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A e P --> HOME PAGE --> Anno II - N° 3 - Settembre 2002




Anno II - N° 2 - Maggio 2002


L’articolo del maestro




L’alleanza terapeutica nella psicoterapia degli adolescenti (1)

John E. Meeks


Parte II - Adolescenti in trattamento

Una qualche forma di cooperazione di base nello sforzo del trattamento è essenziale per il successo della psicoterapia di qualunque adolescente. Ciò richiede un accordo tra il terapeuta e il paziente ( anche se non necessariamente espresso a parole ) che un problema psicologico esiste e che l’adolescente permetterà al terapeuta di assisterlo affinché il problema sia risolto. Molte componenti del trattamento residenziale rendono oscuro e complicato lo sviluppo di questa fondamentale intesa, in misura anche maggiore di quanto avviene nel trattamento ambulatoriale.
Innanzi tutto nel setting residenziale l’adolescente si sente in una certa misura “detenuto”. In certi casi l’adolescente è almeno verbalmente contrario al ricovero ed è curato solo perché i genitori, il tribunale dei minorenni o altre istituzioni hanno forzato la sua acquiescenza. Anche quando egli è stato ricoverato “volontariamente”, di solito prima o poi, nel corso del trattamento contesterà il proprio stato di ricoverato. Se il terapeuta è convinto che il trattamento residenziale è necessario, viene a trovarsi per forza nella posizione di essere il “carceriere” del paziente nello stesso momento in cui tenta di fungere da terapeuta. Ovviamente questo è un fertile terreno per la scontata difesa adolescenziale contro l’autonomia e cioè la proiezione della responsabilità individuale. E’ facile, per un adolescente che si trova in trattamento residenziale contro il suo volere, sostenere che qualunque problema osservabile è la naturale reazione a tale restrizione dei suoi diritti civili. Se si accetta questo punto di vista non c’è nessuna alleanza terapeutica, perché il trattamento è chiaramente responsabilità del dottore e il paziente può scegliere solo tra l’adattarsi passivamente a ciò che si aspetta da lui, in modo da tornarsene a casa, e l’opporsi con coraggio e indipendenza al controllo delittuoso e sleale esercitato da un’istituzione sopra un individuo indifeso.
Questo insieme di circostanze richiede che l’approccio psicoterapeutico all’adolescente venga in certa misura modificato. La confrontazione diventa più importante, perché il paziente deve essere continuamente messo di fronte all’origine interna dei suoi problemi. Fortunatamente essa è facilitata dal fatto che un’osservazione di 24 ore del comportamento del paziente permette di raccogliere un mucchio di informazioni. Con questi dati è spesso possibile dimostrare in modo convincente al paziente che egli non è in grado di far fronte alle richieste della vita fuori dal setting ospedaliero finché certi problemi non saranno stati risolti. In questo processo è molto utile poter contare sull’appoggio dei coetanei con cui il paziente condivide i setting di gruppo. E’ più facile dirlo che farlo. Creare nei reparti per adolescenti un’atmosfera propizia alla terapia è un tema che esula da questo scritto. La discussione che ne hanno fatta Lewis e coll. (1970) rimane un classico sull’argomento.
Un altro aspetto della psicoterapia residenziale che spesso intimorisce e confonde i terapeuti poco esperti in questo tipo di lavoro è l’intensità della collera espressa dai pazienti. Essa è spesso considerata una prova della maggiore gravità psicopatologica del ragazzo che richiede il ricovero. Ciò è vero fino a un certo punto, ma non spiega interamente il fenomeno. Inoltre vi sono altri fattori che interagiscono, come la sicurezza del setting residenziale strutturato e la “lagnanza legittima” di sentire che la propria vita è quasi totalmente monitorata e controllata. Comunque è importante riconoscere che la presenza di una collera intesa e regolarmente espressa nella relazione terapeutica non significa che non si possa lavorare sull’alleanza. In qualche misura l’intero processo del trattamento deve essere organizzato intorno ad una negoziazione a volte collerica circa la rapidità di scarica del giovane (Meeks, 1968 ). E’ anche vero che il terapeuta può permettersi di esprimere più apertamente e con più fermezza le sue aspettative circa il livello di comportamento che è necessario perché il trattamento possa avere successo.

L’acting out grave

E’ talvolta difficile capire quanto possano influire sulla relazione terapeutica i gravi episodi di acting out. La varietà di importanti relazioni concomitanti che influiscono su un ragazzo in trattamento residenziale può a volte scoraggiare gli sforzi di chi cerca di farsi un quadro chiaro della loro relativa importanza. Le relazioni del paziente con la sua famiglia, con le figure significative del personale curante, con gli altri pazienti e con gli amici esterni all’ospedale devono essere tutte considerate quando si cerca di capire perché il ragazzo è scappato dall’ospedale, è esploso nella violenza fisica, ha introdotto droghe nel setting residenziale o in qualche altro modo si è allontanato radicalmente dalle aspettative terapeutiche. E’ molto probabile che la relazione con lo psicoterapeuta sia spesso sottovalutata come concausa di comportamenti come questi.
L’acting out è una forma abituale di resistenza nell’adolescente in terapia ambulatoriale. In quella residenziale esso diventa un modo molto più potente di evitare l’ulteriore, sgradevole lavoro terapeutico quando il terapeuta è spesso visto come un “super-genitore” che può essere provocato, umiliato o distanziato rifiutando o sconvolgendo il piccolo universo che il terapeuta dirige e controlla e specialmente il reparto di terapia. In altre parole l’intera situazione ospedaliera può arrivare a rappresentare il terapeuta e quindi può fornire un ampio palcoscenico sul quale agire un’immagine transferale allargata.
E’ ovvio che eventi drammatici come questi segnalano una rottura dell’alleanza terapeutica. Sono azioni drastiche che mirano a costringere il terapeuta ad assumere con il paziente qualche ruolo diverso da quello di guida terapeutica neutrale. Può essere che il paziente stia cercando il rifiuto per evitare una intimità crescente che lo spaventa, o sollecitando una maggiore attenzione e protezione per sottrarsi all’uguaglianza psicologica non desiderata che gli viene offerta nell’alleanza, o che stia tentando il terapeuta ad assumere una posizione di collera che può essere erotizzata in versione sadomasochistica. Sebbene forze di questo tipo siano quasi sempre all’opera quando un andamento terapeutico relativamente tranquillo è interrotto da un evento drammatico, è raro che nel periodo di tempo immediatamente successivo al suo verificarsi capiti una buona occasione d’interpretare il significato dell’azione. Dal momento che l’alleanza è stata rotta, la situazione terapeutica di per sé non è propizia ad una vera accettazione di interpretazioni.
Per di più, il caos che si crea nell’équipe e nella famiglia di solito sfocia in una serie di teorie circa la motivazione del giovane, la maggior parte delle quali riflettono la collera che il paziente ha suscitato. Per esempio, se la teoria che prevale nell’équipe è che il paziente sia “uscito senza permesso” allo scopo di esibirsi e di fare l’eroe agli occhi degli altri pazienti suoi coetanei, è probabile che l’ipotesi del terapeuta (che il paziente si sia allontanato dal reparto perché il Suo crescente attaccamento al terapeuta stesso suscitava paure di tipo omosessuale) sarà considerata una sciocchezza psichiatrica. Il terapeuta può essere accusato di essersi lasciato fuorviare dal suo giovane paziente. L’équipe può sentire che il terapeuta sta cercando di proteggere il paziente dalle giuste conseguenze del suo comportamento. E’ particolarmente difficile dare la giusta interpretazione in modo convincente quando il comportamento del ragazzo durante e dopo l’uscita arbitraria calza abbastanza esattamente con la descrizione dell’équipe. La questione è ancora più oscura se il paziente stesso ammette di essere scappato per dimostrare che poteva farlo senza difficoltà o “proprio per il gusto di farlo”. Nel trattamento residenziale è particolarmente importante lavorare a distanza dal comportamento osservabile e sollevare questioni che possono consentire sia all’équipe che al paziente di capire meglio le cause molteplici di un particolare atto. Nell’esempio appena descritto il terapeuta può anche ammettere che il ragazzo si stava esibendo, ma può sollevare valide domande sul perché egli proprio in quel momento avesse bisogno di dimostrare il suo coraggio, il suo disprezzo per l’autorità e la sua ingegnosità. Sia nelle sedute psicoterapeutiche che nelle riunioni di équipe può poco a poco diventare a tutti chiaro che il comportamento del ragazzo è stato un agire difensivo controfobico.
Nello sforzo di decifrare il significato dell’acting out è anche molto utile tenere d’occhio le aspettative del paziente circa la risposta del terapeuta. Ha previsto che il terapeuta lo avrebbe punito, o criticato, o che gli avrebbe tolto il proprio affetto, o, al contrario, si aspetta che ora il terapeuta capirà che le lagnanze del paziente circa il ricovero sono veramente serie e lo prenderà più sul serio? Spesso il paziente non verbalizza le sue aspettative ma mostra nel suo comportamento una previsione di risposte alterate da parte del terapeuta. Commentare queste aspettative può condurre a una proficua discussione di quei sentimenti di transfert che hanno provocato la rottura dell’alleanza terapeutica.
Naturalmente alcuni giovani agiscono in modo così pericoloso per se stessi, per l’équipe, per altri pazienti o per il programma terapeutico, che la psicoterapia continuativa può diventare pericolosa o poco pratica. Tuttavia prima di decidere che oggettivamente questo è il caso, bisogna considerare attentamente i sentimenti di controtransfert che esistono sia nel terapeuta che nell’équipe. Di regola, a meno che uno possa sinceramente dire che la decisione che il ragazzo è intrattabile è triste e viene presa a malincuore, c’è una discreta possibilità che l’équipe possa agire la sua collera, il suo disappunto o i suoi impulsi sadici nei confronti del paziente.

L’alleanza con i genitori

Ho già detto prima che il terapeuta che tratta un adolescente deve mantenere un’alleanza con i genitori del paziente. Ciò vale ancora di più nel caso del trattamento residenziale. Tuttavia quando il ragazzo è ricoverato l’alleanza è molto difficile da raggiungere e da mantenere. In questo caso c’è una massiva regressione della famiglia: spesso i genitori s’identificano con il figlio adolescente e dimostrano verso l’équipe ospedaliera gli stessi atteggiamenti e lagnanze che il ragazzo ha dimostrato fino ad allora nei loro confronti. I genitori proiettano sull’équipe curante tutte le carenze genitoriali che di tanto in tanto li hanno fatti sentire colpevoli. Naturalmente una situazione psicologica di questo genere rende molto difficile stabilire un’alleanza di lavoro oggettiva. L’espressione specifica dell’atteggiamento genitoriale varia molto da una famiglia all’altra. Alcuni genitori mostrano un’impotenza esagerata e acquiescenza passiva mentre altri reagiscono con un’animosità querula e ipercritica che l’équipe trova spesso esasperante.
Trovare i modi per aiutare i genitori a recuperare il loro miglior livello di funzionamento adulto e poi a migliorarlo è un impegno cruciale. I genitori apprezzano una nuova opportunità di tornare ad essere, nel corso del ricovero del figlio, persone importanti nella sua vita emotiva. Nel caso ideale i genitori accetteranno la responsabilità del ricovero e della sua continuazione. Invece di dire “Saremo felici di averti a casa appena il dr. X dirà che sei pronto”, la famiglia può esprimere precise aspettative circa il comportamento del ragazzo e la sua capacità di funzionare adeguatamente nel quadro famigliare. Questo sarà utile non solo ai fini del ritrovare dei giusti limiti generazionali, ma anche ai fini della psicoterapia. Piuttosto che dover funzionare da benevolo carceriere che spende un sacco di tempo e di energia per convincere genitori e ragazzo che quest’ultimo non dovrebbe tornare a casa finché gli obiettivi della cura non saranno stati raggiunti, il terapeuta può funzionare nel ruolo di un esperto oggettivo che ha il compito di aiutare la famiglia a vivere bene gli uni con gli altri nel più breve tempo possibile. Naturalmente ci vorrà un bel po’ per abbattere l’uso della separazione come soluzione di resistenza estranea propria del trattamento residenziale.

L’équipe residenziale

In un reparto residenziale per adolescenti l’équipe curante e quella educativa hanno un compito che spesso è piuttosto ingrato. Nell’insieme esse frustrano il paziente adolescente molto più spesso di quanto lo gratifichino. Poiché a loro è affidata l’educazione di giovani che spesso sono andati sviluppando atteggiamenti estremamente negativi verso la scuola, i membri delle due équipe non si possono permettere quel minimo grado di permissività che si può permettere il terapeuta nelle sue sedute psicoterapeutiche. Spesso essi sono i “cattivi” che “non capiscono” che il paziente si sta comportando male perché è rabbioso, ansioso o ha un bisogno disperato di porsi come ribelle. Essi non possono permettersi di “capire” questi sfoghi perché devono salvaguardare un livello minimo di esigenze comportamentali. Malgrado il flusso montante di emozioni e impulsi stimolati nel paziente dal processo terapeutico, l’équipe curante e quella educativa devono rinforzare il controllo dell’Io. Esse sono le custodi delle richieste della realtà.
Date queste circostanze del trattamento residenziale, le occasioni di “scissione” abbondano. Può sembrare che il paziente abbia una relazione terapeutica calda e cooperante con il terapeuta principale pur continuando ad agire il lato negativo della sua ambivalenza con gli altri membri dell’équipe, in modo acritico e senza sentirsene in colpa. E’ inutile dire che una pseudo-alleanza di questo genere non giova realmente al paziente perché zone importanti della sua psicopatologia sono escluse dal processo terapeutico ed espresse criticamente verso il reparto nella vita di ogni giorno.
La tendenza del paziente a scindere in questo modo può essere facilmente rinforzata da scissioni inespresse e non riconosciute tra i vari membri dell’équipe. I terapeuti giudicano spesso l’équipe controllante e insensibile alle vicende dinamiche del trattamento. L’équipe curante può considerare i terapeuti troppo permissivi ed ingenui circa i veri motivi del paziente. L’équipe educativa è spesso oggetto del risentimento. L’équipe curante è spesso molto gelosa delle vacanze scolastiche che regolarmente riattivano il cronico sospetto che gli insegnanti abbiano una vita più facile della loro. I terapeuti giudicano spesso gli insegnanti inflessibili e troppo preoccupati dello sviluppo cognitivo dei ragazzi e delle aspettative educative convenzionali, a spese della crescita emotiva. Forse tutti i membri dell’équipe si portano dietro, consciamente o inconsciamente, parte della paura e del risentimento verso gli insegnanti che la maggior parte di noi accumula nel corso della esperienze scolastiche personali. Questi ricordi negativi facilitano l’identificazione con l’ostilità del paziente adolescente verso l’équipe educativa.
Fa parte della responsabilità del terapeuta capire e apprezzare i contributi forniti da tutte le discipline e riconoscere l’interdipendenza dell’intera compagine terapeutica. Si devono cogliere le occasioni per discutere le tensioni e i conflitti tra i membri dell’équipe affinché i pazienti non siano usati per agire i problemi dell’équipe.
Nel lavoro diretto con il paziente è fondamentale insistere nel generalizzare l’alleanza terapeutica. Per esempio la questione della riservatezza nella psicoterapia fornisce spesso indizi sulla reale forza dell’alleanza. Molti pazienti cercano di creare scissioni tra il terapeuta ed il resto dell’équipe offrendosi di fornire informazioni se il terapeuta prometterà di non rivelarlo all’una o all’altra équipe. Di regola facendo promesse del genere c’è più da perdere che da guadagnare. Naturalmente il terapeuta fa spesso delle scelte circa il tipo di materiale psicoterapeutico che può essere utilmente condiviso con l’équipe allargata. Spesso è più dannoso che utile riferire nei minimi dettagli all’équipe fantasie, sogni e interazioni di transfert di un paziente. Si tratta di un’informazione strettamente intrapsichica che ha tutto il suo valore solo nella situazione terapeutica a due. D’altra parte azioni palesi, interazioni con altri pazienti, problemi famigliari e aspirazioni nel mondo reale sono dati importanti che l’équipe al completo dovrebbe conoscere. Il terapeuta dovrebbe insistere non solo sulla libertà di usare il proprio giudizio quando confida materiale appreso in psicoterapia, ma dovrebbe anche incoraggiare il paziente a condividere con gli altri membri dell’équipe le notizie delicate, cosicché l’alleanza sia generalizzata e i suoi vantaggi si muovano di pari passo con la vita di tutti i giorni. In altre parole, se il paziente potrà discutere i propri atteggiamenti e conflitti con i membri dell’équipe con i quali vive 24 ore al giorno, sarà un po’ più vicino alla capacità di usare l’autointrospezione e l’autocontrollo nella vita famigliare e nelle interazioni sociali fuori di casa.
Il terapeuta deve anche prestare attenzione alle relazioni che l’adolescente ricoverato ha con i pazienti suoi compagni. Una frammentazione dell’esperienza emotiva simile a quella descritta prima nei riguardi dell’équipe si può verificare con i compagni di degenza. L’interazione intensiva, positiva o negativa, con gli altri ragazzi nel programma di cura può rappresentare il vero bersaglio dell’investimento emotivo del paziente e ciò può svuotare e banalizzare un’alleanza terapeutica apparentemente costruttiva.
Il paziente può anche servirsi dei compagni per agire conflitti per procura, colludere con loro nell’evitare sbocchi emotivi significativi e usarli per mantenere attive difese di altro tipo. Con questo non si vuol dire che il terapeuta debba cercare di frustrare queste intense interazioni fra pazienti. Sarebbe impossibile e nemmeno auspicabile. Però è importante rendersi conto di ciò che sta accadendo tra gli adolescenti del reparto, cosicché queste situazioni siano convogliate proficuamente nel trattamento. Per questi dati il terapeuta deve di solito dipendere dalle osservazioni dei membri delle équipes assistenziale ed educativa, perché è poco probabile che il paziente li riferisca in terapia, per ovvie ragioni.

Riassunto

L’alleanza terapeutica è la chiave della psicoterapia efficace. Le discussioni originarie sull’alleanza sono state fortemente influenzate dal modello psicoanalitico. Questo modello di base è spesso adeguato per la psicoterapia dinamica ambulatoriale e dovrebbe sempre servire da punto d’arrivo ideale per qualunque relazione terapeutica. Tuttavia in alcuni casi sembra possibile permettere ed incoraggiare la crescita psicologica mediante relazioni che si discostano sensibilmente da un’alleanza oggettiva fondata su un impegno comune a comprendere il funzionamento psicologico del paziente. Ovviamente questo è un campo che abbiamo appena cominciato ad esplorare.
L’alleanza terapeutica nel trattamento residenziale è più complessa, più ricca e più suscettibile di esplodere in drammatici comportamenti agiti, sia fuori che dentro il setting, rispetto al trattamento ambulatoriale. Questi problemi controbilanciano la massa di materiale disponibile per il terapeuta se questi è capace di mantenere una relazione di lavoro liscia e collaborante con il resto dell’équipe
Note. Pubblicato in The Short Course in Adolescent Psychiatry, ed. by J.R. Novello, Brunnez/Mazel New York, 1979, che qui si ringraziano.





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