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A e P --> HOME PAGE --> N° 2 - Maggio 2003




Anno III - N° 2 - Maggio 2003

Adolescenti e istituzioni




La funzione psicologica in un centro di aggregazione giovanile

Daniele Biondo (*), Savina Cordiale (**), Antonello Bottaro (***), Lauro Quadrana (****)



Il tema della costruzione della domanda d'aiuto psicologico fra gli adolescenti, notoriamente restii ad utilizzare i servizi di salute mentale, ha particolarmente interessato, in questi ultimi anni, il gruppo di lavoro dell’ARPAd. Ci si è concentrati, in particolare, sulla ricerca dei fattori che permettono di costruire la relazione terapeutica, e cioè che favoriscono il dispiegarsi dei fenomeni transfero-controtransferale nella coppia terapeutica e che permettono di motivare l’adolescente ad intraprendere il trattamento (Masina, 2000). Si è visto che al fine di raggiungere tale scopo, occorre disporre di spazi specifici, che consentano agli adolescenti di percorrere liberamente la distanza fra il mondo esterno e quello interno. La complessità della domanda di aiuto fra gli adolescenti ha prodotto una fertile linea di ricerca che ha proiettato il terapeuta di adolescenti ad "uscire dalla stanza" (Pelanda, 1998) per andare incontro ai contesti dell'adolescente. Un’operazione che può essere realizzata dallo psicoterapeuta senza che perda le proprie competenze cliniche, solo se viene mantenuto “un setting interno flessibile ma psicoanaliticamente orientato, vale a dire un assetto mentale che antepone il comprendere, il pensare all'agire anche se lo strumento tecnico non è certo l'interpretazione ma l'ascolto, il fare assieme, talvolta l'azione, cioè quegli strumenti di comunicazione che i ragazzi sanno e tollerano di usare. In quest'ottica l'azione concreta e l'oggetto esterno, possono assumere il ruolo di azione-oggetto che limita la coazione a ripetere, che rifornisce e che, quindi, ha un effetto trasformativo-evolutivo" (Pelanda, 1998).
Si sta così approfondendo una linea di ricerca che sta cercando di valorizzare l’area intermedia proposta da Winnicott, al fine di costruire esperienze significative di aiuto psicologico agli adolescenti (Monniello e coll. 1988, Masina, Montinari, 1998). Winnicott (1951) ha definito quest'area dell'illusione "terza area", all'interno della quale è possibile prendere conoscenza di se stessi, del proprio Sé. In questa area è possibile realizzare esperienze transizionali, poiché costituisce uno "spazio potenziale" che trascende la divisione tra dentro e fuori. Il valore principale dell'oggetto transizionale è dovuto proprio da questa sua funzione di collegamento fra l'interno e l'esterno, fra la realtà e la fantasia, tra l'individuo ed il suo ambiente. Gli adolescenti che non riescono naturalmente a realizzare tale processo di connessione attraverso normali esperienze transizionali, hanno bisogno di condizioni ambientali particolari che sostengano le loro capacità d'illusione e hanno bisogno di uno spazio che nella loro mente, prima ancora di essere esplorato e conosciuto, possa costituirsi come uno spazio potenziale.
Nelle istituzioni per adolescenti, al fine di promuovere le esperienze transizionali, ci si sta concentrando sui processi gruppali, sia sul piano clinico – dove l’attenzione è rivolta al fondamentale legame tra funzionamento di gruppo e funzionamento istituzionale, fra adolescenza e gruppalità (Maltese, Monniello, 2000) – che sul piano formativo – relativo all’analisi della relazione e della comunicazione fra operatori appartenenti a diverse professionalità, all’analisi delle dinamiche culturali, transferali e controtransferali che legano gli operatori (Novelletto e coll.., 1998, 2000, 2001, 2003).

All’interno di questo panorama culturale e scientifico è maturata l’esperienza, che raccontiamo in questo lavoro, di costruzione della consapevolezza del mondo interno fra gli adolescenti, realizzata all’interno di un centro di aggregazione giovanile. Vogliamo descrivere i dispositivi che abbiamo messo in campo per sostenere il processo di soggettivazione degli adolescenti. Ciò ha comportato l’impegno degli operatori di fornire sostegno psicologico e, in alcuni casi, di costruire una relazione preparatoria alla psicoterapia o all’analisi. Tale processo di costruzione della funzione psicologica nella mente degli adolescenti e degli operatori, è legato prevalentemente alla possibilità di elaborare le forme variegate di transfert che si dispiegano in una qualsiasi istituzione per adolescenti. Ci riferiamo ai transfert istituzionali, ai transfert diffusi, ai transfert laterali, che comportano il frazionamento del transfert dell’adolescente sui diversi oggetti d’identificazione offerti dall’istituzione (Chan, 1991, Jammet, 1992). Ci riferiamo alle forme primitive di relazione e di transfert (transfert gemellari, transfert idealizzanti, transfert narcisistici, identificazioni imitative, relazioni d’oggetto-sè) che, come ci hanno insegnato Kohut (1971), Gaddini (1972), Wolf (1982), rappresentano le forme più comuni di relazione degli adolescenti con disturbi della condotta o con disturbi narcisistici. Riteniamo che gli adolescenti, pur non presentando quadri psicopatologi conclamati e forme dirette di domande di aiuto, hanno, spesso, una sofferenza silente, cui corrisponde un’espressione della domanda di aiuto indiretta e mimetizzata. Ci sembra importante, prima di fornire una qualsiasi forma di aiuto psicologico strutturata, consentire a questi adolescenti di realizzare un percorso di elaborazione di tale domanda, che permetta loro di conquistare la consapevolezza del proprio disagio psicologico e la fiducia nel poterlo trattare con l’aiuto di una persona esperta. Sappiamo quanto sia importante per ogni essere umano l’influenza dell’interazione con il suo contesto di appartenenza. In adolescenza ci sono alcuni ambienti, come la scuola, dove la relazione con nuove figure adulte di riferimento può sensibilmente incidere sui fattori di vulnerabilità o sui fattori di protezione. Quando in questi ambienti alternativi alla famiglia, viene confermata la catena di reazioni negative attivata dalla famiglia, l’adolescente con comportamenti a rischio viene spinto verso l’assunzione precoce d’identità patologiche o devianti. In questi casi, come abbiamo avuto modo di sostenere in altri lavori (Novelletto e coll., 2000), l’adolescente si mette inconsciamente alla ricerca di un ambiente “diverso”, che si differenzia dai meccanismi ripetitivi della propria famiglia, in cui possa sentirsi accolto nella sua specifica individualità, e soccorso rispetto alla propria difficoltà evolutiva. Se, come afferma Jeammet (1992), l’adolescente è portato a cedere all’ambiente una parte delle funzioni del proprio apparato psichico, non si può fare a meno di “prendersi cura” dell’ambiente per attivare una relazione d’aiuto o un progetto di cura con l’adolescente. Questa relazione di cura del contesto dell’adolescente, permette di trattare indirettamente l’adolescente, per quegli aspetti del Sé che ha spostato sulle figure significative che vi operano. Spostamento che avviene non soltanto attraverso le diverse forme di transfert prima citate, ma anche attraverso quei ruoli supplementari che egli attribuisce agli operatori: quello di Io ausiliario, quello di Ideale dell’Io, quello di Super-Io ausiliare (Novelletto, 1986).
Il Centro di aggregazione giovanile, può rappresentare per l’adolescente che si trova in una situazione di ricerca di un mondo adulto sul quale appoggiare parti di Sé, il luogo elettivo in cui portare la propria indistinta domanda di aiuto. L’adolescente sa che il C.A.G. è un ambiente governato dagli adulti e, se sceglie in maniera del tutto autoreferenziale la frequentazione di questo particolare ambiente, ipotizziamo ci sia un bisogno non sufficientemente soddisfatto di figure adulte d’identificazione. Ciò comporta che all’interno dei propri naturali contesti di vita (famiglia, scuola, ecc.) l’adolescente non sia riuscito a trovare il contributo dell’adulto che gli serviva per proseguire il lavoro dell’adolescenza. Egli e si è dovuto, di conseguenza, mettere alla ricerca di nuovi ambienti nei quali incontrare ipotetici oggetti-sé. La promozione della salute mentale e la costruzione della domanda di aiuto, in adolescenza non possono prescindere, a nostro avviso, dalla promozione di relazioni caratterizzate psicologicamente, che possono essere svolte all’interno degli ambienti di vita (la scuola, il centro di aggregazione giovanile) se attrezzati in termini di “ambienti di soccorso”. Tale attrezzatura consiste principalmente nella scelta di promuovere la funzione psicologica come un vertice privilegiato per instaurare la relazione con l’adolescente. Se tale scelta viene rinforzata dalla possibilità di comprendere, grazie allo strumento del gruppo esperienziale psicoanaliticamente orientato (Novelletto e coll. 1998, 2000, 2001, 2003), l’intreccio transferale che si dispiega in questi ambienti, essi possono essere utilizzati dagli adolescenti come ambienti di soccorso. Come dice Cahn (1991) l'effetto terapeutico della possibilità per l'adolescente di distribuire il transfert su un gruppo di operatori è legato al "riconoscimento, da parte di coloro che ne sono stati oggetto, delle collusioni delle pulsioni del soggetto e dell'oggetto e della possibilità di svincolarsene per restituire al soggetto qualcosa di diverso che la ripetizione di questo specifico processo. " (Cahn, 1991).

Con la legge 285/97 "Piano Nazionale per l'Infanzia e l'Adolescenza” sono stati aperti nuovi servizi per gli adolescenti come i Centri di Aggregazione Giovanile (C.A.G.), caratterizzati dalla bassa soglia d'accesso, dalla trasversalità dell'utenza, dall'autoreferenzialità, dallo sviluppo dei diritti e della cittadinanza attiva dei giovani. Tali servizi hanno trovato nella promozione dell’esperienza del gruppo dei pari la loro più immediata applicazione. Ma accanto a questo uso più consueto, in alcuni casi è stato possibile utilizzare questi nuovi spazi per adolescenti, come laboratorio per sperimentare una nuova dimensione relazionale del lavoro psico-educativo. Essa sta producendo un modello d'intervento psicologico, che abbiamo cominciato a descrivere in altri lavori (Biondo 2001, 2002, 2003 a, 2003 b, Biondo e coll., 2001, 2003), proiettato sia in direzione della costruzione della salute (prevenzione primaria), che della costruzione delle condizioni per la cura di adolescenti disturbati. La necessità di riflettere psicoanaliticamente sull’esperienze che si stanno conducendo nel nostro Paese all’interno dei contesti di vita degli adolescenti (scuola, centri di aggregazione giovanile) è particolarmente urgente, se si pensa ai rischi insiti in una pratica educativa che ignora la complessità delle problematiche in campo e che, di conseguenza, tende ad appiattirsi nella proposta di esperienze sostanzialmente improvvisate e volontaristiche. In questo caso i rischi sono molti, il più grave dei quali ci sembra essere quello del deterioramento delle funzioni educative, che comporta inevitabilmente la frustrazione degli operatori e la loro conseguente demotivazione (o burn-out). Queste condizioni rappresentano le condizioni perché il C.A.G diventi terreno di coltura di diverse patologie adolescenziali, quali la demotivazione, l’antisocialità, l’egoismo consumistico, l’autosufficienza legate alla delusione ed alla disperazione nel rapporto con gli adulti (Novelletto e coll., 2000). Spesso dietro allo slogan dell’aggregazione giovanile si nasconde una tendenza autoreferenziale di attribuire significato e senso a questo tipo di esperienze. Come afferma Charmet (2000) questo tipo di esperienze non aiutano l’adolescente a rapportarsi con il Sé, non sostengono la funzione introspettiva. Al contrario non lo salvano dal gruppo come contenitore protettivo in cui non si cresce, perché spesso fa perdere contatto con la realtà interiore. D’altro canto, occorre tener presente che anche nel C.A.G. meglio orientato al mondo interno del ragazzo, ci sono dei bisogni che esulano dalle competenze dell’educatore, il quale deve lasciare spazio a (e possibilmente introdurre l’intervento di) altre figure professionali. Come abbiamo avuto modo di affermare, al fine di poter meglio sviluppare le proprie potenzialità educative, il C.A.G deve poter realizzare un modello d'intervento basato sulla relazione poliedrica (Biondo, 2001), che riesca cioè a tenere conto delle molteplici variabili in gioco. Un poliedro sul quale può scomporsi il transfert dell’adolescente. Per fare ciò occorre che il C.A.G. sia dotato di un suo assetto organizzativo che permetta di integrare tutte le sue diverse funzioni (educative, politiche, sociali, lavorative, relazionali, terapeutiche ecc.). A funzioni diverse devono corrispondere ruoli diversi (educatore, coordinatore, psicologo, responsabile organizzativo, supervisore, ecc.) coordinati da un modello culturale ed organizzativo adeguato, che permetta a queste diverse componenti professionali di dialogare fra di loro superando competizioni e scissioni.
Ci sembra importante che questa funzione organizzativa del gruppo sia chiaramente differenziata dalla funzione elaborativa, che riguarda le dinamiche affettive e relazionali degli operatori e di questi con i ragazzi. Insomma occorre che il C.A.G., oltre che del suo assetto organizzativo, si prenda cura del suo assetto affettivo. Per fare ciò occorre dotarsi di uno specifico setting deputato a monitorare le relazioni affettive all’interno del centro e a proteggere il suo funzionamento psicologico, inteso come funzione elaborativa degli elementi psicoaffettivi messi in campo dai ragazzi e dagli operatori. Questo tipo di lavoro, nella nostra esperienza, ha permesso ai ragazzi di elaborare i loro schemi rigidi di identificazione personale e sociale rappresentati dalle mode e dagli stili di vita in cui si riconoscevano. Stili di vita spesso “pericolosi”, al confine della legalità (come nel caso dei graffitisti), espressione di un atteggiamento ribellistico e di rifiuto nei confronti del mondo degli adulti. Stili di vita al confine dell’autolesionismo e dell’esasperazione del rischio, come nel caso degli skateristi, espressione della ricerca del limite e, in alcuni casi, dell’attacco al corpo. Grazie all’impostazione psicoeducativa del centro da noi condotto, questi ragazzi hanno potuto elaborare le loro motivazioni personali sulla scelta di tali modelli culturali e isolare gli aspetti patologici (intesi come patologia sociale) da quelli evolutivi. Oltre a questi stili di vita “al confine” il C.A.G. può intercettare stili di vita esplicitamente patologici, come quelli adottati dagli adolescenti che condividono l’esperienza del “branco” antisociale. L’alta visibilità del C.A.G. all’interno del territorio e la sua caratteristica peculiare di servizio a bassa soglia con le “porte aperte”, lo può far apparire agli occhi di questi adolescenti come facile “terreno di conquista”. Un C.A.G. attrezzato nei termini che ci accingiamo a descrivere, cioè orientato psicoeducativamente, può permettere a questo tipo di ragazzi di conquistare l’esperienza del gruppo paritario e abbandonare modalità primitive di aggregazione. Abbiamo avuto modo di descrivere le difficoltà di realizzazione di tale percorso in altri lavori, ai quali rimandiamo i lettori interessati (Biondo e coll., 2001, 2003, Novelletto, 2003 a). Per realizzare tali importanti percorsi maturativi e riuscire a far funzionare il C.A.G. non solo in termini di ambiente di vita per gli adolescenti, dove promuovere il benessere e lo sviluppo delle proprie potenzialità creative, ma anche in termini di “ambiente di soccorso”, nel quale fornire un aiuto finalizzato al superamento delle inevitabili difficoltà evolutive o di eventuali difficoltà più profonde, esso deve dotarsi di un dispositivo, che abbiamo definito “setting psicoeducativo”, che promuova esplicitamente la “funzione psicologica” all’interno del gruppo degli operatori e dei ragazzi. La sperimentazione di tale “setting psicoeducativo”, nell’esperienza che descriviamo del Centro di Aggregazione Giovanile “Open Rings Center”, gestito a Roma dal Centro Alfredo Rampi Onlus, si è utilmente avvalsa dell’inserimento di uno sportello psicologico, realizzato in collaborazione con la cooperativa sociale “Rifornimento in volo”. Grazie a tale gemellaggio è stato possibile avviare un “lavoro psicopedagogico integrato” (Charmet, 2000) in cui la ricerca del significato psicologico dei comportamenti degli adolescenti è stata coniugata con l’azione educativa. Inoltre, è stato possibile avviare processi di costruzione della domanda di psicoterapia, con l’attento vaglio degli indici di trattabilità dei singoli adolescenti, che tali processi comportano. I due interventi, chiaramente differenziati (accompagnamento evolutivo per le difficoltà fisiologiche legate allo svolgimento dei compiti fase-specifici, presa in carico del disagio, valutazione diagnostica e orientamento alla cura), hanno reso il gruppo degli operatori più sicuro, in quanto consapevole di poter ricorrere ad un armamentario articolato e flessibile, oltre che sofisticato, per rispondere alle diverse esigenze del gruppo di adolescenti di cui si stava occupando.
Il percorso realizzato all’interno di un C.A.G. per costruire un setting finalizzato all’inserimento della funzione psicologica nella mente dei ragazzi e degli operatori
è stato segnato da una serie di tappe (Biondo, 2003 b):
a) fase organizzativa : durante la quale il centro ha risolto i suoi problemi gestionali (formazione dell’équipe) e logistici (strutturazione dei locali, reperimento delle attrezzature), ha individuato la propria area di azione, le attività, i propri compiti, ha costruito la rete con gli altri servizi per adolescenti del territorio (servizio materno infantile della ASL, servizio sociale del Municipio in cui il centro è inserito, altri centri giovani , unità di strada, ecc.), ha costruito l’utenza, nel senso che ha facilitato l’espressione della domanda da parte dei ragazzi;
b) fase aggregativa : durante la quale il gruppo degli operatori, uscito dalla preoccupazione di coinvolgere un’utenza attraverso l’offerta di attività, ha cominciato ad ingaggiare con questa utenza un dialogo ed un confronto serrato finalizzato a condividere un comune modello culturale ed operativo. Ciò inevitabilmente ha prodotto uno scontro fra le diverse forme d’uso del centro presenti all’interno dei ragazzi e fra i ragazzi e gli operatori. Tale “uso” si riferisce alle diverse modalità dei ragazzi di utilizzare il centro (inteso come luogo in cui ci sono dei coetanei e degli operatori) sia in termini concreti sia come oggetto interno (oggetto narcisistico, oggetto-Sé, ecc.);
c) fase costitutiva del gruppo O.R.C. : il chiarimento intorno alle forme legittime d’uso del centro da parte dei ragazzi e l’individuazione di quelle forme ritenute illegittime e distruttive ha permesso ad operatori e ragazzi d’incontrarsi su un terreno condiviso che permettesse ad entrambi di sentire di aver costruito insieme un contenitore affidabile. Ciò ha istituito il gruppo O.R.C. come patrimonio comune della mente dei ragazzi e degli operatori;
d) fase elaborativa del funzionamento psicologico dell’O.R.C. : costruito un contenitore valido con il quale tanto i ragazzi che gli operatori si sono potuti identificare, è stato possibile per entrambi far circolare all’interno dell’O.R.C., contenuti psichici profondi inerenti alle difficoltà evolutive del processo di soggettivazione per i ragazzi e le connesse difficoltà di comprensione e contenimento di tali difficoltà da parte degli operatori. I processi di simbolizzazione erano stati finalmente investiti da entrambi. Ciò ha permesso di superare l’azione (intesa come acting per i ragazzi ed attivismo pedagogico difensivo per gli operatori) come modalità privilegiata d’espressione delle tensioni interne;
e) fase istitutiva dello “sportello psicologico” : poter disporre di un contenitore gruppale per avvicinare le proprie difficoltà ha permesso a molti ragazzi di investire il proprio mondo interno per avvicinare le parti più fragili del Sé, utilizzando per tale movimento non solo il gruppo , ma anche il proprio Sé più funzionante e maturo per accedere a forme di aiuto più personalizzate all’interno di un colloquio psicologico duale. Il compito della crescita e della creazione della propria identità poteva essere svolta dai ragazzi con l’ausilio di una serie di strumenti prima per loro sconosciuti, quali il gruppo dei pari empatico e , quando necessario, l’incontro con un adulto competente.
f) fase di separazione dal gruppo O.R.C. : grazie all’elaborazione delle nuove competenze del Sé e all’acquisizione degli strumenti mentali ed affettivi per la costruzione del Sé, i diversi adolescenti che formavano l’originario gruppo O.R.C., hanno incominciato a disinvestire il gruppo e programmare la separazione da esso, in vista dell’acquisizione di livelli di funzionamento più evoluti. Ciò nella maggioranza dei casi, si è manifestato attraverso l’acquisizione di una maggiore autonomia dal contesto gruppale e il conseguente inserimento in nuovi contesti (iscrizione all’università, svolgimento del servizio militare, avvio di un’esperienza lavorativa, sperimentazione dell’esperienza di coppia ecc.) per lo svolgimento di compiti evolutivi più progrediti. In alcuni casi, invece, tale movimento separativo si è espresso in direzione dell’acquisizione di una maggiore consapevolezza delle proprie difficoltà evolutive e la conseguente maturazione di una domanda di psicoterapia (che nel caso di un ragazzo si è concretizzato nell’avvio di un’analisi trisettimanale).

Il progetto ha potuto godere della sinergia di due enti del terzo settore con specifiche competenze : di tipo prevalentemente psicoeducativo l’ente gestore del centro di aggregazione giovanile e di tipo psicoterapeutico, l’ente che, in una certa fase della vita del centro, si è affiancato al primo per rinforzarne il funzionamento psicologico. Tale sinergia si è potuta realizzare in maniera proficua grazie alla supervisione parallela (avvenute nei due ambiti) da parte di due psicoterapeuti dell’adolescenza che condividevano lo stesso modello scientifico.
Il primo ha supervisionato, fin dalla sua apertura, il lavoro psicoeducativo svolto nel centro, al fine di far emergere gli aspetti transferali, controtransferali della relazione affettiva degli operatori con i ragazzi e dei ragazzi all’interno del gruppo (Biondo, 2002). Tale supervisione del gruppo degli operatori si è svolta con frequenza quindicinale. Lo stimolo alla formazione continua promosso dalla supervisione ha permesso agli educatori di superare i limiti della pratica educativa centrata solo sul “fare insieme”. Come dice Novelletto (2003 a): “non basta la buona volontà, la buona relazione, non bastano le risorse, l’attitudine educativa spontanea e l’esperienza di vita, bisogna anche avere emozioni, concetti, criteri più evoluti per affrontare certi problemi”. Grazie alla supervisione di gruppo gli educatori hanno potuto incominciare a colmare questa lacuna formativa, riuscendo così a promuovere nel gruppo di ragazzi rapporti affettivi più significativi. Tali rapporti hanno potuto dispiegarsi grazie alla conquista nel gruppo dei ragazzi (parallela a quella realizzata nel gruppo degli operatori) di una maggiore “intimità di gruppo”. Ciò, a sua volta, ha permesso ai ragazzi di sperimentare “un senso di appartenenza e di relazionalità senza incorrere nei terrori dell’intimità individuale” (Novelletto e coll., 2001). La sensibilizzazione degli operatori sulle dinamiche psicologiche di gruppo e sulle problematiche adolescenziali, insieme all’acquisizione della dimensione intima nel gruppo fra i ragazzi , ha preparato l’inserimento “ufficiale” della funzione psicologica nel centro, che si è realizzata attraverso la cooptazione di uno psicologo all’interno dell’èquipe di lavoro. Nel momento in cui è stato realizzato tale inserimento (dopo tre anni dall’avvio del centro) è stata avviata la seconda supervisione, individuale e focalizzata sul lavoro dello psicologo (il quale sta realizzando la propria formazione come terapeuta di adolescenti) all’interno del centro, al fine di elaborare e canalizzare il proprio assetto interno. Tutto ciò ha consentito che si sviluppasse ulteriormente la funzione psicologica del centro, intesa come conquista della possibilità per i ragazzi e gli operatori di allargare il proprio panorama psichico.

La funzione psicologica, in questo caso, si è espressa attraverso l’osservazione partecipe dello psicologo nel gruppo dei ragazzi. Essa è stata così ‘usata’ dagli adolescenti per i loro specifici bisogni di rispecchiamento ed elaborazione di un transfert individualizzato, finalizzato più esplicitamente alla risoluzione di problematiche evolutive. Ci si riferisce all’espressione dei propri pensieri su temi che li riguardano, i desideri, i rischi e le difficoltà proprie dell’adolescenza e della spinta evolutiva che la caratterizza. Tali processi di proiezione e presentazione del Sé, in un’area caratterizzata dall’intimità relazionale, grazie all’appoggio empatico ricevuto dal gruppo degli operatori, hanno potuto trovare un contenitore più specifico ed un ascolto empatico più attento. Quindi nessuna valutazione, spiegazione o interpretazione, bensì l’offerta al gruppo dei ragazzi di un’occasione per approfondire un argomento di interesse comune e della possibilità di sentire l’adulto come una risorsa, come qualcuno che può aiutare e capire meglio un problema.
In questo clima è stato importante che il gruppo dei ragazzi sentisse che il loro
naturale bisogno di affermazione, di avventura, la voglia di un po’ di ‘sana’ trasgressione connaturata all’essere adolescente, potevano essere riconosciuti dall’adulto come valori comunicativi, come parte vitale del loro bisogno di andare verso l’esperienza e di aprirsi all’emozione.
Il dialogo dello psicologo con i ragazzi era, dunque, teso ad aiutarli ad avvicinarsi
alla definizione di un confine fra comportamenti rischiosi necessari per crescere e comportamenti eccessivi, di rischio inutile, eccessivamente pericoloso per gli aspetti autolesionistici, che soddisfano solo il bisogno di sfogare la tensione per allontanarsi dal senso di inadeguatezza. Abbiamo definito tale processo come un percorso psico-educativo finalizzato a realizzare con il gruppo degli adolescenti un “Patto sul Rischio Accettabile” (Biondo, 2003 b).
Attraverso il confronto con gli altri, promosso nel gruppo, potevano esprimersi le diverse opinioni dei ragazzi. Tutto ciò ha consentito agli adulti del centro (educatori e psicologo) di riportare le diverse opinioni a significati diversi e non contrapposti. Gli adolescenti hanno potuto così scoprire che se c’è un conflitto è possibile parlarne, cercare di capirsi senza dover trovare a tutti i costi soluzioni rigide o, peggio, senza dover ricorrere ad agiti violenti.
Come risulta evidente da quanto finora descritto, il processo di costruzione della funzione psicologica è stato lungo ed articolato, ha comportato una lenta maturazione che ha coinvolto tanto il gruppo degli operatori (educatori e psicologo) che quello dei ragazzi. Nel presente lavoro vogliamo soffermarci sul percorso realizzato dallo psicologo, rimandando al futuro la descrizione più dettagliata del percorso realizzato da tutto il gruppo degli operatori.

Nella fase iniziale, del lavoro dello psicologo all’interno del centro, egli si è trovato a fronteggiare diversi momenti difficili, visto che si trovava in un ambiente nuovo composto sia da ragazzi sia da un gruppo di educatori, che avevano stabilizzato fra di loro una lunga relazione. La sua posizione iniziale all’interno del gruppo, è stata quella di assumere un atteggiamento recettivo e non intrusivo.
Questa fase è stata accompagnata dal suo cauto muoversi verso la reciproca conoscenza con i ragazzi, e parallelamente verso l’ambientamento e la familiarizzazione con il gruppo degli educatori. Il contributo della supervisione di gruppo a tale inserimento dello psicologo nell’èquipe degli operatori è stato fondamentale.
La posizione assunta dallo psicologo verso i ragazzi, ha lentamente incominciato ad incuriosirli e sono iniziate a circolare voci sul suo conto, su chi era e che cosa facesse lì con loro. I ragazzi hanno scelto varie modalità per avvicinarsi, soprattutto hanno posto domande sul ‘mestiere’ dello psicologo e sul perché ci fosse uno psicologo nel centro; ogni ragazzo con il suo stile, con i suoi tempi e modi. Nono sono mancati, specialmente all’inizio, diversi attacchi sulla figura dello psicologo. Tutto ciò ha fatto sì che si instaurasse nel gruppo dei ragazzi una sorta di ‘valutazione’ verso la figura dello psicologo, portatrice della funzione psicologica. L’aria che si respirava all’interno del gruppo era di curiosità su come utilizzare questa figura senza sentirsi minacciati. Il fatto di essere stati “allenati” dal rapporto con gli educatori a confidare parti importanti ed intime di se stessi, aveva permesso loro di vivere con fiducia la funzione psicologica, ancor prima che la relazione con lo psicologo. Ciò ha permesso di vivere tale figura con minore sospettosità e timore di quanto ci si poteva aspettare in assenza di tale preparazione. Ciononostante, non sono mancati atteggiamenti difensivi e polemici. Il periodo di ‘valutazione’ ha attraversato momenti in cui lo psicologo era invitato a partecipare alle attività del gruppo dei ragazzi, momenti in cui alcuni ragazzi lo invitavano su due piedi a interpretare delle ‘cose’, aggiungendo puntualmente che doveva sapere tutto perché era uno psicologo.
Dopo il periodo di ‘valutazione’ si è giunti all’accettazione all’interno del gruppo, e al riconoscimento della validità della figura dello psicologo. Forse è necessario fornire qualche chiarimento sul percorso che ha permesso di ottenere tale risultato, anche se, come abbiamo già dichiarato, ci riserviamo di descriverlo più ampiamente in futuro. La supervisione quindicinale che si realizzava da circa tre anni all’interno del centro, ha permesso a tutto il gruppo di operatori di condividere un pensiero psicologico sulle relazioni che si realizzavano all’interno del centro. Il clima di ascolto, di individuazione ed accettazione dei diversi ruoli, di elaborazione delle dinamiche conflittuali promosso dalla supervisione, ha permesso che la funzione psicologica s’istituisse nella mente degli operatori come una risorsa preziosa e irrinunciabile a cui poter accedere per migliorare la qualità del proprio lavoro con i ragazzi. Il livello di comunicazione fra gli operatori si è nel tempo riempito di nuovi significati, sono stati realizzati investimenti emotivi significativi, grazie ai quali i ragazzi hanno potuto conquistare un uso appropriato della funzione psicologica. Ciò ha anche permesso agli operatori di raggiungere un primo livello di comprensione dei transfert frazionati ed istituzionali (Chan, 1991) che i ragazzi facevano su di loro. Come è noto, in questi ambienti di soccorso gli adolescenti realizzano una serie di investimenti che, se si dispone del dispositivo adatto per comprenderli, permettono di individuare l’ombra delle loro relazioni oggettuali significative. Gli adolescenti da una parte scelgono gli operatori per “rappresentare le forze che ostacolano il desiderio di crescita e di emancipazione, sfidandoli e provocandoli. Dall’altra gli operatori sono vissuti come i rappresentanti degli aspetti ideali e trasformativi e sono oggetto di un esplicito desiderio di appoggio ma anche della diffidenza riguardo alla costanza dell’oggetto e quindi della paura di essere abbandonati” (Novelletto e coll., 2001, pag. 93). La stesso movimento transferale ambivalente, caratterizzato dalla denigrazione e dall’idealizzazione di cui sono stati oggetto gli educatori, lo potremo osservare più avanti nella relazione individuale che un ragazzo ha realizzato con lo psicologo.
Tale lavoro di mentalizzazione dell’esperienza educativa che si realizzava nel centro, si è profondamente avvantaggiato dell’inserimento dell’assistente sociale del Municipio Roma 6 (Massimo Venanzi), oltre che dello psicologo. Il gruppo di lavoro poteva così confrontarsi attingendo agli strumenti scientifici e culturali di diverse professioni, configurandosi sempre di più come un gruppo esperienziale. Ciò ha permesso una migliore integrazione dell’èquipe intesa come “ la capacità, stabilmente condivisa da tutti i suoi membri, di vedere la mente dell’adolescente come un sistema in evoluzione che, almeno provvisoriamente, occupa una posizione intermedia fra realtà interna e realtà esterna” (Novelletto e coll., 1998)
Al fine di permettere ai transfert frazionati dei ragazzi non solo di essere compresi, ma anche, quando necessario, di essere canalizzati verso una relazione intima duale, abbiamo previsto una fase d’introduzione dello psicologo nel gruppo dei ragazzi. Questo passaggio è stato realizzato attraverso la promozione di alcuni momenti di informale discussione di gruppo su tematiche specifiche (droga, sesso, prospettive future, scuola) nei quali c’era la compresenza dello psicologo e degli educatori, i quali, grazie al lavoro di elaborazione comune realizzato nella supervisione di gruppo, potevano attingere ad un linguaggio ed ad un codice comune per rispondere alle sollecitazioni dei ragazzi.
Durante le attività che normalmente si svolgono nel centro: incontrarsi, suonare, giocare (a carte, al computer, a pallone), graffitare, skaterare, discutere, fare merenda, i ragazzi hanno iniziato a chiedere allo psicologo in modo più specifico il suo ‘punto di vista’ (spesso sotto forma di consigli per gli amici) sui loro sentimenti di malessere o benessere esistenziale.
L’accettazione condivisa dell’inserimento della figura dello psicologo e la nuova curiosità verso la funzione psicologica, ha fatto sì che i ragazzi potessero esprimere anche il desiderio di una maggiore presenza del professionista all’interno del centro. Questo movimento del gruppo, ha portato alla maturazione di autentiche richieste di ascolto più personalizzate che potevano avvenire in luoghi non strutturati come il cortile o le scale. Progressivamente questi momenti si sono trasformati in una possibilità, nella mente del gruppo, di potersi fidare ed appoggiare, quando necessario, alla funzione dello psicologo.
Nel momento attuale tra le varie tendenze culturali prevalenti nel centro (la musica, il graffitaggio e lo skateraggio), è emersa una nuova passione : il gioco dei scacchi, che ci sembra segnalare l’acquisizione da parte del gruppo di un livello più sofisticato di funzionamento. Tale gioco è stato realizzato prevalentemente fra i maschi, e lo psicologo è stato invitato ad essere prima spettatore e poi giocatore egli stesso. Le ragazze avevano realizzato lo stesso movimento identificatorio un anno prima, allestendo una ‘stanza tutta per loro”, intesa come spazio privato del Sé, in cui esprimersi ed incontrarsi per costruire la funzione mentale.
Il gruppo dei maschi, pur essendo in una fase di medio-tarda adolescenza,
sembra presentare un bisogno di coesione e di rispecchiamento tipico dei primi adolescenti. L’atmosfera che si è creata, grazie al fatto di giocare insieme a scacchi, ci ha fatto riflettere su come un pensiero adulto, condiviso fra educatori e psicologo, possa offrire un’occasione ai ragazzi di ritornare indietro nel percorso evolutivo, per sperimentare ciò che , nonostante le apparenze, non era stato vissuto (ad esempio la fase di identificazione con il gruppo omosessuale). Il gruppo dei ragazzi, con l’attività degli scacchi, sta sperimentando quindi una possibilità nuova : quella di coinvolgersi, in uno spazio condiviso con alcuni adulti (educatori e psicologo), in attività collettive in cui si può stare fermi, giocare e pensare.
Al fine di descrivere in maniera più dettagliata la qualità degli scambi verbali e relazionali che si stanno realizzando all’interno dell’esperienza descritta fra lo psicologo ed i ragazzi, presentiamo un’esperienza di costruzione di un percorso di “incontro” fra un ragazzo e lo psicologo.

Alberto (1)
Alberto, 19 anni, è stato uno dei primi ragazzi ad “uscire dal gruppo” per avvicinarsi a me, inizialmente con frasi provocatorie del tipo : “non sei uno psicologo”, oppure: “sei uno psicologo di merda”.
Il suo inusuale atteggiamento di sfida puntuale e rispettoso, sembrava denotare, al contrario, un forte bisogno di nuovi oggetti di investimento stabili ed affidabili che lo potessero aiutare nell’esplorazione di nuove esperienze evolutive. In un tale contesto emotivo, si è cercato di collocare la mia figura di adulto e la mia funzione di psicologo in uno spazio né totalmente soggettivo, né totalmente esterno, nello sforzo di creare nell’incontro con l’adolescente un campo di esperienza aperto in cui condividere progetti diversi (Montinari, 2000). Gradualmente Alberto, nel relazionarsi con me, ha abbandonato la provocazione e con un certo imbarazzo ha creato momenti di maggiore vicinanza all’interno del centro: andare insieme al bar vicino, sedersi sulle scalette adiacenti al centro.
In queste occasioni, nel tempo sempre più frequenti, la qualità delle nostre prime comunicazioni si è incentrata sulla richiesta di soluzioni concrete.
Le sue principali comunicazioni riguardavano il suo non riuscire a fare niente, soprattutto a scuola, il suo pessimismo sul fatto che nel “mondo” qualcosa possa cambiare.
Mi raccontava spesso di Patrizia, una ragazza del centro, e del rapporto con lei. Alberto si sentiva confuso, riconosceva l’intensità del legame con la ragazza ma non capiva l’assenza di attrazione erotica “..è come una sorella per me...ma ho bisogno di lei perché siamo simili”. “Con lei mi sento obbligato ad essere premuroso, anche quando non mi va”. Questa ricerca di somiglianza mi ha fatto riflettere sulla qualità degli attaccamenti di Alberto che sembra spinto, in modo aspecifico, dalla necessità di trovare un “doppio”. Per un altro verso la relazione con Patrizia sembra ripetere la relazione con la madre, separata dal padre, della quale Alberto sai è fatto carico.
Mi bersagliava di domande: “chi sono?, chi posso diventare?”. Domande sull’identità che denotavano un intenso bisogno di rispecchiamento. Non c’era, d’altro canto, il minimo accenno ad una possibile richiesta d’aiuto più mirata. Ho cominciato a farlo riflettere sul fatto che poteva essere utile cominciare a porsi tutti questi quesiti sotto altre angolazioni.
Il livello di riservatezza nei miei confronti è stato abbastanza alto; ogni volta che ci siamo trovati a toccare determinati argomenti tipo la sua sessualità, il rapporto a casa, il rapporto con la scuola, ho sentito in lui un irrigidimento, seguito dall’immediato cambiare discorso.
Anche la mia modalità di relazionarmi con lui con il tempo ha subito delle modificazioni: all’inizio non riuscivo a trovare una collocazione precisa per quello che mi stava portando. Mi sentivo spesso spiazzato su come e quando restituire alcune riflessioni emerse nelle nostre conversazioni. Da una parte, avevo il timore di essere troppo diretto, con la conseguenza di essere troncato sul nascere di ogni discorso (cosa che è accaduta qualche volta); dall’altra, sentivo l’importanza di difendere con lui la mia identità e l’importanza di rimandargli alcune riflessioni psicologiche su quanto ci dicevamo. La possibilità di leggere questi elementi controtransferali, nella supervisione individuale, alla luce di un doppio versante, quello del divenire di Alberto nella relazione con me e quello del mio divenire in un percorso formativo specifico (Castellano, Cordiale, Montinari, 2001) mi ha permesso di costruire un assetto mentale, nel tempo più coeso, di comprensione della modalità comunicativa di Alberto e di quale tipo di oggetto potesse corrispondere alle sue aspettative di aiuto.
La circolazione delle comunicazioni fra noi operatori all’interno della supervisione quindicinale di gruppo, ci ha permesso di costruire ipotesi psicologiche più mirate su Alberto. Inoltre, attraverso l’articolazione dei due diversi specifici dispositivi di supervisione, individuale che proteggeva il mio particolare setting interno, e di gruppo abbiamo potuto scoprire, che Alberto consegnava parti diverse di sé ad operatori diversi, da lui prescelti per realizzare queste importanti operazioni transferali. Ad esempio con Antonello, il coordinatore del Centro, aveva realizzato un transfert paterno, con la fantasia di fargli occupare concretamente il posto del padre in famiglia. Un giorno esprime questa fantasia con un invito a casa : “vieni a conoscere mia madre, sono sicuro che ti piacerà”. Un’altra volta la stessa fantasia di ricongiungere la coppia genitoriale viene così espressa dal ragazzo: “io mi immagino come deve essere tua moglie, deve essere bassa ed un po’ grassottella”. Queste sono le caratteristiche fisiche della madre! Ricostruire una copia genitoriale permette ad Alberto di poter sfuggire al ruolo di partner per lei e conquistare un po’ di libertà per sé. Con Gabriella, l’educatrice “anziana” del centro Alberto cercava la vicinanza e la complicità, trasferendo così in lei gli aspetti collusivi della relazione con la madre. Tali processi transferali si realizzavano inevitabilmente non solo nel rapporto con gli operatori, ma anche con i coetanei. Ad esempio la relazione di Alberto con Patrizia ha funzionato come una sorta di acceleratore della sua relazione con me. Attraverso il legame con Patrizia, che si dispiegava all’interno del centro, sono cominciate ad emergere, nei nostri incontri, molte dinamiche riguardanti il suo mondo interno. Siamo entrati di più in confidenza su molte questioni: il suo rapporto a casa, in particolare con suo padre con il quale non riesce a parlare; il suo sentirsi spesso confuso, impaurito, dal mondo esterno; la sua difficoltà a gestire il rapporto con Patrizia, sia all’interno sia fuori il centro.
Tali questioni hanno permesso di far emergere una maggiore consapevolezza del ragazzo sul suo stato emotivo di fondo, caratterizzato dagli sbalzi di umore, dal non sentirsi mai felice, dal sentirsi come “ovattato” da ciò che lo circonda. Progressivamente la mia modalità di accogliere, ma soprattutto di parlare delle emozioni, dei sentimenti, di ciò che attiene al sentire e non al fare, si è affinata. Convinto delle potenziali risorse di Alberto, ho iniziato a lavorare cercando un dialogo con il suo mondo interno, rimandando gran parte del materiale a riflessioni su ciò che veramente gli stava succedendo. Il lavoro che ho cercato di fare è stato, principalmente, quello di legare il suo bisogno di estremizzare la concretezza del mondo esterno, alla fragilità del suo mondo interno.
Sono iniziati così ad apparire nei nostri incontri i suoi veri stati d’animo, la sua reale depressione, e lentamente è cominciata ad emergere la sua voglia di provare veramente a “cambiare qualcosa”.
Un segnale importante che Alberto mi ha dato, e stato il suo riprendere gli studi interrotti. Negli ultimi incontri porta spesso questo tema, sottolineando in particolare come stia andando bene nel profitto, ma con il bisogno di ridimensionare i propri successi : “ho preso nove in matematica nel compito in classe, però molti della classe hanno preso lo stesso voto”.
Quando Giovanni, un altro ragazzo del centro (dopo un analogo accompagnamento alla funzione psicologica realizzato nel rapporto con me), ha avviato un percorso analitico intensivo, Alberto si è molto incuriosito, con domande sul terapeuta da cui egli sarebbe andato.

Un giorno io, Gabriella e Alberto stiamo andando con l’auto ad acquistare palloni nuovi per il centro. Gabriella scende dalla macchina e così rimaniamo soli per circa venti minuti. Inizia a farmi domande sul mio percorso di studi, su come me la sono cavata, e sul fatto che lui vorrebbe fare filosofia. Mi dice che ha quasi deciso che lascerà Patrizia; non riesce più a starci insieme. Mi chiede del mio lavoro, su quello che faccio anche al di fuori e mi dice per la prima volta che sono vestito bene, aggiungendo che sono vestito più vicino ai suoi gusti. Ci ritroviamo a parlare di ideali, di progetti futuri, e l’invito ad esplicitare i suoi. A bassa voce mi dice che vuole diventare come me, come sono io, definendomi intelligente, simpatico, ma anche uno serio. Torna con varie modalità sul tema della psicoterapia.
Dice che in alcuni momenti vorrebbe, in altri non si sente pronto. Ritorna Gabriella ed il discorso si interrompe. Quando arriviamo al centro, mentre stiamo per entrare, mi dice che se proprio dovesse iniziare una terapia, la vorrebbe fare con me. Dentro di me, penso al percorso che insieme abbiamo costruito e al lavoro che c’è ancora da fare per costruire nella mente di Alberto la possibilità di utilizzare proficuamente la psicoterapia, che ha avviato con un’altra persona. Però ho la sensazione che la parte più importante del percorso sia stato realizzata. Il fatto che ha bisogno di essere ancora “accompagnato” mi è testimoniato dalla modalità con cui Alberto prende il primo appuntamento con l’analista. Aspetta che arrivi io al centro per telefonarle, mi chiede che sia io a fare il numero. Riesce alla fine a chiamare e a parlarle, ma tutto avviene non in un’area privata, ma dentro il centro . Un ragazzo che lo vede al telefono s’incuriosisce e gli chiede “ma a chi stavi chiamando?”, quando lui gli risponde “ad una psicologa” quello gli fa una predica contro gli psicologi “che ti vogliono condizionare, ti fanno un sacco di test, come mi è capitato al militare e ti vogliono fregare”. Lui è imbarazzato per la mia presenza, si scusa con me per lui e poi mi chiede se avevo voglia di fare una partita a scacchi. Come ad esprimere il bisogno di recuperare il valore del pensiero dopo che gli era stato così violentemente attaccato. Quando al primo colloquio con la sua analista, questi le chiede il motivo della sua richiesta, lui risponde : “sono qui perché ho parlato con gli operatori dell’O.R.C. e ho capito che devo riordinare delle cose!”.


Il percorso di Alberto e dello psicologo ci propone una riflessione sull’inserimento della funzione psicologica in contesti intermedi come un Centro di Aggregazione Giovanile. La potenziale qualità transizionale di tali spazi può permettere all’adolescente di appoggiarsi narcisisticamente sulla figura dell’operatore (Monniello e all. 1988) e far nascere in lui una sorta di “curiosità” verso un funzionamento mentale “altro dal proprio”, favorendo quindi lo sviluppo degli investimenti sul proprio Sè (Monniello 1994). Gli elementi di transfert gemellare (Kohut, 1971), cercati inizialmente nel rapporto con Patrizia si possono ora appoggiare in modo più sicuro sulla funzione dello psicologo che, contenendoli nella sua mente, può essere utilizzato dal ragazzo come “facilitatore” verso la possibilità di pensare e di esperire un percorso psicoterapeutico. Ciò gli permette di prendere le distanze dalla relazione con Gabriella-madre-fusionale ed avvicinarsi al confronto con una figura maschile non eccessivamente conflittualizzata come era diventato Antonello-padre-putativo. In questo ambito relazionale e proiettivo lo psicologo, vissuto come una figura intermedia fra le due prima descritte, è stato usato prevalentemente al servizio del Sé e al mantenimento del suo investimento pulsionale. Ciò rimanda al noto concetto del grande, diversificato bisogno di oggetti-Sé in adolescenza (Wolf, 1982). Abbiamo potuto osservare, nel caso descritto, come la relazione interpersonale del ragazzo, sia fondata sulla scelta dello psicologo come “strumento del suo pensiero da utilizzare per i suoi processi di individuazione, il cui ruolo è investito da libido narcisistica” (Senise, 1990)
La modalità di lavoro centrata su un pensiero integrato della funzione psicologica e della funzione educativa permette di accogliere e modulare il bisogno dell’adolescente di diversificati investimenti utili a vitalizzare le aree del proprio funzionamento psichico. Nello stesso tempi si può fornire all’adolescente la possibilità di delineare un proprio percorso mentale verso un domanda di aiuto più specifica e personale. E’ infatti compito dell’integrazione “mirare alla possibilità di ricondurre l’adolescente ad uno sviluppo equilibrato delle doti originarie mediante le esperienze interpersonali della relazione e del metodo di lavoro adottato con lui”. (Novelletto, 2003 b).

Riassunto
L’articolo affronta il tema della costruzione della domanda di aiuto psicologico fra gli adolescenti, notoriamente restii ad utilizzare i servizi di salute mentale. Vengono descritti i dispositivi messi in campo all’interno di un centro di aggregazione giovanile (C.A.G.), per sostenere il processo di soggettivazione degli adolescenti e per motivare gli adolescenti problematici ad intraprendere un trattamento. Ciò ha comportato l’impegno degli operatori a fornire sostegno psicologico e, in alcuni casi, a costruire una relazione preparatoria alla psicoterapia o all’analisi. Tale processo di costruzione della funzione psicologica nella mente degli adolescenti e degli operatori, è legato prevalentemente alla possibilità di elaborare le forme variegate di transfert che si dispiegano in una qualsiasi istituzione per adolescenti. Per far funzionare il C.A.G. non solo in termini di ambiente di vita per gli adolescenti, dove promuovere il benessere e lo sviluppo delle proprie potenzialità creative, ma anche in termini di “ambiente di soccorso”, nel quale fornire un aiuto finalizzato al superamento delle inevitabili difficoltà evolutive o di eventuali difficoltà più profonde, esso deve dotarsi di un dispositivo, e cioè del “setting psicoeducativo”, che promuova esplicitamente la “funzione psicologica” all’interno del gruppo degli operatori e dei ragazzi. Grazie a tale setting, è stato anche possibile avviare processi di costruzione della domanda di psicoterapia , con l’attento vaglio degli indici di trattabilità dei singoli adolescenti. I due interventi, chiaramente differenziati (accompagnamento evolutivo per le difficoltà fisiologiche legate allo svolgimento dei compiti fase-specifici, presa in carico del disagio, valutazione diagnostica e orientamento alla cura) hanno usufruito di due setting paralleli di supervisione (una di gruppo per tutti gli operatori, ed una individuale per lo psicologo).


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Note:
(*) Daniele Biondo, Psicoterapeuta, Socio ’ARPAd, Presidente Associazione Circuito Giovani, Vicepresidente Centro Alfredo Rampi Onlus
(**) Savina Cordiale, Neuropsichiatria Infantile, Socio Ordinario ARPAd, Socio fondatore cooperativa sociale “Rifornimento in volo”
(***) Antonello Bottaro, Educatore Coordinatore del Centro di Aggregazione Giovanile “Open Rings Center” del Centro Alfredo Rampi Onlus
(****) Lauro Quadrana, Psicologo, specializzando ARPAd, psicologo nel Centro di Aggregazione Giovanile “Open Ring Center”

1) Materiale clinico fornito dal Dott. L.Quadrano collaboratore della Cooperativa Rifornimento in Volo e psicologo per il progetto nel Centro di Aggregazione Giovanile “Open Ring Center”





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