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Anno III - N° 1 - Gennaio 2003

Tra sedia e divano




Dialogo con Giuseppe Pellizzari sulla sua relazione “la psicoanalisi degli adolescenti ha cambiato la tecnica psicoanalitica?”*

A cura di P. G. Laniso



In questo numero della Rubrica pubblico le acute risposte ad alcune domande che ho rivolto a Giuseppe Pellizzari, psicoanalista milanese, membro con funzioni di training della Società Psicoanalitica Italiana, ben noto per la sua conoscenza degli adolescenti, coautore di un recente volume dal titolo “Nuovi fondamenti per la tecnica psicoanalitica”, edito da Borla (1999), domande a proposito della sua relazione citata nel titolo, che ha destato molto interesse ed è riportata integralmente in questo stesso numero della Rivista, fra i lavori originali.

Laniso: «Gentile Dr. Pellizzari, una prima impressione che la sua relazione suscita è che un fattore motivazionale determinante che spinge un adolescente all’incontro con uno psicoanalista sia costituito dalla capacità di questi di mettere in movimento “l’interesse, la curiosità, la passione dell’esperienza come processo conoscitivo di formazione”, come avventura nella quale il soggetto possa trasferire anche un resto insaturo di potenzialità creative in via di formazione, ignote perché non ancora sperimentate”.
Ecco la prima domanda (precisando che, come per le seguenti mi sono attenuto al punto di osservazione specifico di questa Rubrica): dalla riflessione sul suo lavoro con gli adolescenti nella stanza d’analisi, le sembra che la forma dell’esperienza con essi e la costruzione del setting si siano orientate prevalentemente verso un’analisi propriamente detta (tenendo conto del paradigma narcisistico-esperienziale da lei proposto), o piuttosto verso processi terapeutici più brevi e meno frequenti quanto a sedute, anche se parimenti intensi e tumultuosi?
Inoltre, ipotizzando che abbia constatato entrambe le evenienze, ha potuto collegare l’una e l’altra al livello di soggettivazione dei giovani pazienti, alla funzionalità del loro preconscio, alla severità dei sintomi presentati?»

Pellizzari: «Devo premettere che gran parte della mia esperienza si riferisce ad adolescenti che ho avuto modo di seguire in un servizio pubblico quale è il “progetto A”, dove non esistono le condizioni per trattamenti psicoanalitici tradizionalmente intesi. In ogni caso ritengo che gli adolescenti che di fatto trovano come proprio ambito naturale di terapia la psicoanalisi “classica” (tre-quattro sedute settimanali sul lettino) siano relativamente pochi. Questo per varie ragioni. Innanzitutto occorre pensare che, come ho sostenuto nella relazione di Firenze, abbiamo a che fare con un Io in formazione, che richiede quindi un percorso personalizzato di avvicinamento ad una possibile alleanza terapeutica; il Setting, che ne è l’espressione spazio-temporale, è destinato a strutturarsi cammin facendo e subendo frequentemente variazioni, sia per quel che concerne la frequenza delle sedute, sia per l’uso del lettino piuttosto che per il vis à vis. Inoltre le pressioni e l’influenza dell’“esterno” sono assai più rilevanti che per l’analisi degli adulti. Non dobbiamo dimenticare che l’adolescente che viene in analisi non è in grado di pagarsi la terapia e dipende per questo dai familiari; tale dipendenza forzata viene generalmente vissuta in modo conflittuale, cosa che non si verifica nel caso dei bambini. La consapevolezza di gravare considerevolmente sul bilancio dei genitori costituisce spesso un ostacolo rilevante all’instaurarsi della relazione di transfert, suscitando sentimenti di colpa o formazioni reattive di tipo vendicativo o parassitario, che non sempre possono essere proficuamente analizzate. La richiesta, per esempio, di diminuire il numero delle sedute onde poter contribuire alla pari, con il profitto di qualche lavoretto estemporaneo, al loro pagamento rispetto ai genitori è da considerarsi un attacco all’analisi?
L’accettazione “diligente” del contratto analitico da parte di un adolescente è sempre sospetta, in quanto elude la naturale conflittualità edipica che oscilla tra ricerca di autonomia e bisogno di dipendenza.
Un’analisi “classica”, in certi casi, può, a mio parere, rappresentare un rifugio difensivo rispetto all’ignoto dell’esperienza, una sorta di bastione che impedisce la dialettica esterno-interno, pensiero-azione, indispensabile perché vi sia un autentico processo di soggettivazione dell’esperienza.
Si è spesso insistito sulla necessità di contrastare la tendenza ad agire degli adolescenti, sostenendo la necessità di pensare piuttosto che agire, tuttavia occorre considerare anche la necessità opposta: a volte, per poter davvero pensare, è indispensabile agire e il pensiero può essere usato come difesa dall’agire. L’adolescente in particolare ha bisogno soprattutto di stabilire un contrappunto tra l’area dell’elaborazione e della riflessione analitica e il campo libero della sperimentazione autonoma; un eccesso di investimento sulla relazione analitica può risultare dannoso e ostacolante e colludere con le difese che inibiscono lo sviluppo della soggettivazione. Questo non significa rinunciare allo strumento analitico classico in favore di adattamenti e scorciatoie, al contrario significa riscoprirne la fecondità e la creatività in un contesto aperto e complesso qual è quello della crisi evolutiva, liberandolo da una certa rigidità sclerotica che rischia di mortificarlo. Processo simile, a ben guardare, alla trasformazione che l’adolescente deve operare degli schemi edipici e pre-edipici che lo imprigionano».

Laniso: «Un’altra domanda che vorrei porle è questa: lei ci ha opportunamente ricordato che “la crisi d’identità del bambino che diviene adolescente si incontra con la crisi d’identità complementare dell’adulto genitore: la messa in discussione storica e fisiologica della sua autorità e del suo potere (ingresso nel tempo della generazione).
Ebbene, prendendo in considerazione genitori “sufficientemente buoni”, cioè capaci di tollerare la depressione collegata all’ignoranza di sé e dell’altro in trasformazione e di farne una funzione conoscitiva, quali aspetti di somiglianza e quali aspetti di differenza con essi sono richiesti allo psicoanalista di adolescenti, secondo lei?»

Pellizzari: «Winnicott quando parla della madre sufficientemente buona introduce di fatto un’analogia con lo psicoanalista e con la sua funzione terapeutica. Così la Klein che vede nella relazione madre-bambino il modello naturale della terapia. Modello che si è rivelato utile non solo per quel che riguarda l’analisi infantile, ma anche per l’analisi degli adulti, come ha ampiamente mostrato Bion. Tuttavia occorre ricordare che di un’analogia si tratta e non di un’identità. Il rischio è di farne, come direbbe la Segal, un’equazione simbolica, con il risultato di infantilizzare il paziente, trattato sic et simpliciter alla stregua di un neonato. La funzione analitica è “simile” a quella materna e genitoriale, non “identica”: soprattutto contiene, deve contenere, un vertice che fa capo alla neutralità e all’astinenza, a una sorta cioè di distacco, garantito dal “terzo analitico” (Ogden), che consente lo svilupparsi di un pensiero trasformativo, vale a dire di quell’attività interpretativa che è specifica della cura psicoanalitica ed esula invece da quella naturale della madre.
Potremmo riassumere dicendo che come una madre che interpreta non è una buona madre, così un analista che “fa” la mamma non è un buon analista. La stessa cosa succede con gli adolescenti. Vi è un modello naturale di riferimento che è quello della relazione adulto-adolescente nel contesto edipico familiare che, come la relazione madre-bambino, fa parte del bagaglio mnemonico esperienziale dell’analista, ma vi è altresì una competenza specifica, diciamo pure “tecnica”, che consente, tra l’altro, una libertà di movimento e di pensiero che è naturalmente preclusa ai genitori.
Potremmo dire che come diciamo a un genitore che non deve fare l’“amico” di suo figlio/a adolescente, similmente dovremmo ricordare all’analista che non deve fare il “genitore” del suo giovane paziente».

Laniso: «Infine le faccio una terza domanda: considerando in particolare la neutralità, l’astinenza, i vissuti di controtransfert, la costruzione del setting, quali elementi di somiglianza e quali di differenza ha notato nel percorso analitico con soggetti adolescenti da un lato e soggetti adulti con disturbi narcisistici prevalenti, dall’altro?»

Pellizzari: «Penso che tra soggetti adolescenti e personalità adulte con disturbi di personalità vi sia una sostanziale differenza. Nel primo caso ci troviamo nell’ambito naturale di una crisi fisiologica, che può essere bloccata in modo più o meno grave o presentare involuzioni patologiche di vario tipo, tuttavia corrisponde ad una attualità del conflitto patogeno. La scena dell’adolescenza, con le sue componenti drammatiche, è aperta; i personaggi che la animano interagiscono tra loro quotidianamente nella realtà, anche se con tutto il loro corteo di fantasmi. Gli adulti con disturbi narcisistici, invece, pur presentando sintomatologie simili, hanno ormai strutturato una loro caratterialità nevrotica che possiede una certa fissità. Forse potremmo dire che vi è una circostanza simile a quella che si verifica nel caso delle nevrosi classiche, laddove un trauma, o una situazione traumatica infantile attraverso la barriera della rimozione producono sintomi disturbanti. Il sintomo si basa su un anacronismo; come dice Freud: ciò che è passato non è passato affatto, perché passi occorre ricordarlo, cioè ri-viverlo, ri-presentarlo. E, come ognun sai, questa è la funzione del transfert.
Nel caso di disturbi “narcisistici”, che concernono la sfera dell’Io, abbiamo a che fare proprio con quelle “alterazioni” dell’Io che Freud considerava un ostacolo al normale svolgimento del lavoro analitico. Occorre distinguere tra le alterazioni fisiologiche che attengono all’adolescenza e le alterazioni che hanno conseguito una fissità caratteriale nell’età adulta. Queste ultime, non diversamente dai sintomi nevrotici, sono il risultato di un anacronismo: l’Io continua a comportarsi e a funzionare come se il tempo dell’esperienza non ci fosse, si fissa rigidamente ad una scena edipica immobile senza evoluzione. La funzione del transfert appare dunque quella non tanto di rivivere e rappresentare ciò che d’altronde mai è stato vissuto, ma piuttosto di consentire adesso, nel presente della relazione analitica, un’esperienza inedita di movimento e di crescita. Riprendere cioè un’adolescenza che non c’è mai stata o che è abortita. Come si vede, si tratta di qualcosa che riguarda tutte le analisi, anche quelle che hanno a che fare con soggetti nevrotici, apparentemente senza disturbi narcisistici. D’altronde, se vogliamo continuare a dirci freudiani, nella seconda topica (“L’Io e l’Es”), Freud di fatto introduce una linea di conflitto che attraversa l’Io nel suo funzionamento stesso e non solo relativamente ai contenuti e alle rappresentazioni pulsionali.
Io credo che tale linea rossa trovi nella crisi adolescenziale, proprio quando l’Io adulto nasce, la sua origine e il suo destino, come una crepa sottile, ma decisiva che fa dell’essere umano un essere incompleto».

Breve commento.
Come ho detto direttamente a Giuseppe Pellizzari nella lettera di ringraziamento per la sua disponibilità e per la ricchezza del suo contributo, con la quale ho accompagnato le domande riportate, avendo riletto la relazione “la psicoanalisi degli adolescenti ha cambiato la tecnica psicoanalitica?”, ho molto apprezzato la mole di lavoro concettuale svolto nel ripercorrere le pietre miliari della storia clinica della Psicoanalisi, con la formulazione dei tre paradigmi che ci ha proposto, il terzo dei quali, in particolare, mi sembra arricchisca notevolmente le prospettive di crescita clinico-scientifica della pratica analitica con gli adolescenti e non solo con essi.
Alcuni passaggi del lavoro mi hanno molto colpito e stimolato riflessioni profonde.
Mi riferisco, ad esempio, al giusto rilievo che l’Autore dà all’aspetto dell’adolescenza come “scioglimento della simbiosi che vincolava il bambino all’adulto (il quale) pone drammaticamente il problema dell’identità e dell’alterità”. Oppure, poco avanti, all’osservazione: “Spesso il lavoro clinico con gli adolescenti consiste nel riaprire spazi di ignoranza, di dubbio, di incertezza, a partire dall’assunzione da parte del terapeuta di tale ignoranza come propria funzione conoscitiva”. O ancora alle ipotesi: “Non potremmo considerare ogni paziente autenticamente in analisi come strutturalmente adolescente? Se è così, si può avanzare l’ipotesi che lo studio dei processi adolescenziali presenti diversi punti in comune con lo studio del processo psicoanalitico in quanto tale”.
Ho apprezzato ancora l’accento che Pellizzari ha posto sul fatto che in adolescenza l’acquisizione della sessualità genitale determina, con l’ingresso nel “tempo dell’irreversibilità”, una rottura epistemologica del principio di realtà. Parimenti, ho apprezzato ipotesi concettuali di grande utilità clinica, ad esempio quella della conoscenza come “crisi d’identità e processo di formazione”, o quella di “narcisismo di transfert”, collegato al “compito paradossale richiesto all’analista di adolescenti, (che) da un lato deve svolgere la funzione di un appoggio narcisistico all’Io in formazione dell’adolescente, dall’altro deve mantenere la distanza della neutralità e dell’astinenza”. In fine quella del cammino analitico come esperienza imprevedibile, avventura.
Questo solo per citare alcuni dei punti significativi. Infatti ritengo la relazione nel suo insieme ricca di ipotesi di lavoro meritevoli di grande attenzione.

Note:
Relazione al V Convegno Nazionale di Psicoterapia dell’Adolescenza, 18-19 ottobre 2002 Firenze





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