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Anno III - N° 2 - Maggio 2003

Adolescenti e istituzioni




Io spero che qualcuno mi pensi
Tra angoscia d'intrusione e angoscia di abbandono: è possibile una via d'uscita?

Centro Diurno "al di qua del bordo"
Asl Rm A, Comune Di Roma, Ufficio Scolastico - Regione Lazio
Romana Benevento*, Emanuela Canton**, Massimo de Rysky***, Alessandra Di Vico***, Maurizia Turchi ****



L’assetto organizzativo e mentale del Centro Diurno, fa riferimento ad un quadro teorico-clinico chiaro e al tempo stesso flessibile e sfumato, in maniera da potersi adattare in modo duttile ma contenitivo, al contesto di un’adolescenza attraversata da processi mentali disfunzionali e patologici ed esser capace di modificarsi di pari passo, all’evolversi delle situazioni diversificate di ciascun ragazzo.
Tali caratteristiche, pongono per tutto il gruppo dei “curanti”, la necessità di rinunciare a premesse teoriche rigide, a certezze di ruoli, di tollerare di essere posti ai margini di una pensabilità e, al tempo stesso, richiedono un’attenta e continua modulazione della distanza-vicinanza, una costante disposizione a tollerare diversi tipi di settings, nonché alla ridefinizione degli stessi.
L’assetto organizzativo si delinea così, come uno spazio in continua evoluzione che, partendo dalla concretezza del “fare”, tende a raggiungere livelli più mentalizzabili dell’esperienza di sé.
Si viene dunque a creare la necessità di proporre e sperimentare assieme a questi ragazzi, delle modalità di relazione non rifiutanti, non invischianti, non intrusive e non troppo seduttive, che sappiano misurare e modulare una quota di investimento relazionale “sostenibile”, da parte di soggetti molto spesso già seriamente danneggiati sia sul piano dell’asse narcisistico, che su quello oggettuale e che non tollerando rischi di ulteriori fallimenti, hanno costruito delle difese rigide.
L’obiettivo diventa quello di costruire un “habitat terapeutico”, all’interno del quale ricercare nuovi canali di relazione significativi per i ragazzi, sviluppando così un contenitore di pensiero che permetta di utilizzare una certa capacità di simbolizzazione, ed una maggiore capacità di tolleranza alla separazione.
Le “ragioni della cura”, sono pertanto quelle di un paziente e graduale lavoro, assieme a ciascun ragazzo e a tutto il gruppo degli operatori, per la tessitura di un pensiero-contenitore che consenta di rinegoziare la distanza e la vicinanza, la funzione del limite, del confine, che si pongono come uniche garanzie per lo sviluppo ed il rafforzamento di un’individualità più separata ed autonoma.
La capacità di tollerare di essere posti in crisi, accanto allo sforzo di sviluppare capacità rappresentazionali da parte del gruppo dei “curanti”, sono dunque una funzione delle possibilità di contenimento e di rielaborazione degli agiti e sono, di fatto, in stretto rapporto con la possibilità del gruppo dei “curati” di accedere ad un vissuto più pensato di sé.
Il funzionamento mentale che caratterizza questi ragazzi “difficili”, con disturbo di personalità di vario genere, comporta per le persone che si occupano di loro, la necessità di vivere a stretto contatto con la discontinuità, il rischio di rotture relazionali, di frammentazione e determina l’obiettivo di ricercare nuove e diverse possibilità di porsi in relazione, con sé stessi e con gli altri.
Fornire a questi ragazzi un ”habitat terapeutico”, significa restituire loro l’opportunità di reinvestire, attraverso un’esperienza di relazione modulata e prolungata nel tempo, sulle risorse personali, mettendoli in grado di riallacciare al contempo, relazioni più modulate con l’altro, con l’oggetto.
In effetti, il Centro Diurno con le sue caratteristiche di “spazio intermedio” tra il fare ed il pensare, dispone di un’ampia gamma di relazioni possibili all’interno di un ventaglio di figure professionali diverse, tra educatori, istruttori, assistenti sociali, insegnanti, psicologi e psichiatri che possono offrire per i ragazzi, condizioni di relazione più rispondenti, in quanto anche parziali, con minori implicazioni.
La relazione duale si pone, infatti, in molti di questi casi, o almeno negli stadi iniziali dell’intervento, come una modalità troppo intensa, o sollecitante, in quanto evocatrice delle esperienze di fallimenti nel campo della relazione oggettuale.
Frequentemente qui si incontrano ragazzi in cui l’esperienza di relazione con l’altro, è connotata come esperienza di confusione e perdita di confini, di rifiuto o di abbandono, e comunque ha costituito e costituisce un ostacolo alla costruzione di un’identità separata, con una propria autonomia di funzionamento.
Inoltre siamo tutti consapevoli di come l’uso della parola sia per tali ragazzi, pericolosamente contiguo ai sentimenti, alle emozioni e dunque all’uso di uno strumento quale quello del pensiero e della memoria, che potrebbe essere inficiato o reso insopportabile.
Da tutto questo, si può comprendere come l’etica e l’assetto mentale/ istituzionale del Centro Diurno, siano posti nella necessità di riflettere costantemente su come si articolano tra loro limiti, regole, investimenti oggettuali, salvaguardia narcisistica e senso di coesione di sé.
Il “fare”, rappresentato dalle varie attività di laboratorio che i ragazzi scelgono di praticare al Centro Diurno, svolgono pertanto un’essenziale funzione di mediatore, di tramite e di limite, in quanto permettono di praticare investimenti transferali ed oggettuali “attenuati”, evitando così, il rischio di una sovraesposizione intollerabile.
E’ possibile osservare frequentemente, come il ricorso al cortocircuito degli agiti, e della violenza, serva a ripristinare un equilibrio di conservazione della propria identità messa in pericolo dall’incapacità di gestire e modulare la tensione che si sviluppa tra desiderio dell’oggetto e quindi dipendenza da esso, e paura di esserne fagocitati o rifiutati.
La presenza all’interno del Centro Diurno, di regole e limiti, intesi come funzioni evolutive, forniscono l’opportunità perché esso sia usato, oltre che come spazio fisico, anche come spazio mentale adatto a rimettere in moto i processi evolutivi, favorendo la rinegoziazione degli scambi e degli investimenti relazionali.
Il Centro Diurno inteso in questo senso, come “famiglia istituzionale”, viene a costituire così, una funzione di presenza paterna, di fattore terzo, che favorisce la separazione, in presenza di una conflittualità più sopportabile.
Diventa essenziale che il gruppo dei “curanti” possa assumersi, in modo vicariante e transitorio, la funzione di sintesi e di integrazione tra esperienza concreta ed esperienza pensata, in quanto ciò consente attraverso un modello identificatorio, lo sviluppo ed il sostegno di un’identità separata, condizione questa indispensabile per la costruzione di ogni processo di individuazione e soggettivazione.
L’illustrazione di un ragazzo, le cui caratteristiche dal punto di vista diagnostico, rientrano nel profilo dei disturbi di personalità borderline e del comportamento, può aiutare a capire come, il lavoro effettuato al Centro Diurno, possa plasmarsi su un tipo di intervento psicologico essenzialmente indiretto, fondato sulla capacità di tutti gli operatori di costituire un apparato pensante ausiliario sostitutivo.
Tale apparato mentale, perché funzioni ed operi, necessita del continuo lavoro di ricomposizione, di integrazione e di rielaborazione delle molteplici sfaccettature-immagini, prodotte dagli aspetti transferali e controtransferali che si producono all’interno di tutta la rete delle relazioni messe in atto.
L’arrivo di Mario al Centro Diurno avviene in due tempi: la prima volta conosciamo il ragazzo nel febbraio 2000, all’età di sedici anni e mezzo; egli viene accompagnato dal padre che chiede un suo inserimento, motivato dai comportamenti provocatori e dalle continue liti che rendono impossibile la convivenza con lui.
Mario mostra subito un forte rifiuto per il senso di costrizione in cui i suoi genitori lo pongono, infatti, pur con il supporto e la collaborazione dei Servizi Territoriali di appartenenza, egli riesce a frequentare solo per un paio di giorni, dopodiché, smette di venire. Durante questo breve tempo, mette in atto comportamenti aggressivi ed oppositori nei confronti sia del gruppo dei pari sia degli operatori; diventa impossibile proporgli qualsiasi attività, si sente minacciato e perseguitato ogniqualvolta che ci si rivolge a lui.
Vengono successivamente tentati ulteriori contatti telefonici da parte di un’educatrice, ma visto il suo netto rifiuto, decidiamo di fermarci, comunicando a Mario la nostra intenzione di rispettare la sua scelta. Verremo dopo a conoscenza del fatto che la sua venuta, la prima volta, era stata ottenuta con l’inganno.
Esattamente un anno dopo, rivediamo il ragazzo, questa volta accompagnato dal suo insegnante di sostegno, dell’istituto tecnico che frequenta, e con il quale Mario ha instaurato un buon rapporto, in un clima di reciproca fiducia. L’insegnante riesce a concordare con lui la necessità di frequentare il Centro, al fine di ottenere a scuola un miglior rendimento ed un clima di relazioni più soddisfacente.
Ci sembra significativo il fatto che Mario, in entrambi le occasioni di incontro con noi, sia stato accompagnato da figure maschili adulte, come ad evidenziare la particolare importanza di questo tipo di relazione, ai fini della propria evoluzione.
Mario è terzogenito di quattro figli: la fratria è caratterizzata dal fatto che i primi due fratelli, un maschio ed una femmina, abbiano entrambi una disabilità per cui risultano portatori di handicap, a causa di un’ipoacusia una e di un ritardo mentale lieve l’altro.
Mario sembra avercela con tutti, coi suoi genitori che chiama “bastardi”, a cui attribuisce le colpe di tutti i suoi problemi, con i suoi fratelli perché handicappati; ci dà l’impressione che egli si voglia scagliare contro la sensazione di non essere riconosciuto per quello che è veramente, per quello che vale, e che resti confuso nell’insieme dell’area riguardante l’handicap.
Mario, durante un primo periodo di prova al Centro Diurno, assume atteggiamenti di attacco e di rifiuto, non partecipa alle attività dei laboratori, disturba, provoca, è in atteggiamento di sfida aperta e di protesta un po’ con tutti.
Nonostante ciò, si riesce a coinvolgere il ragazzo facendolo essere parte attiva del suo progetto, delineando un accordo di "impegno programmatico", stabilendo che sia lui a scegliere i giorni di frequenza anche in base alla scelta di attività da svolgere nei laboratori.
La richiesta di Mario di ricevere un supporto per un suo rafforzamento in senso scolastico, la frequenza costante e la partecipazione efficace e meritevole del ragazzo al laboratorio scuola, permette un primo aggancio positivo e consente di mettere a punto una programmazione didattico-cognitiva calibrata sulle sue competenze ed integrata col progetto terapeutico.
Ciò permette a Mario di ridurre la forte resistenza e diffidenza, e gradualmente si instaura un clima di maggior fiducia, collaborazione e "pretesa" di ulteriori attenzioni.
La riattivazione dei processi di apprendimento, sembrano aiutare il ragazzo nel senso di rafforzarne gli aspetti narcisistici in senso cognitivo, permettendogli così di investire con maggior forza e determinazione sulle sue parti sane.
Ma il grande lavoro che Mario richiede a tutto il gruppo degli operatori è quello di fissare i limiti ed il rispetto delle regole, nei rapporti con gli altri, all’interno del Centro Diurno. Molto spesso egli si sente autorizzato ad alzare la voce e ad impartire ordini, prevalentemente nei confronti di chi percepisce come più debole, e che lui apostrofa come "handicappato".
Mario, ci fa sperimentare con i suoi comportamenti, il limite del sentimento del rifiuto, ci fa sentire quanto sia difficile tollerare la sua rabbia e la rabbia che ti suscita; ci si sente costantemente sotto pressione, frustrati per la sensazione di “essere sbagliati” e che a nulla valgano tutti i tentativi di approccio con lui.
Emerge in modo chiaro fin dall'inizio, come sia fondamentale per costruire un aggancio con lui, l'avere la capacità di tollerare i suoi attacchi, essendo fermi senza essere reattivi; questo compito è assai complesso, in quanto richiede un costante lavoro di riconoscimento, elaborazione e contenimento dei vissuti controtransferali di tutti gli operatori.
Il nostro desiderio di prenderci cura di lui è messo a dura prova: ci è difficile controllare l’esasperazione di fronte alle sue manifestazioni di eccessi, pur nella consapevolezza di dover tenere e contenere noi stessi, lui e cercare, allo stesso tempo, di difendere anche gli altri ragazzi dalle sue aggressioni.
E’ assai complicato riuscire a trovare la giusta distanza-vicinanza ed il lavoro di mediazione diventa estenuante, nel continuo gioco di "tira e molla". Di rado, il gioco, le maniere scherzose, sembrano essere i soli possibili canali per entrare in comunicazione con lui.
E’ evidente come tali comportamenti costringano tutti gli operatori, ad un faticoso allenamento di “tenuta” per non cedere alle reazioni impulsive di rottura del rapporto, e di riconoscimento dei sentimenti controtransferali nel sentirsi rifiutati e non riconosciuti nelle proprie identità.
Mario inizialmente respinge qualsiasi tipo di contatto fisico, un solo tocco, da parte sia dei pari sia degli adulti, può scatenare in lui delle reazioni di collera spropositate; il solo sguardo lo fa sentire minacciato, provocando delle reazioni paranoiche che lo pongono immediatamente in conflitto con gli altri, portandolo ad assumere con i suoi comportamenti aggressivi, una “corazza immaginaria”, capace di renderlo immune.
Mario è particolarmente fiero del proprio corpo snello e longilineo, spesso gli piace ballare con la musica e allora si esibisce in danze in cui appare molto agile e coordinato, e ricerca la gratificazione nelle attività sportive.
Egli sostiene che l'energia è in alcuni punti del corpo, e che esso quando viene colpito, "battuto", o quando si ammala, si fortifica. La sua teoria lo porta a credere che la collera deve essere sfogata attraverso lo scontro fisico. In alcuni momenti, inspirando l'aria, gonfia il proprio corpo, e così facendo crede di aumentare la sua energia e la sua potenza, in tutto ciò forse, influenzato da certi cartoni animati che hanno come protagonisti dei guerrieri dotati di poteri straordinari.
Particolarmente ispirato ad uno di loro, si è tagliato i capelli come lui, affermando che in questo modo i capelli sono simbolo di forza e potenza.
Mario dimostra di avere una paura ossessiva di aumentare di peso; questo lo pone in un rapporto particolare con il cibo, lo porta ad essere selettivo nella scelta degli alimenti e ad avere al riguardo delle teorie specifiche per non ingrassare, come ad esempio il bere coca-cola dopo un pasto abbondante, gli permette di bruciare i grassi.
I suoi comportamenti assumono in certe circostanze, forme maniacali e coattive, egli sembra potersi mettere in relazione con gli altri solo con modalità improntate a fare scherzi, finalizzate ad incutere paura o ad imprimere una certa distanza: ad esempio Mario prova grande soddisfazione nell’apparire all’improvviso davanti o alle spalle facendo un forte rumore, oppure si rivolge alle persone apostrofandole con battute provocatorie e scurrili, quando per al mattino annuncia il suo arrivo al Centro Diurno, la suonata di campanello è lunga e ripetuta, si potrebbe dire inconfondibile.
In qualche rara occasione, Mario non è riuscito a controllare la sua rabbia, arrivando ad agiti violenti con operatori di sesso femminile. In questi momenti, oltre che da timore o collera, si è presi da un forte senso di impotenza.
Il continuo ricorso ad agiti di tipo aggressivo violento ed oppositorio, sono pertanto l’espressione di come Mario sia costantemente impegnato a ribaltare la minaccia per la conservazione della propria identità, determinata dal pericoloso prevalere del bisogno di dipendenza che infrange il suo senso di identità e di esistenza autonoma.
Diventa allora fondamentale per il gruppo dei curanti, riuscire a tollerare i tempi per una lenta costruzione di relazioni alternative con Mario, che richiede un costante e paziente lavoro di integrazione all’interno di ciascun operatore e tra tutti gli operatori stessi, per mantenere il senso di coesione ma, al tempo stesso anche quello del limite.
Il nodo da sciogliere sembra pertanto quello di favorire un varco in una strada apparentemente senza sbocco: quella rappresentata dalla relazione di esclusività con il proprio oggetto d’amore, che impedisce a Mario di integrare il bisogno di dipendere dall’oggetto del suo desiderio, con l’angoscia di perdere la propria identità.
Egli ci fa comprendere, nella vita quotidiana al Centro Diurno, come il coinvolgimento più approfondito in ogni relazione duale, gli fa correre il rischio di una sovraesposizione, e pertanto tali circostanze lo obbligano a rimettere costantemente una distanza di sicurezza fra sé e gli altri.
Egli rifiuta ogni forma di dialogo più personale con lui, in particolare il rifiuto risulta evidente con tutte le figure più caratterizzate in senso psicologico, infatti, non è stato possibile finora, effettuare un colloquio e si è sempre reso indisponibile a partecipare al gruppo terapeutico dei ragazzi che si tiene con frequenza settimanale.
Per lui è stato solo possibile per ora utilizzare il gruppo restandone fuori della porta e agendo tentativi di attacco e boicottaggio.
Inoltre ha sempre mostrato una strenua opposizione a tutti i tentativi di vario genere, di coinvolgere i suoi genitori qui al Centro Diurno.
Mario segnala in modo chiaro, con le continue provocazioni e messe alla prova, la necessità di attuare una linea di guardia, al di là della quale non tollera di essere visto dentro, pena il pericolo di effrazione della propria identità.
In effetti, un momento è accogliente, disponibile, poco dopo diventa aggressivo, riesce ancora una volta a spiazzarti, e qui allora ci si deve fermare, capire dove si è sbagliato nel proporgli situazioni fuori dalla sua portata. E’ evidente come tale processo sia inevitabilmente graduale, lento, con inevitabili "ricadute" da una parte come dall’altra, e richieda tempi di mediazione ed elaborazione anche piuttosto lunghi.
Il tema della "forza" si è rivelato un elemento di grande importanza per contattare Mario, poiché rappresenta da una parte una delle sue maggiori preoccupazioni, legate ad un’immagine di sé molto fragile, dall'altra la sua modalità di difesa più massiccia.
Nei laboratori di movimento creativo ed artistici, in cui il ragazzo ha accettato di partecipare, egli ha sempre messo in scena un personaggio che possiamo chiamare il "guerriero Sayan". Questo personaggio viene rappresentato attraverso la scelta di immagini da elaborare per la decorazione di stoffe e con l'esecuzione di "danze rituali" in cui, attraverso l'uso di "un'arma - bastone", esercita il suo corpo in azioni di lotta.
Le corazze inespugnabili disegnate e l'esercizio con "l'arma-bastone" danno veramente la misura della distanza che Mario vuole tenere per non essere invaso.
L’avergli permesso di lavorare in una maniera simbolica con la sua difesa in modo da potervisi confrontare, ma fondamentalmente, l’aver accolto il suo bisogno di esprimerla, sembra poter tranquillizzare un po’ le angosce di intrusione, di annientamento, permettendo di attenuare il suo sentimento di rabbia, lasciando un po’ di spazio per investire nei rapporti.
L'utilizzazione che Mario fa dei laboratori espressivi, è quello di un rinforzo narcisistico attraverso il quale, finalmente, poter lasciare il bastone abbandonando la lotta, per consentirsi la rappresentazione di altri personaggi, come ad esempio, quello del "cantante o ballerino o popstar".
Qui, infatti, egli sembra appassionarsi molto nella rappresentazione di canzoni e danze di natura sentimentale e, a volte, si cimenta in veri e propri duetti romantici, scoprendo così il “lato oscuro e segreto” di sé, causa probabile di tanti travagli interiori.
Averlo messo in una condizione di essere "visto" ma, alle sue condizioni, cioè senza essere "guardato" per essere "giudicato", permette a Mario stesso di "rivedersi" e “riconoscersi” sotto un'altra luce.
Nel caso di Mario, la pratica dei laboratori rappresenta lo spazio adeguato dove è possibile mettere in scena "parti di sé" in cui la restituzione delle immagini riflesse, consente il riconoscersi in qualche potenzialità e dunque in definitiva, "più sani ed accettabili".
E’ interessante notare, come adesso alcune volte egli riesca a "cedere le armi", permettendosi anche alcuni momenti di regressione in cui potersi abbandonare al rilassamento e a manovre di massaggio sul corpo.
Mario ci fa comprendere come egli può cominciare ad utilizzare l’oggetto, a patto che l’oggetto sia capace di tollerare i suoi meccanismi di rifiuto e sia in grado di sintonizzarsi sui suoi bisogni di rafforzamento in senso narcisistico e sia disposto a pensare a lui, disponendo di una spazio mentale atto a contenere i suoi attacchi.
In tal senso, si può comprendere come l’assetto mentale del Centro Diurno necessiti di un’attenta e continua modulazione della relazione d’oggetto: se l’oggetto si presenta a Mario come soggetto, esso si trasforma immediatamente in oggetto intrusivo e persecutore e quindi il suo bisogno d'oggetto deve essere respinto e negato, se d’altro canto si accoglie in toto il suo bisogno di porsi a distanza da esso, ne scaturirebbe la percezione di sentirsi abbandonato e perso.
A nostro avviso, può essere questo un primissimo segnale di possibilità futura, che lui possa un giorno, una volta riuscito a ricostituire una dimensione di tempo e spazio più appropriate, cominciare a guardarsi dentro, a pensare e tollerare una vicinanza maggiore, lasciandoci così sperare che in futuro, qualcun altro possa accompagnarlo in un percorso di crescita ulteriore.

Riassunto

L’articolo intende illustrare le modalità di funzionamento di un centro diurno per adolescenti con Disturbi di Personalità. Il Centro Diurno nasce come un progetto finanziato dalla legge 285 e per questo è stato istituito da tre referenti istituzionali: il Comune di Roma, l’ ASL RM A e l’Ufficio Scolastico della Regione Lazio.
Esso si configura come una struttura socio-sanitaria a valenza terapeutica, di tipo intermedio e complementare con i Servizi socio sanitari territoriali ed i Servizi di ricovero per l’emergenza psichiatrica per l’adolescenza presenti nella città di Roma.
Il Centro Diurno è caratterizzato come una struttura intermedia diurna, ed è costituito da personale con profilo multiprofessionale di tipo socio-educativo-sanitario, che svolge un intervento intensivo della durata di 1 o 2 anni, rivolto ad una fascia adolescenziale di età compresa tra i 12 e i 18 anni.
L’assetto istituzionale ed organizzativo si incentra sul gruppo di lavoro integrato e si caratterizza come spazio intermedio tra il fare ed il pensare, dove al fare rappresentato dalle varie attività di laboratorio praticate, si affianca il pensare costituito dalla funzione vicariante e transitoria svolta dal gruppo degli operatori che esplicano le funzioni di sintesi e di integrazione tra esperienze concrete ed esperienze pensate.
Il caso clinico illustrato, evidenzia l’ importanza di sentirsi pensati, dal gruppo degli operatori, cioè di disporre di uno spazio mentale che funzioni da contenitore e da limite, per rimettere in moto i processi di crescita e di individuazione/separazione.

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Note:
* Istruttrice, danzaterapista, Centro Diurno ASL RM A “Al di qua del bordo”, via dei Cappellari 100, Roma, 00181
** Istruttrice, ludoterapista, Centro Diurno ASL RM A “Al di qua del bordo”
*** Neuropsichiatra infantile, psicoterapeuta, Centro Diurno ASL RM A “Al di qua del bordo”
**** Insegnante Scuola Media Inferiore, Centro Diurno “Al di qua del bordo”
***** Educatrice, Centro Diurno “Al di qua del bordo”





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