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Anno III - N° 2 - Maggio 2003

Adolescenti e istituzioni




Esperienze di introduzione di metodologie ad orientamento psicodinamico in comunità di tipo familiare per adolescenti borderline

Tito Baldini*



Elementi introduttivi

Introduco alcuni punti di vista intorno ai quali si sviluppa questo lavoro:

dalla mia esperienza risulterebbe utile impostare una fase del trattamento di un’area dell’organizzazione borderline in adolescenza presso comunità di tipo familiare, date le difficoltà, i limiti e la frequenza di fallimenti di altre tipologie di interventi (affidamento; adozione; permanenza o ricollocazione in famiglia ) (Grimaldi 1996);
la psicoterapia psicoanalitica diverrebbe lo strumento principe del recupero solo dopo un lavoro psicodinamicamente impostato presso comunità familiare, lavoro atto a favorire processi di psichicizzazione nell’adolescente;
le comunità che accolgono adolescenti borderline trarrebbero un notevole utile nell’assunzione un’impostazione psicodinamicamente orientata;
la promozione dll’orientamento psicodinamico potrebbe assumere un ruolo significativo nella preparazione delle comunità (formazione del personale) e nel trattamento degli adolescenti, lavorando tra la fase pre-psicoterapeutica e quella psicoterapeutica.

Il fenomeno della facilità del fallimento del trattamento psicoterapeutico psicoanalitico di una certa tipologia di adolescenti borderline, frequentemente descritto dalla letteratura (Nakov 1999), induce riflessioni sul rapporto tra organizzazione psicopatologica e criteri di trattabilità per lo specifico clinico in esame. Inoltre, circa il termine organizzazione borderline, Nicolò ci segnala “la frequenza con cui viene applicata questa diagnosi nelle situazioni più disparate” e ci ricorda che “anche Laplanche e Pontalis (1967) sottolineano - come ricorda Green (1990) - ‘l’imprecisione del campo coperto dal concetto che per certi analisti ingloba personalità psicotiche, perverse, delinquenziali e gravi nevrosi del carattere’ ” (Nicolò 1999). In tal senso, penso che i lavori di Kenberg (1984), Masud Khan (1979) e Green (1990), a tutti noti e che almeno in parte avvicineremo in seguito, diano coordinate utili per navigare lontani dal rischio di abuso e designificazione epistemica cui incorre il termine; ma va aggiunto che la confusione epistemologica e nosografica pare in parte caratterizzare anche realtà sociali e istituzionali dell’aiuto all’adolescente ‘difficile’, ambiti ove si potrebbe cogliere un fenomeno di emarginazione del soggetto anche a partire dall’aver reso il binomio ‘adolescente borderline’ una sorta di coagulo del disturbo socialmentre grave, pericoloso; averlo reso sinonimo di intrattabilità.
Visionata in età adolescenziale, l’organizzazione borderline influirebbe nel senso della rottura a livello della relazione narcisistica e oggettuale al corpo sessuato (Laufer 1984), ma anche a livello “delle modalità stesse del funzionamento mentale” (Cahn, 1999, p. 294). Cahn sembra in parte riunire il pensiero della letteratura sostenendo che:

nell’adolescente borderline è essenziale riconoscere il peso determinante delle fratture narcisistiche precoci o ripetute. (…) La disattivazione del funzionamento mentale è presente in misura minore che nella psicosi; esistono zone più o meno estese di funzionamento ‘nevrotico’ e le difese più invalidanti rispetto alle possibilità di soggettivazione, basate sul modello dell’atto o dell’espulsione, sembrano conservare un certo grado di reversibilità, per quanto parziale e passeggero. Il grado di fluidità o irrigidimento non è ancora determinabile a priori” (ivi, p. 289).

Circa la difficoltà di avviare con l’adolescente borderline trattamenti classicamente intesi, l’autore ritiene che:
ogni analista di adolescenti si sarà trattenuto dall’affrontare (…) nell’ambito di una cura classica adolescenti che presentano una patologia così severa che a causa delle modalità di funzionamento pone ostacoli in definitiva inanalizzabili al processo analitico, perlomeno attraverso procedure classiche” (ibid).
Il problema della difficoltà del trattamento analitico potrebbe essere collocabile a livello della confusione tra oggetto reale e oggetto di transfert e tra realtà psichica e realtà tout court:
Compito colossale (…) richiesto a questi adolescenti è di riconoscere, dopo l’analisi già straordinariamente complessa dei loro pensieri, dei loro sentimenti nei confronti dell’oggetto-analista, che i suddetti pensieri od emozioni per quanto intollerabili essi siano, non siano destinati a tale oggetto, ma ad un altro oggetto ancora” (ivi, p. 290).
In questi ambiti clinici, ove il concreto usurpa metodicamente il metaforico ed il qui ed ora l’apres coup, ove quindi si contatta fortemente il limite della trattabilità in senso analitico e riverbera il concetto freudiano di “nevrosi attuale”, in questi casi di organizzazione borderline dalla “patologia così severa” (ibid), potrebbe a mio avviso essere utile prevedere una prima fase di trattamento dell’adolescente in quanto collocato presso comunità di tipo familiare psicodinamicamente orientata, in cui, in buona sostanza, si tenti un lavoro di psichicizzazione da realizzare affiancando l’adolescente nella quotidianeità e realizzando “questo tipo di situazioni ambigue, in cui realtà psichica e realtà tout court si intrecciano, a costituire le opportunità migliori per far scoprire all’adolescente – borderline - la dimensione della realtà psichica - ed ove - non si può che rimanere fortemente impressionati dalla reale rivelazione che costituiscono queste manifestazioni della realtà psichica avvicinate attraverso la protezione di eventi presi nel loro sistema di causalità familiare” (ivi, p. 291). Questa prima fase di intervento potrebbe rendere per l’adolescente borderline psichicamente significante il successivo avvio di una psicoterapia psicoanalitica classicamente intesa, che costituirebbe a mio avviso la seconda fase di un progetto di intervento psicodinamicamente orientato. La comunità di tipo familiare, rispetto ad altre tipologie di comunità genericamente inseribili nel concetto psichiatrico di “strutture intermedie”, si caratterizza per il forte orientamento nel senso del mantenimento del modello familiare di riferimento e quindi forse meglio si presta alla creazione di uno scenario primario, concreto tendente al metaforico, ove iniziare a sensibilizzare l’adolescente borderline all’esperienza rappresentazionale. Per ottenere ciò, risulta inveitabile che la comunità abbia un orientamento psicodinamico, caratterizzato sostanzialmente dalla tensione a rendere dotate di senso e affettivamente investite esperienze concrete, nel senso che qualsiasi esperienza concreta di tipo familiare sia tesa a favorire processi di psichicizzazione. Il tema dei rapporti coi genitori è un altro ambito di estremo interesse clinico nelle realtà di adolescenti in comunità familiare. Quasi sempre la patria potestà dei genitori è stata sospesa ed il minore è stato affidato dal Tribunale per i minorenni al Servizio sociale ‘con collocazione in idonea struttura’. L’interessamento della Tutela pubblica del minore può risultare elemento indicatore della gravità dell’organizzazione della personalità sia dei genitori sia, conseguenzialmente, del figlio adolescente. La difficoltà della scelta e della realizzazione di un progetto che coinvolga i genitori, anche nel senso del loro definitivo allontanamento, impone riflessioni sulle dinamiche psichiche transgenerazionali che sostengono la definizione dell’organizzazione borderline in adolescenza, per la qual cosa si rimanda, oltrechè al già citato contributo di M. Khan (1979), anche ai recenti contributi di Nicolò-Carratelli (1998), Nicolò-Imparato (1999), Carau-Imparato (1999), con i quali vedrei calzante sia l’utilizzazione del concetto di “psicoterapia calibrata” sia la rivalutazione della distorsione della figura paterna nella patogenesi dell’organizzazione borderline. Il pensiero degli Autori andrebbe coniugato e coordinato con la realtà dell’allontanamento coatto - temporaneo, definitivo o da rendere tale - dei genitori, aprendo così l’obiettivo su una problematica la cui trattabilità, a causa dell’evidente complessità, non è compatibile coi limiti della presente, nei quali rientrano altresì aggiuntive coordinate espresse dai concetti di genitore schizofrenogeno e perversogeno (Searles, 1965; Chasseguet Smirgel, 1985).
Il contributo descrive l'esperienza di circa 8 anni di lavoro di consulenza svolto presso alcune comunità di tipo familiare per adolescenti e presso l’“Unione delle Comunità di tipo Familiare di Roma e del Lazio”.
La realtà lavorativa delle comunità seguite era spesso caratterizzata da interventi centrati sull'effetto e non sulla causa dei problemi. Questo per varie motivazioni connesse allo scarso tempo dato a disposizione - a causa della gravità dei 'fatti' e della pressione a far ‘presto e bene’ da parte di Enti locali finanziatari - ed all'azione difensiva di modelli culturali ed etici dominanti nelle professioni d’aiuto. Le conseguenze del lavoro centrato in buona sostanza sulla riduzione dei sintomi si avvertivano nella non soddisfacenza sia dei risultati ottenuti sia della loro durata nel tempo, mentre la patologia, in termini dinamici non affrontata, facilmente continuava ad essere dagli adolescenti proiettata, e spesso agita, nella vita del dopo-comunità: all'interno dell'area diadica e triadica coniugale e genitoriale; in ambito lavorativo e affettivo-relazionale, con ripetuti tentativi e fallimenti di stabilizzazione fino alla deriva nell’outsiders. Entrando in comunità, come elemento ricorrente e dominante, notavo che le dinamiche in-e-tra gruppi (ragazze/i, operatori, volontari, direzione, referenze esterne (Enti locali; Tribunale per i Minorenni, Scuole etc.)), anche nelle diverse combinazioni, provocavano, con periodicità quasi prevedibile, situazioni di impasse determinanti forti rallentamenti o blocchi del processo evolutivo. Il sintomo non veniva ricondotto ad una dinamica intra o inter-psichica mentre, parallelamente, riscontravo l’abuso di terminologie psichiatrico-dinamiche che spesso servivano, pensando in termini bioniani, come contenitore ove depositare tensioni in esubero accumulate fra gruppi all’interno della comunità o fra essa e l’esterno.

ELEMENTI TEORICI

Sul piano teorico ho cercato di riferirmi ad un assetto dinamico che rispondesse alle esigenze dello specifico clinico e sostenesse linee di intervento. Per far ciò mi sono avvalso sia di contributi definibili periferici rispetto alla psicoanalisi, sia, con decisa preferenzialità, di lavori psicoanalitici. I primi mi hanno indirizzato nella vastità delle esperienze anche storiche di psicologia comunitaria (Francescato 1993) e specialmente di psichiatria psicodinamica con riferimenti a contesti di comunità (Bettelheim 1967; Racamier 1972; Gabbard 1994, Bion 1961, pp. 21-32) e di riflettere su vantaggi e limiti di alcuni modelli. Eventuali riferimenti utilizzati sono stati comunque ricodificati in senso psicodinamico. Tra i secondi, in aggiunta a Freud riletto ‘longitudinalmente’ e ‘trasversalmente’, si profila la figura di Winnicott.

Tra partecipazione e interpretazione
Marion (1997), usando le parole della madre di Piggle, considera che Winnicott faceva coesistere, nel proprio idioma professionale, il versante della partecipazione e quello dell'interpretazione e ricorda che il curatore delle Lettere asserisce che "nel trattamento dei pazienti molto disturbati egli - (Winnicott) - riteneva potesse essere indispensabile una fase di gestione in cui ci si prende essenzialmente cura di loro" (p. 216). Entrando nelle comunità familiari per adolescenti ci si può rendere conto fin da subito di avere a che fare con organizzazioni fortemente narcisistiche, per le quali nelle prime fasi di intervento l’utilizzo metodologico della psicoterapia psicoanalitica tout court può risultare meno efficace della proposizione di una fase iniziale di cura intesa come management psicodinamicamente orientato: "E' necessario poter fare assegnamento su un 'ambiente potenzialmente normale' in grado di poter sfruttare i cambiamenti avvenuti (...) - mentre invece - laddove c'è un fattore esterno fortemente avverso che si protrae nel tempo o una carenza di cure personali, allora sarebbe meglio (...) esplorare cosa potrebbe essere fatto per cambiare la 'situazione'" (Winnicott, 1971).
Marion dice che "Il dialogo che instaura Winnicott e la sua piccola paziente – Piggle (Winnicott 1977) - contiene tutto il piano della partecipazione (...) fino ad arrivare all'interpretazione" (1997, p. 217).
I due versanti della partecipazione e dell'interpretazione, uniti alla loro integrazione e successione temporale, sembrano costituire l'idioma del lavoro ad orientamento psicodinamico in comunità e quindi potrebbero sostenerlo sul versante teorico. In tal senso, al polo della "centralità onnicomprensiva della relazione", capacemente investito da Winnicott (ivi, p. 214), potrebbe, nel lavoro di comunità, corrispondere la complessa e articolata azione svolta da operatori, opportunamente preparati, nel quotidiano rapporto con gli assistiti. Quest'azione di management dal corpo alla mente faciliterebbe, poi, l'utilizzo del "polo interpretativo", che nello specifico di comunità andrebbe dal lavoro quotidiano dell’operatore – anche in tal senso pensato, ‘mirato’ e supervisionato - evolutivamente fino all'effettuazione, successiva in ordine temporale, di trattamenti di psicoterapia psicodinamicamente orientata. Penserei con ciò che l'esperienza in comunità, tesa, si potrebbe dire, tra profonda partecipazione e costante interpretazione, potrebbe facilitare, nell'"après cup", processi di psichicizzazione, anche nel senso della trasformazione di materiale psichico fino ad allora inelaborato. Si potrebbe anche paragonare il lavoro psicodinamico in comunità ad un'azione mirata a proporre un'"influenza ambientale che si adatti ai bisogni del bambino" (Winnicott, 1953, p. 268).
L'approccio winnicottiano al lavoro di comunità di tipo familiare è stato curato dallo stesso autore, il quale, negli ultimi 17 anni di vita, ha impegnato una mattina al mese con la supervisione del lavoro di Dockar Drysdale, psicoanalista occupata in un'esperienza di coordinatore, supervisore e terapeuta di una comunità di tipo familiare per bambini e adolescenti:

"Donald told me that he was very interested in my work because so many of my ideas were like his own", (Dockar Drysdale 1980, p. 2).

A seguito del lavoro svolto tra Winnicott e lei si comprese che gli ospiti della comunità all'inizio della cura non fossero in condizioni di fruire delle interpretazioni classicamente inserite nel contesto del setting, poichè la qualità della loro deprivazione agiva nel senso dell'attacco ai processi di simbolizzazione, con inibizione delle capacità rappresentazionali:

"She is well aware of the difference between the psychoanalytic situation with its focus on interpretation, and child care situation where interpretation may be inappropriate and the child unable to use it" (ibidem).

Gli autori ritennero indispensabile introdurre una fase di preparazione all'utilizzo della psicoterapia psicoanalitica caratterizzata dal 'prendersi cura' degli assistiti. Questa fase, svolta da operatori sotto la supervisione dello psicoanalista coordinatore, consiste nell'instaurare con l'assistito una relazione caratterizzata da holding, con forte concentrazione sulla comprensione dei bisogni primari dell'assistito. A questo punto il recupero di possibilità rappresentazionali nell'assistito permetterebbe di procedere nel senso dell'utilizzo della psicoterapia psiconalitica. Al primo approccio si allinea il secondo, il ‘versante della partecipazione’ verrebbe così ad integrarsi e coniugarsi con quello ‘dell'interpretazione’, fino ad assumere quel ruolo di complementarietà descritto da Marion nel passaggio precedentemente citato che ora si espone per intero:

"Il dialogo che si instaura tra Winnicott e la sua paziente - (Piggle) - contiene tutto il piano della partecipazione spesso anche caotico e confuso, fino ad arrivare all'interpretazione che scaturisce come momento di separatezza, di differenza, mai di prevaricazione (...)" (Marion 1997, p. 217).

Nei Clinical Concepts, pubblicati in occasione del Winnicott Centenary Issue, Mikardo comunica di aver conosciuto alla Costwold Comunity di Mrs Dockar Drysdale l'idea di Winnicott circa l'utilità di fare, in alcuni contesti clinici, succedere l'intervento di psicoterapia psicoanalitica ad una fase di contenimento. Il rapporto ‘speciale’ così instaurato, che in parte può ricordare le prime fasi di alcuni trattamenti, oltrechè di Winnicott, di Searles (1965), in termini di evoluzione del processo terapeutico si pone come obiettivo quello di promuovere l'utilizzo della comunicazione verbale tra opertore ed assistito, preparando, in tal modo, l'accesso al lavoro analitico.

Comunication is regarded as the main form of therapy. Each boy meets his particular therapist alone, for one o more short periods each week, during wich time comunication at every sort of level takes place between boy and therapist (Dockar Drysdale, 1980, p. 119).

L'impostazione del modello di intervento che presento ha ampiamente utilizzato l'esperienza visionata da Winnicott alla Costwold Comunity.

Per riflettere sulle funzioni del pensiero e sull'organizzazione psichica che può caratterizzare gli adolescenti assistiti utilizzerò, per ora, alcuni punti di vista di Khan e Green. In termini di organizzazione di personalità, Khan (1979, p. 14) indirizza, nello specifico clinico, verso l'area della "soluzione perversa" come "tendenza alla riparazione" (di se stesso idoleggiato e interiorizzato, della madre, dell'area transizionale), la quale, "giunti alla pubertà e all'adolescenza - sfocerebbe in - un tipo di personalità chiaramente schizoide" (ivi, p. 16). In maniera in qualche modo analoga, Green colloca simili organizzazioni all'interno della descrizione del concetto di "limite", il quale viene dall'autore formulato "nei termini di trasformazione di energia e di simbolizzazione" (1990, p. 108). I limiti dell'ambito psichico sarebbero, per l'autore, "il soma e l'atto" (ivi, p. 109), ed entrambi sembrerebbero ‘percorsi’ dagli adolescenti assistiti; limiti percorsi nei caratteristici movimenti ondulatori coi quali la scissione segue, secondo Green (ivi, p. 114), i movimenti delle precarie frontiere dell'Io sotto l'azione dell'angoscia di separazione e di intrusione. "La funzione del campo psichico è - per Green - la rappresentazione" (ivi, p. 109), che permette la trasformazione di energia attraverso simboli. "Questo implica una modalità pluralistica di rappresentazioni (...) in coppie di termini opposti e complementari" (ibidem). La scarsezza di rappresentazioni tipica del “caso limite” (Green) o “perverso” e “schizoide” (Khan) sembrerebbe caratterizzare, come sopra illustrato, lo psichismo degli adolescenti presentati e potrebbe motivare scelte di metodo orientate, anche attraverso l'uso elettivo del pensiero, nel senso dell'incremento della capacità simbolica, atta a favorire catene rappresentazionali determinanti la psichicizzazione. Articolerei tali concezioni col punto di vista di Tanopulos circa
le tappe evolutive del recupero della capacità di pensare - che consisterebbero in - un primo momento in cui il terapeuta deve farsi carico di ciò che il paziente 'agisce' senza essere in grado di pensare; un secondo momento in cui il paziente inizia a colmare il vuoto di pensabilità con vissuti pensati per la prima volta; un terzo momento, infine, nel quale il paziente si mostra capace di pensare alle sue condizioni di esistenza" (Thanopulos 1997, p. 395).

Gruppalità
Altro tema di pertinenza è quello dell'utilizzo dell'attività gruppale come momento terapeutico atto a favorire l'evoluzione dello psichismo individuale. In termini metapsicologici, soggetti scarsamente psichicizzati, con ridotte capacità di rappresentazione e facilità alla scarica nell'agito, potrebbero psichicamente evolvere attraverso un trattamento che preveda esperienze di gruppalità. Sembrerebbe che da tali pazienti il gruppo possa esser utilizzato per rappresentarvi gli elementi della propria frammentarietà e che lavorando a livello di queste rudimentali rappresentazioni, spesso le sole possibili, si possano favorire processi di integrazione, dal gruppo all'individuo. Per riflettere con la letteratura su quanto espresso, mi riferirò per ora sinteticamente solo a Freud e Gaddini. I due autori non hanno clinicamente operato coi gruppi e sembrano affrontare la materia esclusivamente dal vertice, preferibile per il nostro scopo, del punto di vista metapsicologico.
La trasformazione verso la non unitarietà della struttura soggettuale, avvenuta tra la prima (1899) e la seconda (1922) topica freudiana, fanno pensare che se nella prima il sogno era il modello fondatore dell'apparato psichico, e della situazione analitica, nella seconda lo sia per entrambe la rappresentazione della psiche come gruppalità. I passaggi della “debolezza dell'Io” (Freud 1925) (1) ribaltano l'opinione della sua primarietà, unitarietà e autonomia a vantaggio di un concetto di perifericità intrapsichica dell'esperienza soggettuale. Del resto Freud dimostrerebbe interesse per la gruppalità, sia in quanto espressione dello psichismo rudimentale e delle sue evoluzioni (1912-13) (2) sia in quanto area ("campo") di elaborazione del concetto di psichismo come realtà frammentata soggetta a modifiche (nel senso del legame o del non legame) (1921/a) (3). L'utilizzo del modello di "campo" forse aiuta a concettualizzare un pensiero sorto riflettendo intorno al punto di vista di Freud: se la psiche è rappresentabile come gruppalità (egoica, pulsionale etc.) e paziente ed analista creano un campo di funzionamento gruppale ove si possono verificare trasformazioni mirate alla formazione di rappresentazioni con valore egoico, nel caso di uno psichismo rudimentale, ove ogni emergenza soggettuale è centralizzata, mentre con buone possibilità il campo di funzionamento gruppale analista-paziente non trasformerà gli affetti in rappresentazioni che abbiano valore soggettuale per la mente del paziente, il campo costituito da un gruppo di individui potrebbe riuscire a realizzare livelli di regressione tali da permettere la condivisione gruppale della frammentarietà stessa, sintetizzando così una prima cellula trasformativa con valenze rappresentazionali in grado di riprodursi ed ampliare l'esperienza psichica (la frammentarietà intrapsichica sarebbe rappresentata nel gruppo frammentato). Questo pensiero sembra, del resto, introdurre e commentare il punto di vista di Gaddini (1983, pp. 578-581), che verrà pertanto riferito testualmente:
"(...) Torniamo a livello dell'integrazione del gruppo. Da quel che sappiamo noi siamo in grado di ritenere che il gruppo corrisponda internamente alla organizzazione del Sè separato, prima che questo giunga a un'organizzazione unitaria, alla capacità di essere uno e non più molteplice, tanto da essere pronto all'inizio del rapporto oggettuale. (...) Si dovrebbe poter riconoscere nel gruppo in modo macroscopico aspetti e fenomeni che noi siamo abituati a vedere nell'individuo con l'ultramicroscopio analitico. (...) In un gruppo, (...) ciò che dobbiamo aspettarci è che vi sia una componente variabile di gradi di integrazione individuale, per cui la partecipazione di ciascuno al gruppo sarà evidentemente in funzione dell'interazione non raggiunta in ciascun individuo (...). L'importanza dello stato di non integrazione è che in origine, con l'avvento sconvolgente della separazione, è diventato il primo livello di organizzazione mentale.Non è uno stare a pezzi nell'aria, è uno stare a pezzi insieme, quindi è un insieme, per riferirlo al gruppo, non integrato. Per questo io dico che qualunque insieme, inquanto è un insieme, è un gruppo. (...) Ciò vorrebbe dire che ciascun individuo avrebbe così la possibilità di riattivare, nel vissuto macroscopico e concreto del gruppo, i propri processi di integrazione a suo tempo impediti. Se ciò avvenisse, sarebbe lecito parlare di una terapia dell'individuo attraverso il gruppo".
Il ricorso a Freud ha aiutato anche nell'organizzazione dell'assetto metodologico complessivo delle comunità: tutte le attività presentate tenderebbero infatti a favorire processi di integrazione: tra elementi del progetto, tra componenti di uno stesso gruppo, tra gruppi diversi e nell'esperienza intrapsichica personale. Freud, come già accennato, coglie sia la complessità dell'organizzazione egoica (1922), sia la tendenza alla sua rappresentazione nel contesto gruppale (1921), sia la necessità dell'acquisizione di capacità di gestione della convivenza di elementi separati nella struttura soggettiva (1922). Ciò, insieme a letteratura posteriore e maggiormente ‘orientata’ (penso ad esempio a Bion 1961-1967, ma anche a Searles 1965), può permettere di considerare che il gruppo in toto della comunità, così come quello dell’unione delle comunità, possa, tra l'altro costituire, per ciascun suo membro, dato anche l'intenso coinvolgimento affettivo al quale le organizzazioni psichiche dei soggetti ospitati sottopongono soggetto e oggetto, un insieme di rappresentazioni di elementi della propria complessità egoica, e possa offrire, attraverso l'azione di incremento di psichicizzazione sia delle rappresentazioni stesse sia del loro investimento affettivo, una strada verso l'integrazione di elementi della struttura soggettuale, dal gruppo all'individuo. Circa la natura tendenzialmente gruppale dell'organizzazione di personalità degli adolescenti assistiti, in termini psichici sembra che vi sia spesso, in loro, un gruppo interno che può essere alle volte ‘selvaggio’, alle volte gruppo più funzionale, maggiormente libidico, che lavora e da cui emerge il ‘soggetto del gruppo’, ma la cui caratteristica rimane, appunto, la gruppalità, la non integrazione, l'anonimato. Potrei dire che forse al di sotto, ed attraverso l'azione, di un intervento psicologico che si occupa di curare, in superficie, le relazioni, globalmente intese, di un gruppo complesso, io abbia tentato o inteso tentare, a più livelli, di far procedere un intervento metapsicologico che si occupasse di favorire esperienze rappresentazionali, e quindi processi di psichicizzazione tendenti all'integrazione della pluralità dell'esperienza psichica soggettiva.

IL LAVORO
Presento un modello da me genericamente usato nei vari contesti. A parte accennerò al lavoro con l’Unione delle Comunità.

Formazione di base
Prima esigenza era formare gli operatori. Sono così stati istituiti classici seminari di formazione ad orientamento psicodinamico. La formazione aveva come fulcro la Infant Observation (Bonaminio-Iaccarino 1984; Di Renzo 1992-'94; Baldini 1999). L'elemento di formazione, condiviso come basilare, ha attraversato tutte le fasi evolutive della costituzione dell'approccio psicodinamico, divenendo via via progressivamente più specifico e affrontando così temi più coinvolgenti sul piano personale quali la centralità del ruolo del vissuto emozionale dell'operatore, della conoscenza e gestione del proprio vissuto nell'effettuazione di un ‘buon lavoro’. Sul piano del risultato, ad una facile iniziale accettazione del concetto di terapeuticità, psicodinamicamente intesa, di tutte le componenti del lavoro dell'operatore, a partire dal vertice già citato del vissuto emozionale, si è in seguito affiancata una difficoltà intorno alla comprensione profonda e non astratta del concetto stesso e della sua conseguente e susseguente messa in opera in termini di "Psicoterapia in cucina" (Fraiberg 1987 - Muscetta 1995). E' stato possibile, in questa fase, registare ulteriormente la caratteristica di rudimentalità della ‘mente del gruppo’, la quale conduceva a sposare in massa l'idea del conduttore circa l'utilità dell'applicazione del nuovo intervento, ed evidenziava, in seguito, una difficoltà a condividere la sua applicazione specialmente in termini di esperienza personale e trasformativa a disposizione dell'assistito. Nel periodo descritto si è inizialmente concretizzato un vissuto gruppale di idoleggiamento del terapeuta e della disciplina che rappresentava, ai quali sono stati a volte attribuiti poteri salvifichi. Il gruppo degli operatori più o meno in toto presentava, come mostrato, una facilità al funzionamento in ‘assunti di base’ e nello specifico in quello di dipendenza.

Lavoro coi gruppi
Nella definizione del lavoro, è risultato da subito indispensabile utilizzare la caratteristica dell'assetto plurigruppale della comunità, composta dai gruppi degli operatori strutturati, dei volontari e di referenze via via più distanti. Erano infatti ab initio comprensibili una serie di fattori così riassumibili: che, come in parte accennato, tutti i gruppi permanevano in "assunti di base", con atti di sottomissione al capo e sotterranee tensioni di "attacco-fuga" ed "accoppiamento" (Bion 1961); che l'evoluzione di ogni gruppo avrebbe potuto sostenere l'evoluzione di ogni elemento al suo interno, permettendo, tra l'altro, la costituzione e l'emersione della "mente del gruppo" in stato di rapporto dialogico con quella individuale (ivi); che l'evoluzione del gruppo specifico degli operatori avrebbe facilitato, sostenuto e finanche permesso quella del gruppo degli adolescenti; che una statica permanenza dei gruppi in 'assunti di base' avrebbe presto minacciato la sopravvivenza del metodo intrapreso in quanto mirante all'evoluzione; che gli adolescenti assistiti presentavano dei crolli compromettenti nell'area delle relazioni di gruppalità (intrapsichiche e di conseguenza interpsichiche) e che, di conseguenza, un lavoro impostato in termini di gruppi e relazioni tra gruppi avrebbe costituito un interessante fattore terapeutico; che molte delle dinamiche che andavano ad incidere come giudizio a carico di assistiti od operatori traevano origine da manovre di aggiustamento all'interno dei singoli gruppi o tra i gruppi stessi, allontanando operatori e ragazzi dalla comprensione dei fatti in esame.

"L'espressione 'terapia di gruppo' ha due accezioni. Può riferirsi tanto alla cura di un certo numero di persone riunite in particolari sedute terapeutiche, quanto al tentativo preordinato di far maturare in un gruppo delle forze che facilitino una attività di cooperazione. La terapia di persone riunite in gruppo mira di solito alla spiegazione dei loro disturbi nevrotici (...). La terapia dei gruppi consiste nel far acquisire una conoscenza e una esperienza dei fattori che favoriscono la formazione di un buon spirito di gruppo" (Bion 1961, p. 17).

Evoluzione del gruppo degli operatori verso la condivisione di una metodologia ad orientamento psicodinamico
Dal lavoro coi gruppi è emersa, tra l'altro, la stretta dipendenza dell'andamento di ogni singolo progetto dalle dinamiche ad origine primariamente all'interno del gruppo degli operatori strutturati, vera area motrice della comunità sulla quale si è inizialmente principalmente focalizzato l'interesse dell'intervento. Gradualmente nel tempo, quel gruppo ha cominciato ad alternare il lavoro in assunti di base con nuove modalità maggiormente evolute, dando, ad esempio, più respiro al rispetto del pensiero del singolo; parallelamente il pensiero di ciascuno, pur rimanendo individuale, ha iniziato spontaneamente ad uniformarsi a qualcosa che nasceva nel gruppo, dando vita embrionale alla mente gruppale (Bion 1961; Kaes 1993; Neri 1995). In quella fase è sembrato opportuno procedere alla composizione, nel gruppo in visione, di un assetto metodologico e progettuale che fosse centrato non sul mondo esterno nè su quello interno ma sui processi di formazione del mondo interno, e che avesse un focus nel libero fluire del pensiero e delle rappresentazioni personali, nella loro aperta proposizione agli altri membri del gruppo e nella ricerca di soluzioni, sempre provvisorie e soggette a modifiche, nella mente del gruppo stesso. Il progressivo calo delle resistenze degli operatori alla condivisione del nuovo metodo di lavoro favoriva la sua accettazione nel gruppo degli adolescenti, i quali di per loro non sembravano presentare alcuna perplessità. Eventuali attacchi al metodo da parte dei ragazzi erano sempre secondari a dinamiche di attacco ad origine nel gruppo degli operatori. Tentativi di rapporti psicoterapeutici condotti precedentemente l'esecuzione del lavoro con il gruppo degli operatori hanno prodotto spesso un’interessante e pericolosa forma di divaricazione tra momento ‘curativo’, svolto con lo psicoterpeuta in seduta, e momento ‘educativo’, vissuto con l'operatore, favorendo, tra ragazzi, operatori e terapeuta, il mantenimento di modalità psichiche connotate da distrazione tra parti ‘sane’, più o meno carenti e affidate agli operatori, e parti ‘malate’, affidate alla cura dello psicoterapeuta, e, parallelamente, parti emergenti del falso Sé presentate al terapeuta e parti maggiormente adese alla ‘vera natura’ condivise con gli operatori nella quotidianeità. La psicoterapia esterna alla comunità risultava spesso fallimentare se priva di un lavoro elaborativo sulle proprie fantasie di attacco alla psicoterapia da parte del gruppo degli operatori; attacchi causati da investimenti affettivi ambivalenti (amore, invidia, gelosia) sulla persona del terapeuta, o sulla sua istituzione di appartenenza, e relativi alla sua potenza, alla sue possibilità curative, alla sottrazione del ragazzo/a, alla sottrazione della patologia in quanto elemento necessario alla sopravvivenza del gruppo stesso e funzionale all’equilibrio intrapsichico di ogni suo membro. Ho riscontrato che l'integrazione tra le attività a qualsiasi livello svolte nella comunità funzionava da elemento integrante la personalità degli adolescenti, mentre la non accortezza in tal senso, anche in progetti efficienti sul piano delle singole iniziative, favoriva apparenti gradienti di evoluzione psichica in singoli settori - evoluzione che spesso celava la mancanza di coesione tra i settori stessi - e l'utilizzo di organizzazioni difensive caratterizzate da non integrazione secondo il modello del "Falso Sè" (Winnicott 1965/a). Le comunità, genericamente intese, risentono spesso di una tradizione metodologica a sfondo pedagogico che costruisce il proprio modello di riferimento intorno al concetto di educazione (ex ducere). Questa matrice ideologica di cui è nota la valenza difensiva, tenderebbe a limitare l'emersione della personalità, in quanto orientata più alla sua conversione che alla comprensione, con scarsa disponibilità quindi, in termini di assetto interno soggettuale e istituzionale, per il riconoscimento dell'individuo in senso metapsicologico e di conseguenza per l'impianto di un modello istituzionale ad orientamento psicodinamico. Concettualmente l'approccio tradizionale, per convertire pensieri ‘errati’ in ‘giusti’, deve limitare le facoltà di pensiero, favorendo in tal modo il rinforzo dell'utilizzo di noti meccanismi di attacco alla pensabilità dei pensieri ed al legame tra i pensieri stessi (Bion 1967, p. 63-101). Le comunità in visione, avendo scelto di orientarsi in senso psicodinamico, erano dall'inizio intensamente interessate a superare i limiti del modello sopra descritto, nel quale, però, non potevano almeno in parte non identificarsi, date anche la matrice culturale originaria ed il fatto stesso di essere un istituzione. L'evoluzione in senso psicodinamico delle comunità non poteva che avvenire attraverso conflitti, recuperi del vecchio o del nuovo stato, attacchi allo psicoterapeuta. Riassumendo cronologicamente la successione delle dinamiche gruppali, dopo una fase già accennata di stabile ‘idoleggiamento’ del terapeuta (dipendenza), con una certa prevedibilità dei fatti ci si è quindi trovati a dover gestire, in seno al gruppo-istituzione inteso nel suo insieme, un periodo caratterizzato da intensa fibrillazione nei passaggi tra i vari livelli di funzionamento in assunti di base, di solito secondaria e reattiva a episodi connotati da ‘picchi’ evolutivamente significativi. In questa fase il terapeuta è stato spesso oggetto di attacchi mirati a neutralizzare il processo di crescita in corso. L'uso dell'interpretazione all'interno dei vari contesti gruppali, gradualmente inserito e divenuto metodico, ha spesso favorito l'elaborazione ed il superamento della fase più critica, stabilendo il raggiungimento di una condizione di parziale armonia nell'interazione e nell'integrazione dei vari livelli di funzionalità dei gruppi, ivi compreso quello della comunità in toto. In un caso è sopravvenuto a questo punto il fallimento dell’iniziativa e l’interruzione della collaborazione: l’evoluzione complessiva dei vari gruppi avrebbe dovuto comportare la conseguenziale elaborazione, nello staff direttivo, di una trasformazione dell’assetto della comunità e del personale ruolo; l’impossibilità della realizzazione di tale processo, uno dei punti di minor resistentiae dell’iniziativa in toto, avrebbe determinato l’attacco alla metodologia e la sua espulsione.

Il mio lavoro in comunità
Dopo anni di lavoro e solo in alcune comunità sono riuscito a dimostrare e più in là a far percepire, come il ‘progetto educativo’, perno del rapporto tra la comunità e le referenze esterne, dovesse consistere primariamente e principalmente nell’analisi e successiva gestione delle intense dinamiche ad insorgenza nel gruppo degli operatori, ove i vissuti di ciascun membro, in rapporto alla storia ed agli affetti connessi all’adolescente in visione, si raccordavano altresì ad altrettanti vissuti originari analogamente negli altri operatori rispetto allo stesso contesto evocativo. Quello scenario multiplo avrebbe significato, cioè, la rappresentazione della mente dell’adolescente: elementi scissi e proiettati singolarmente in ciascun operatore, che inconsapevolmente li agiva in agonismo o antagonismo con i colleghi, in assenza cioè di elementi evolutivamente superiori ed aventi a che fare col legame a cui accedere attraverso la tolleranza anche rabbiosa del conflitto; conflitto che nel gruppo di operatori veniva inizialmente negato, attraverso l’uso di difese di stampo democraticistico e buonistico, dando spazio a movimenti di attacco spesso sotterraneo senza riconoscimento della posizione dell’altro. In alcuni casi si è potuto sperimentare che quando il gruppo degli operatori era in grado di funzionare come una unità soggettuale, formata da diverse istanze componenti in stretto legame anche conflittuale tra loro, anche la mente dell’adolescente, le cui componenti scisse erano inizialmente proiettate nelle menti degli operatori, in quella del gruppo di operatori in toto ed in quella dell’intera comunità, raggiungeva livelli di maggior coesione tra dette unità, maggior legame tra affetti e rappresentazioni, maggior accesso alla pensabilità. Se la comunità arrivava a sentire inutilizzabile il vecchio concetto di progetto a favore delle nuove condizioni sperimentate, spesso si verificava un vuoto epistemologico generante inquietudine e movimenti regressivi (Winnicott 1954).
Il lavoro col gruppo unito operatori e adolescenti, in pratica la parte centrale della comunità, era fortemente teso a far emergere la personalità dei ragazzi, i quali potevano in tale ambito utilizzare la comunità anche per veicolare quegli attacchi all’adultità (persone, valori, sistema sociale etc.) necessari alla crescita. In tali contesti, il gruppo degli operatori soffriva molto, e spesso i rischi di rottura di collaborazioni potevano utilizzare tale sofferenza per definirsi. In aggiunta alla formazione permanente già citata, gli operatori potevano fruire di supervisioni sia di gruppo sia individuali. In quelle individuali spesso si considerava l’incidenza della fantasmatica personale sulle dinamiche affettive connotanti i rapporti con assistiti o altri operatori. Spesso la supervisione individuale veniva utilizzata per risolvere condizioni di impasse ed il lavoro, una volta sufficientemente elaborato, veniva portato e condiviso nel gruppo degli operatori. Dopo un po’ di tempo si è, con frequenza quasi totale, verificata la richiesta spontanea di colloqui da parte degli adolescenti, richiesta che io ho assecondato pensando ad una sorta di lavoro propedeutico all’avvio di psicoterapie esterne. Debbo riconoscere che tali colloqui, pur con le limitazioni in termini di tutela dell’asetticità del setting ben comprensibili dato il contesto, hanno permesso l’effettuazione di un particolare lavoro, come se questi adolescenti, all’avvio di un’esperienza psicoterapeutica, avessero bisogno che venisse mantenuta parte dell’ambiguità delle loro dinamiche affettive primarie, fortemente confondenti, in una relazione nuova che accettasse tale ambiguità (ad esempio poteva accadere che tutti gli adolescenti avessero scelto di avere sedute con me) ma la proponesse nel rispetto dell’individualità. In tal senso è interessante osservare che poco dopo l’avvio dei colloqui, ciascun assistito si fosse fidato completamente del mio rispetto del segreto, pur sapendo che io avrei avuto contatti con tutta la comunità; come se gli adolescenti mi avessero suggerito che elementi trasformativi per loro fruibili non potessero che partire dal livello dell’ambiguità affettiva e dal suo superamento. Può esser motivo di riflessione la constatazione che, superata una prima fase di insediamento dell’approccio dinamicamente orientato, alcuni tra operatori e ragazzi si siano spontaneamente indirizzati verso richieste di psicoterapia individuale, ovviamente esterna, e che le domande di colloqui con me siano andate diminuendo. Penso che quanto riferito possa costituire uno stimolo per riflessioni e discussioni.

Il lavoro con l’Unione delle Comunità di tipo Familiare di Roma e del Lazio
Negli ultimi 5-6 anni sono stato chiamato da tale unione a condurre seminari di formazione per i direttori di alcune delle comunità iscritte. Dato quanto già espresso, ho pensato di proporre loro un’esperienza di gruppo. Si è andato costituendo un gruppo di direttori che negli anni è variato dalle 10 alle 30 unità circa. Le comunità avevano una utenza varia, ma dopo pochi incontri è divenuta inequivocabile la volontà ed il bisogno di indirizzare ed utilizzare gli incontri orientandoli sul lavoro con adolescenti borderline, per motivi connessi alle elevate richieste, alle insistenti difficoltà di gestione – spesso insormontabili – ed alla scarsa preparazione teorica e tecnica. All’inizio mi veniva richiesto di offrire soluzioni al ‘cosa fare’ per dare risposte principalmente agli agiti dei ragazzi: alle fughe, alle azioni fortemente antisociali condotte dentro e fuori della comunità, agli elementi, quindi, che determinano spesso e ripetutamente il fallimento della presa in carico e l’avvio ad altra comunità di ogni singolo adolescente, in un circuito di ammissioni e dimissioni che riattiva nei ragazzi vissuti di rifiuto e rinforza i sintomi. Ho adattato il modello di lavoro gruppale di una singola comunità al nuovo contesto di direttori di un’unione di comunità, sensibilizzando verso la considerazione dell’importanza del vissuto e dell’assetto interno del singolo operatore, del gruppo della comunità e, più nello specifico, del gruppo dell’unione delle comunità. Notavo che la qualità della frammentazione che caratterizza l’organizzazione psichica dell’adolescente borderline, in qualche modo caratterizzava anche i legami tra le comunità dell’unione. Ho così immaginato che un vantaggio notevole lo si sarebbe potuto raggiungere considerando la mente dell’unione dei direttori come una mente gruppale in statu nascendi e lavorando con essa cercando di favorire la sua evoluzione. L’obiettivo da raggiungere in futuro sarebbe quello di offrire all’adolescente borderline una rete di comunità specializzate e federate sotto l’egidia dell’orientamento psicodinamico, tra le quali le espressioni della rudimentalità della sua evoluzione psichica, compresa la tanto temuta fuga, potrebbero con maggiori chanche essere tenute all’interno di un contenitore (rete), affettivamente investite ed ascritte ad ordini di significanza. In altri termini, l’adolescente avrebbe uno scenario maggiormente articolato ove avviare tentativi rappresentazionali, dato che la sua rudimentalità, in senso metapsicologico, spesso limita fortemente la possibilità di sovrapporre investimenti multipli e conflittuali sullo stesso oggetto, sia esso operatore, struttura ospitante, scuola etc. Nei primi due anni di consulenza, date le fisiologiche difficoltà del gruppo, è stato utile svolgere un lavoro di orientamento e solo da un anno e mezzo sono riuscito ad impostare una metodologia nella modalità esposta. Direi che le difficoltà sono evidenti, i risultati iniziali ma incoraggianti.


Discussione
La compessità dei temi e delle domande e i motivi di perplessità a cui il contributo sembra rimandare, possono comportare, anche per esigenze di sinteticità, l'utilizzo di un criterio ordinatorio o selettivo nella fase di discussione. Ho pensato, a tal fine, di ripercorrere brevemente l'iter delle discussioni nel modo in cui si sono presentate nella mia mente nel corso dell'esperienza e così come le ho condotte nella riflessione anche col polo speculativo offerto dalla letteratura.
Penso che l’esperienza descritta possa essere inquadrata anche come un tentativo di creare un ‘setting’ istituzionale ove svolgere “psicoterapie in cucina”, ritenibili utili con la tipologia di adolescenti borderline trattati (Fraiberg 1987; Muscetta 1992). In tale ‘setting’ gli operatori sarebbero sensibilizzati ad un lavoro che coniugherebbe assetto psicodinamico e capacità di sua interpretazione nella quotidianeità con l’adolescente.
Una prima perplessità, come già accennato, riguarda la pratica delle consultazioni all’interno della comunità: il fatto di avere, anche se solo in una fase iniziale e per i motivi esposti, incontri dinamicamente orientati con tutti, dagli operatori agli adolescenti ai gruppi, potrebbe limitare il processo di individuazione e separazione ritenibile, in buona misura, una delle interpretazioni possibili dell’iniziativa. Altro rischio è la possibilità di attacco dell’orda al padre troppo potente. Tutti i colloqui, e specialmente quelli con gli adolescenti, avevano un limite - oltrechè una possibilità, come sopra giustificato - nella sovrapposizione di elementi reali, concretamente condivisi con me, con elementi di transfert.
Un’aggiuntiva perplessità concerne i rischi potenzialmente sollevabili dalle scelte di metodo. L'applicazione di un approccio ad orientamento psicodinamico al di fuori del contesto elettivamente psicoanalitico, espone sia al rischio clinico di un lavoro eseguito ‘fuori asse’, destinabile, di conseguenza, a più facile ‘rottura’, sia al rischio, di portata non meno ampia e di tipo deontologico, connesso alla partecipazione ad interventi che, ad una visione a distanza, potrebbero risultare contribuenti ad un processo di designificazione del concetto di terapia psicoanalitica, del suo assetto di cura e del concetto stesso di psichismo (Green 1995; Di Chiara - Pirillo 1997). Una soluzione che favorisse la gestione del problema è stata ricercata nella rivisitazione del pensiero di Freud e nella ricerca, in esso, della presenza in nuce di elementi di successivi sviluppi della psicoanalisi. Il mantenimento di una vicinanza al pensiero di Freud, l'esperienza del training analitico personale e di quello formativo, potrebbero aver favorito, in me, la ricerca di un assetto mentale metapsicologico al quale sottoporre, in aggiunta alle risorse offerte anche dalla letteratura in parte già prodotta, domande su scelte di metodo.
Inoltre discuterei che dall'esperienza effettuata e dal vaglio della letteratura sembra emergere che la terapia elettivamente più idonea, costituita da un terapeuta ed un setting esterno, favoriscano, nel caso dello specifico clinico visionato e nelle sole fasi iniziali della presa in carico, risultati minormente significativi rispetto a quelli producibili dal setting interno alla comunità stessa, inteso nel senso, esposto nel lavoro, della comunità che, in un certo qual modo, si fa setting. A sostegno di quanto ipotizzato, è pensabile che il livello di integrazione soggettiva non possa essere sufficiente a garantire lo svolgimento di un intervento psicoterapeutico psicoanalitico ortodosso, mentre altri fattori della personalità degli adolescenti assistiti, quali la tendenza all'agito e all'idealizzazione, possano favorire un uso paradosso di tale trattamento, nel senso della sua utilizzazione anche come elemento di splitting tra parti ‘sane’ idealizzate per-e-con il terapeuta e parti ‘malate’ agite con la comunità. I trattamenti di psicoterapia psicoanalitica svolti all'esterno della comunità sono stati spesso interrotti per mancanza di risultati, per drop-out o per l'evidenziazione del rischio della frattura sopra descritta. Sarebbe interessante confrontare i dati clinici emersi dall'esperienza delle comunità con quelli delle Istituzioni, ad esempio pubbliche, che svolgono psicoterapie psicoanalitiche con simili soggetti durante la permanenza in comunità. Sembra, in sintesi, che l'attenzione ai processi di integrazione, date le risorse psichiche di partenza, non possa che coinvolgere anche l'assetto psicoterapeutico, il quale forse dovrebbe quindi inizialmente armonicamente inserirsi nel contesto delle attività della comunità, metafora dello psichismo dal gruppale al soggettivo. Mi sembra che spesso, in termini di evoluzione psichica, quando un adolescente è pronto a lasciare la comunità - sotto una tutela che non può interrompersi ma trasformarsi, e se si fossero realizzate le condizioni per aver fatto un ‘buon lavoro’ - egli sarebbe anche pronto per accedere all'esperienza di una psicoterapia psicoanalitica ortodossa, verso la quale viene tendenzialmente orientato da tutto il lavoro svolto.
Discuterei anche intorno alla centralità che, nella definizione dell'assetto metodologico della comunità, è stata conferita alla promozione dei processi di pensiero ed al loro libero fluire. Come abbiamo visto, qualsiasi attività, individuale o di gruppo, assumeva un vertice ed una finalizzazione nella facilitazione della produzione e dello scambio del pensiero.

Riflettendo in maniera conclusiva sull'esperienza riportata, mi sembra con essa di aver tentato di percorrere lo spazio che separa, integra e può rendere compatibili, il versante della partecipazione e quello dell'interpretazione, anche con l'intento di trovare, nell'assoluta coerenza analitica di Winnicott, tracce del percorso atto a tentare di rendere utilizzabili, pure in condizioni ‘al-limite’, gli insegnamenti di Freud.


Riassunto
L’autore, coniugando l’esperienza professionale presso comunità di tipo familiare con un forte riferimento teorico nella psicoanalisi, tenta una risposta alla difficoltà di trattamento dell’adolescente borderline proponendo modalità di lavoro presso tali istituzioni di cura.


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Note:
1) Mi riferisco ai seguenti contributi: Frammento di un'analisi di isteria (caso clinico di Dora) (1901); Tre saggi sulla teoria sessuale (1905); Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci (1910); Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia descritto autobiograficamente (caso clinico del presidente Schreber) (1910); Introduzione al narcisismo (1914); Pulsioni e loro destini (1915); Al di là del principio del piacere (1920); Alcuni meccanismi nevrotici nella gelosia, paranoia e omosessualità (1921/b); L'Io e l'Es (1922).

2) In tal senso si potrebbe ad esempio vedere l'"Orda" (1912-13) come realtà psichica indifferenziata.
3) In tal senso l'"Orda" (1912-13) potrebbe anche ritenersi una sorta di anticipazione dell'Es.

* Dr Tito Baldini (membro ordinario S.I.Ps.I.A.; membro associato A.R.P.Ad.),
Via dei Campani, 56 – 00185 – Roma
Tel. e fax.: 0644700133 - E-mail tito.baldini@fastwebnet.it





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