di Ematologia, Università degli Studi di Roma "La Sapienza". Il testo su Angelo è stato scritto dalla dott.ssa M.C. Pandolfo.





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