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A e P --> HOME PAGE --> N° 3 - Settembre 2002




Anno II - N° 3 -Setttembre 2002


Seminari romani di F. Ladame e M. Perret-Catipovic




Vicissitudini dell'identità sessuale in adolescenza
SEMINARI ROMANI DI FRANÇOIS LADAME E MAJA PERRET-CATIPOVIC

Giornata di studio ARPAD 9 Marzo 2002

Aula Magna
del Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche dell’Età Evolutiva
Via dei Sabelli, 108 - Roma



Ladame
LA TECNICA

I principali tipi di psicoterapia in adolescenza sono: la psicoanalisi, la psicoterapia individuale, lo psicodramma, la terapia familiare e la terapia di gruppo. Oggi ci soffermeremo sui primi tre tipi, non parleremo invece della terapia familiare né di quella di gruppo in quanto non abbiamo competenze ed esperienza a sufficienza in questo campo. Nel trattamento è incluso anche il ricovero ospedaliero; in quanto ci sono determinati setting in cui è indispensabile il ricovero, che rappresenta l’unica condizione possibile per offrire un contenimento di cui gli adolescenti in determinate condizioni di crisi hanno bisogno. Un’altra voce da aggiungere alla gamma dei trattamenti è l’uso di farmaci psicotropi; può essere indispensabile, affrontando la realtà clinica, far ricorso a farmaci psicotropi, i quali non vanno considerati antagonisti della psicoterapia né la escludono. Al contrario, ci sono casi in cui è necessario il trattamento farmacologico per rendere possibile il trattamento psicoanalitico. Forse la domanda centrale su cui soffermarci a questo punto è “perché la terapia psicoanalitica in adolescenza? ma anche per che cosa la terapia psicoanalitica in adolescenza?” A volte c’è la tendenza a confondere il perché con il per che cosa.
Quando si risponde soltanto alla domanda “perché” si può arrivare a risposte stereotipate che non tengono conto della realtà del paziente. Per esempio ci può essere il rischio che io, François Ladame, alla domanda “perché un trattamento psicoanalitico”, risponda “perché sono uno psicoanalista e non so fare altre cose”, oppure ci possono essere il dottor X o Y che lavorano in un reparto il cui primario è uno psicoanalista e risponderanno che fanno trattamenti psicoanalitici perché il primario è uno psicoanalista. Sono quindi l’onestà e il rigore che costringono a rispondere alla seconda domanda: “per che cosa” va fatto un trattamento psicoanalitico. A questo punto bisogna porsi la questione dello scopo e dei mezzi che si usano. Nel primo incontro, a febbraio, abbiamo parlato della valutazione, che è un momento fondamentale. La domanda che ci poniamo oggi è qual è l’obiettivo, quale scopo ci poniamo nei confronti degli adolescenti e con quali mezzi intendiamo raggiungerlo, a questo punto la questione della tecnica è secondaria alla risposta alla prima domanda posta, cioè l’obiettivo. Fatta questa premessa, qual è la differenza che deve essere mantenuta tra psicoanalisi e psicoterapia? E’ una domanda difficile in quanto oggi in ambiente francese, soprattutto nell’ambito della Società Psicoanalitica di Parigi, c’è una tendenza a ignorare questa differenza. Sembra che si voglia partire dal presupposto che dal momento che uno è psicoanalista fa un lavoro psicoanalitico, quindi la questione della differenza fra psicoterapia e psicoanalisi classica diventa secondaria.
Io concordo nel pensare che uno psicoanalista lavora in modo psicoanalitico indipendentemente dalla tecnica che utilizza. Invece sono molto restio a seguire i colleghi parigini nell’annullare e diluire la differenza tra psicoterapia e psicoanalisi, perché penso che gli obiettivi che si possono raggiungere non sono esattamente gli stessi. A questo punto è necessario tornare sulla sequenza valutazione-obiettivi-metodi, nella quale la questione degli obiettivi appare strettamente consequenziale al momento della valutazione. Schematicamente ci troviamo di fronte a due tipi di adolescenti:
- adolescenti con una conflittualità psichica rappresentabile, che conservano la capacità di mantenere un funzionamento psichico anche se il loro apparato psichico si trova di fronte a desideri opposti e contraddittori;
- adolescenti il cui funzionamento psichico non permette di mantenere un legame tra gli aspetti contraddittori della realtà interna e il funzionamento psichico. Quindi l’unica scelta che rimane è la scissione, gli opposti non si incontrano e ciò che domina il funzionamento psichico è una scissione dell’Io.
A questo punto si pone la domanda “qual è l’obiettivo del trattamento?” Nel caso in cui sia possibile lavorare immediatamente sulla conflittualità (in quanto il paziente è capace di mantenere viva la possibilità di rappresentarla) con una psicoterapia psicoanalitica si può realizzare un lavoro considerevole. Se invece l’obiettivo è quello di ridurre, superare la scissione, allora la scelta del metodo ottimale diventa una questione fondamentale per raggiungere l’obiettivo.
Questa mattina cominceremo col descrivere alcuni principi generali, sui quali discutere in seguito, dal momento che so che ci sono divergenze su questa questione tra me e il prof. Novelletto e credo possa essere interessante confrontarci. A mio parere in adolescenza la psicoanalisi in senso stretto è indicata soltanto nei casi di patologie più gravi, piuttosto che nei casi in cui prevale un funzionamento nevrotico e quindi è possibile lavorare subito sulla conflittualità psichica. Perché sostengo questo punto di vista? Se viene da noi un adolescente che ha un funzionamento psichico in cui predomina la scissione, sono due i nessi fondamentali dal punto di vista evolutivo rispetto ai quali noi dobbiamo cercare di porre un argine e di far cambiare il segno al funzionamento in corso: il primo è che il soggetto possa arrivare all’autodistruttività e il secondo è che si istalli una situazione perversa. Quando ci troviamo di fronte ad una psicopatologia grave in adolescenza la nostra scelta è quella di evitare che si formi una soluzione perversa in età adulta. Io penso che in questo caso siamo legittimati a porci come obiettivo la riduzione della scissione, perché se si instaura una soluzione perversa viene confermata la presenza della scissione anche in età adulta. Saprete per esperienza che quando si lavora sulla scissione, il tentativo di ridurre questa scissione ci pone davanti a tutta una serie di rischi. Naturalmente, se nel paziente esiste una scissione non è un caso. La scissione è avvenuta in un momento in cui si sono verificati certi fatti e rappresenta una soluzione di sopravvivenza dell’Io, quindi nel momento in cui il terapeuta cerca di rimettere in contatto ciò che per il paziente non deve stare a contatto va incontro a un grave rischio, a una “deflagrazione” che può essere sia un’esplosione che un’implosione. Questo tentativo dunque rappresenta una grave minaccia per il paziente ed è estremamente difficile per il terapeuta contenere queste possibili deflagrazioni. A questo punto vorrei presentare tre vignette cliniche che serviranno a rendere concreto e vivo questo discorso.
Il primo caso riguarda una ragazza di venti anni, alla quale ho fatto una valutazione molto lunga. E’ una ragazza brillante e intelligente, venuta da me per crisi bulimiche comparse circa sei mesi prima della consultazione e riconosciute dalla paziente come patologiche ed estranee all’Io, cioè non soltanto legate alla preoccupazione di diventare grassa ma vissute come una vera fonte di sofferenza psichica. Questi sono aspetti incoraggianti. Io ho visto questa ragazza per un mese e mezzo per una volta alla settimana e ancora non siamo arrivati alla conclusione, alla diagnosi, ma vorrei sottolineare una cosa che le ho chiesto “se lei decide di venire in terapia, come chiede, con me o con un altro collega, chi si troverà davanti questo terapeuta? Una ragazza simpatica, riflessiva, che si rende conto di quello che le succede, oppure una ragazza completamente scatenata, che ha crisi così forti di bulimia onnivora, che si vuole mangiare tutto il mondo, dimostrando la sua onnipotenza e che in questo modo nega lo statuto dell’oggetto?” Ho aggiunto anche che, se si trattava soltanto di liberarsi del sintomo, esistevano anche altri tipi di terapia, come quella comportamentale, però io avevo la sensazione che sarebbe rimasto in lei qualche cosa che era esploso e che poteva tornare ad esplodere in maniera assolutamente improvvisa, rappresentando per lei una minaccia non controllabile. A questo punto la ragazza in lacrime mi ha chiesto “allora che cosa devo fare?” e io le ho detto che lei non era condannata a vivere sempre con questo sentimento e che poteva benissimo affrontare il problema, ma si sarebbe trattato di un tipo di trattamento che aveva una durata, una costanza, una coerenza e un rigore che non si potevano decidere in maniera precipitosa da un giorno all’altro. Voglio sottolineare che, anche quando il paziente è particolarmente intelligente come questa ragazza, la forza della patologia è veramente immensa. Ci siamo lasciati alla fine dell’incontro con la domanda aperta, e quando dopo una settimana è tornata ha detto “ho riflettuto, ho pensato molto e ho deciso che forse è opportuno andare a guardare più da vicino la follia che è dentro di me. Quindi mi interessa continuare a fare il trattamento con lei”. Allora le ho detto “questo non è un trattamento, queste sono sedute di valutazione”. Questo per dimostrarvi che la forza della patologia oscura la realtà, cioè la percezione della paziente, che in fondo è terrorizzata di vedere cosa succede dentro di lei. Mi sembra che la patologia bulimica sia un buon esempio di questo possibile scatenamento, di questo scatenamento forsennato della pulsionalità che può avvenire durante l’adolescenza. La ragazza in effetti era tranquilla, continuava a pensare che avremmo potuto continuare a vederci una volta alla settimana con tutta calma, in una situazione in cui non sarebbe successo niente.
Il secondo caso clinico riguarda un paziente che ho visto la prima volta dieci anni fa all’età di 18 anni perché aveva subìto un’interruzione totale e violenta del funzionamento psichico ed era quindi completamente incapace di far fronte alle esigenze della vita quotidiana. In questo paziente si è delineata rapidamente una scissione marcata. Nonostante un setting psicoanalitico vero e proprio, non mi è stato possibile in questi dieci anni ridurre questa scissione. Il grande rischio di cui parlavo prima, vale a dire l’instaurazione di un funzionamento perverso, nel caso di questo paziente rimane un rischio quotidiano. Dobbiamo tornare quindi indietro al momento della valutazione, quando, secondo il mio supervisore, la soluzione perversa era già presente nonostante la giovane età del paziente.
Il terzo caso clinico riguarda un paziente adulto, un trentenne, il quale è venuto da me per una seconda psicoanalisi, dopo aver fatto una psicoterapia e una prima psicoanalisi. Si tratta di un paziente che fino a pochissimo tempo fa non era mai riuscito a far uso delle sue risorse e della sua creatività molto ricca. Stiamo scoprendo adesso, nel corso dell’analisi, che esisteva in lui una scissione fin dai tempi dell’adolescenza, con una configurazione abbastanza classica, cioè una identificazione del tutto opposta e conflittuale, incompatibile, fra le due parti scisse dell’Io. Questo paziente è una persona creativa che al di fuori dell’analisi funziona quasi in modo ottimale, ora che siamo in grado di riconoscere la scissione e le cause che hanno portato a questa mancanza di integrazione. Adesso che possiamo fare un lavoro di riavvicinamento dei margini nella scissione, come in una frattura, una faglia che separi due continenti, cioè nel momento in cui possiamo arrivare a un’integrazione dell’Io, il paziente si trova di fronte ad una minaccia spaventosa: ha paura di ritornare a quei sintomi gravi che lo hanno portato alla prima psicoterapia. Vi portato questa vignetta clinica di un paziente adulto perché, se riflettiamo sulle psicopatologie gravi in termini di indicazioni e tecniche, non possiamo separare completamente gli apporti che ci sono venuti dalla comprensione del processo adolescenziale e della patologia degli adolescenti e gli apporti degli psicoanalisti di adulti che accettano di curare pazienti non nevrotici. Penso che in quest’ultimo scorcio del XX secolo siamo entrati in una fase in cui sarà finalmente possibile integrare gli apporti rispettivi degli psicoanalisti che hanno lavorato con adolescenti e degli psicoanalisti di adulti, che hanno fatto esperienze rilevanti con pazienti gravi, con disturbi narcisistici della personalità o borderline. Penso che questa integrazione possa arricchire il secondo gruppo di psicoanalisti.
Ritornando alle varie forme di psicoterapia, dobbiamo chiederci come mantenere a fuoco la terapia nonostante le varianti, cioè come mantenere una terapia ad indirizzo psicoanalitico anche se siamo costretti a lavorare utilizzando più tecniche o includendo farmaci. Forse è meglio soffermarci ancora sulla psicoanalisi in senso stretto, che mi sembra la scelta d’elezione nelle patologie più gravi, la soluzione ideale. Ciò non significa che ci si debba astenere quando questa soluzione ideale non è ancora possibile. In Francia invece la posizione dei Laufer è stata giudicata spesso troppo radicale. E’ evidente che nella pratica clinica siamo spesso costretti a fare compromessi, come per esempio quando il paziente non è affatto pronto per intraprendere una psicoanalisi oppure quando non ci sono psicoanalisti disponibili. Secondo me il problema sta piuttosto nella scelta tra il compromesso da una parte e il “compromettersi” dall’altra. Per esempio in relazione alla prima vignetta il compromettersi sarebbe consistito nell’accettare la proposta di psicoterapia così come era intesa dalla ragazza, dicendo “sì, continuiamo il trattamento, questo è il trattamento”.
Come vedete stiamo tornando alla prima domanda che avevo posto, cioè come mantenere la natura psicoanalitica di un trattamento. Allora ribadisco il concetto che, per poter fare un lavoro sui contenuti psichici, la condizione necessaria preliminare è che esista un contenitore psichico, in cui questi contenuti si possano spostare più o meno liberamente e, soprattutto, si possano esprimere. A questo punto mi sembra che possa intervenire anche lo psicodramma, una tecnica con caratteristiche particolari, che può assumere un ruolo significativo come modalità che può permettere di mantenere la natura psicoanalitica.


A questo punto l’organizzazione del seminario prevede la presentazione di un caso clinico da parte della dr.ssa M. C. Pandolfo, allieva dell’Arpad.

Pandolfo
Vi parlerò delle ultime sedute avute con Anna, una ragazza di venti anni che da circa due anni seguo regolarmente con un setting di due volte a settimana vis à vis. Mi sembra che questo materiale possa rappresentare bene il momento delicato e difficile a cui la relazione terapeutica è arrivata.
Anna nell’ultimo mese e mezzo si è dimostrata particolarmente inaccessibile e sordamente ostile a me. Le forti oscillazioni di umore e funzionamento mentale, anche all’interno di una stessa seduta, sono una sua caratteristica alla quale sono abituata, ma ultimamente tendeva a restare più lontana, assorbita dai suoi pensieri poco realistici, che mi comunicava, ma apparentemente senza molto utilizzarmi. Mi ero sentita fatta un po’ fuori, fuori uso, diventata come inutile. Mi ero ritrovata a ricordare, con una sorta di nostalgia, certe sedute dell’inizio dell’autunno scorso in cui Anna arrivava spesso trepidante in seduta, desiderosa di raccontare oppure turbata e arrabbiata con me, ma carica affettivamente. Come quando mi portò quel foglietto in cui aveva elencato tutte le cose che non le andavano della terapia e di me. Era stata una doccia fredda leggerlo davanti a lei ma avevamo potuto parlarne, abbozzare certe distinzioni tra quello che poteva riguardarmi direttamente e quello che poteva riguardare più i suoi oggetti interni o la relazione reale con la madre. Avevo cioè potuto trarne indicazioni preziose per portare avanti la nostra terapia e misurare il mio coinvolgimento con lei, che da parte sua dimostrava quanto fosse attenta e presente malgrado gli evidenti aspetti psicopatologici.
La sensazione di lontananza a cui ho accennato fu intensa quando, in una delle ultime sedute, Anna mi raccontò un episodio con un tono molto distanziato e ermetico: “Oggi sono molto felice. E’ cambiato tutto perchè ho incontrato il mio angelo custode. Sì, è proprio così. Ero alla fermata dell’autobus, c’era una signora un po’ anziana vestita bene che si è messa a parlarmi del più e del meno. Poi siamo salite insieme chiacchierando, mi ha chiesto che scuola faccio e come arrivare a Piazza Verdi. Io le ho detto di scendere con me, che andavo lì. Siamo scese e mi ha voluto offrire un gelato, io non volevo accettare, ha insistito, l’ho preso. Ci siamo salutate, ho mangiato il gelato tornando a casa e ho capito che era il mio angelo custode. Lo sa, che già da tempo mi capita di trovare i capelli di angeli? Sono sottilissimi e dorati, ne ho di nuovo trovati. Ora sto bene perché c’è questo angelo, pensa lui a tutto, gli altri non ci credono ma non importa.” Dentro di me avevo considerato, mentre Anna parlava, la sua esigenza di anestetizzare in modo magico il dolore suscitato dalla recente dolorosa esperienza di essere stata lasciata dal ragazzo con cui usciva da un paio di mesi. Avevano avuto un paio di scambi animati dopo i quali lui non si era fatto più sentire, né aveva risposto alle telefonate di Anna.
Il rapporto con Sandro aveva rappresentato il primo approccio di Anna a un ragazzo, i primi scambi intimi, la prima volta in cui aveva potuto dire “il mio ragazzo”. I miei tentativi di avvicinare il suo stato d’animo e di darle appoggio in quel momento delicato sembravano però vanificarsi, non andare a segno.
Nella seduta successiva mi disse che insieme a sua madre era stata dal collega che segue il suo trattamento farmacologico e che avevano parlato della psicoterapia, del fatto che Anna se ne lamenta e della opportunità – suggerita dalla madre - di cambiare terapeuta. Lo psichiatra avrebbe risposto: “Ora Anna è grande, deve decidere lei.” “E’ vero – proseguì Anna in seduta - io sono affezionata a lei, non so se la cambierei con qualcun altro, ma è che non voglio proprio fare l’analisi, non l’ho scelta io, siete voi medici e mia madre che mi avete obbligato, sostenendo che io ero strana e stavo male. Ma quello che voi, non voglio dire lei, dottoressa, chiamate così è il fatto che io sono frutto di un esperimento e me lo volevate tenere nascosto. E poi io so qual è la verità e voi non ci potete fare niente, perché c’è questa presenza, il diavolo. Adesso per fortuna è tornato il mio angelo custode, posso stare bene. Ma io voglio proseguire da sola, non mi sta più bene questa imposizione.”
Sottolineai quel “deve decidere Anna, ora è grande” come qualcosa che ci vedeva più direttamente coinvolte, ora che in effetti sentiva con più chiarezza di poter fare certe cose autonomamente, sia sul piano dell’esperienza vissuta, che su quello del suo modo di vedere le cose. Dissi che questo chiamava in causa fortemente anche me e richiedeva che io ascoltassi con attenzione il disagio che Anna diceva di provare talvolta in seduta, per poter arrivare –conclusi- a capire insieme cosa potesse esserle utile in questo momento della sua vita. Anna rispose: “ Mi interessa molto questo discorso. Spesso sono molto confusa, ma c’è una cosa che metto a fuoco: a volte vengo qui abbattuta e vado via che sto meglio, felice; a volte vengo qui felice e vado via che sto male. Ecco, vorrei capire perché”. Ci salutammo con una sensazione di maggiore vicinanza e l’impegno ad osservare insieme questi momenti.
Un passo indietro. I mesi scorsi, da settembre in poi, sono stati caratterizzati da intensi cambiamenti di Anna: era tornata a scuola dopo anni di interruzione, costellati da dolorosi, ripetuti tentativi fallimentari. Per la prima volta da quando aveva iniziato a stare male all’età di 13 anni, aveva ripreso autonomamente degli scambi con i coetanei, dimostrando di voler e poter riaprire i rapporti con loro. Per la prima volta senza la mediazione attiva della madre, aveva intrecciato amicizie e conoscenze, suscitato simpatie e attrazioni: un paio di ragazzi della classe le avevano rivolto le loro attenzioni. Ero abituata a vederla nascosta nella sua ciccia, in un certo senso al sicuro in essa; i vari tentativi di dieta imposti dalla madre non avevano scalfito quell’abbondante sovrappeso, invece in pochi mesi, quasi naturalmente, Anna era dimagrita, riacquistando l’aspetto grazioso di prima. In quei mesi Anna non passava più le sedute solo a parlare dei suoi pensieri astratti sulle sue origini e sulle diverse parti che la compongono o che le erano state disgiunte: angeli, diavoli, extraterrestri. Era emozionata ed eccitata, desiderosa di recuperare terreno rispetto agli altri e al tempo stesso spaventata delle sue curiosità, della possibilità di accedere alla sessualità. Sessualità rimasta bloccata e congelata sul piano dell’esperienza, e angosciosamente deformata in fantasia.
In questa atmosfera “briosa”, come un giorno la definì lei stessa confrontandosi con la passività e monotonia degli anni scorsi, era maturato l’incontro con Sandro, il suo primo fidanzamento, il suo primo bacio.
Nel week-end prima della seduta successiva mi trovai a pensare che forse Anna aveva ragione, doveva provare a fare da sola, forse sarei dovuta andare incontro alla sua esigenza di autonomia. Mi chiesi quanto fossi io stessa a fuggire di fronte alle difficoltà che Anna mi poneva, i suoi rifiuti, i suoi attacchi, i suoi deliri.
Ed ecco la seduta successiva. Era entrata con un’espressione molto scontenta, abbattuta. Sedendosi esordì: ”Sono arrabbiata con mamma, mi ha stufato. Volevo parlarle dei pensieri ma non mi ha voluto ascoltare. Poi mi ha costretto a portare fuori i cani e uno ha fatto la cacca davanti al portone, che schifo! Ho dovuto pulire io, così ho fatto pure tardi. Non sono miei i cani, ci pensi lei...(pausa) Poi ieri sono andata da una sofrologa, è stata un’esperienza allucinante”.
Chiesi cosa fosse una sofrologa.
“Ce l’ha indicata l’istruttrice di teatro... poi ho scoperto che pure lei ha fatto un corso di sofrologia. E’ una specie di medicina che mischia psicologia, yoga, zen. Si è presa un sacco di soldi. Ci ha fatto fare tutto il tempo una specie di urlo, a me e a mamma. Mamma poi le ha chiesto se l’incontro con lei poteva interferire negativamente con la mia analisi. Mi sono sentita presa in giro dall’istruttrice di teatro.” Dopo un silenzio le dissi che in quei giorni avevo pensato alle cose che mi aveva detto, alla sua scontentezza della terapia. L’avevo intesa come una richiesta di affrontarlo davvero questo argomento, cioè quello di quale progetto avere, come e se andare avanti. E aggiunsi: “Benché quando ti senti non capita tu creda che tutti i medici e i terapeuti ti impongono cose tuo malgrado, io non posso sapere a priori cosa sia giusto per te, cosa vuoi veramente, quali siano le strade migliori per raggiungere certi obiettivi. Posso darti il mio aiuto. Ci sono delle cose che sono cambiate dentro di te e nella tua vita, che hai conquistato; credo anche però che in questo periodo ci siano stati dei dispiaceri. Oggi ti ho sentita dispiaciuta oltre che arrabbiata”. Il suo viso si era disteso mentre parlavo. Di getto disse: “Sì, sto male, va tutto male.” Scoppiò a piangere. E’ molto raro che Anna pianga, forse è accaduto solo un’altra volta. Con tono preoccupato disse: “Ora spreco la seduta a piangere.” Le offrii un fazzoletto. “A me non piace piangere, cerco sempre di trattenermi”. “Lo so, ma a volte fa bene” risposi. Riprese: “Sono andata male anche a scuola alle prove strutturate, ho preso 2 e 3! Coi compagni non va bene, questa scuola si è rivelata un brutto ambiente, tutti burini. Pure le ragazze (tre amiche universitarie, vicine di casa), sono false. Mi dicono: – Allora, hai chiamato Sandro?- Mamma dice che non lo devo chiamare, che tanto ce ne sono altri cento. Mi ha solo preso in giro. Tanto non lo amavo, non lo avevo mai amato. Però penso che forse non mi chiama per orgoglio, e anche io non lo chiamo per questo. Non so capire se lo devo chiamare o no.”
Dissi: “Certo ce ne sono tanti altri, però quando succede così ci si sente male, feriti, si ha bisogno di un po’ di tempo e si soffre...a volte ci si può sentire come ti sei sentita pulendo la cacca del cane..” La seduta era alla fine, Anna sorrise, disse che però ancora non era sicura che piangere non fosse stato uno “spreco”.
Mi colpì la sua idea di sprecare la seduta col pianto, ripensai alla fase iniziale della mia conoscenza di Anna: i nostri erano incontri burrascosi in cui si alternavano momenti di apertura e confidenza a momenti di intensa rabbia, crisi violente o persecutorie, con urla e minacce. In quel periodo mi fu molto utile comprendere che Anna usava la rabbia come unica modalità possibile per cercare di reagire a un vissuto schiacciante, insopportabile, di impotenza e sofferenza. Ricordo una sua frase (la terza volta che ci vedevamo, aveva 17 anni) che seguì a un lungo sfogo rabbioso contro di me per il dubbio persecutorio che io avessi registrato di nascosto le nostre sedute. Disse: “E’ che io non mi fido di nessuno. Nessuno può sapere quanto sono dispiaciuta dentro. Voi siete i maghi del futuro, pensate di poter curare l’anima, ma il dolore dell’anima non si può curare né analizzare, io ho un dolore tremendo dentro, da sempre.” Ripensai anche a come l’impossibilità di sostare sugli affetti dolorosi è qualcosa che appartiene in primo luogo alla madre di Anna: mi ha sempre colpito il contrasto tra la drammatica esperienza da lei vissuta di essere abbandonata improvvisamente dal marito (quando Anna aveva un anno e l’altra figlia quattro) e l’immediata sostituzione del partner con un nuovo convivente, molto più giovane di lei. L’abbandono da parte del marito e la sua assenza hanno profondamente segnato la vita di questa donna e la relazione con le figlie, con Anna in particolare. Mi sono fatta l’idea che la madre l’avesse, da sempre, contemporaneamente amata e odiata, con una modalità scissa: usata da un lato come sostegno e appoggio al proprio vissuto di abbandono (la descrive come una bambina “angelica” attaccata a lei come una ventosa, che dormiva solo abbracciata alla sua schiena) e dall’altro come figlia somigliante al padre-diavolo, “con lo stesso sguardo di lui”. La stessa scissione si ravvisa pure nella sua modalità di descrivere la problematica della figlia: fornisce due immagini opposte di Anna: la bambina dolce e remissiva fino a 13 anni e l’adolescente “impazzita”, violenta e sedata solo dai farmaci, incapace di avere rapporti sociali, piena di pensieri strani intorno a malefiche e divine presenze dentro di sé, dai 13 anni in poi. Cambiamento drammatico avvenuto da un giorno all’altro.
Toro alla seduta seguente a quella del pianto.
Anna: “Oggi le voglio parlare di certi pensieri. Ho pensato tanto in questi giorni, mi sembra di avere capito delle cose. Intanto la voce è cambiata, prima diceva cose confuse, come se fosse una radio, ora invece è lucida, dice cose intelligenti, è cosciente. E questa è una cosa positiva. Nella mia testa questa voce rappresenta quella parte, il diavolo o l’extraterrestre, non so veramente cos’è, comunque quella parte che era andata via e che è tornata quando avevo 13 anni. Può darsi anche che sia stata in Paradiso e Dio le abbia insegnato tante cose su come vivere...”
Io: “Mi sembra di capire che non la percepisci più tanto come qualcosa di estraneo”, intervenni io. Anna: “Infatti. Il problema è un altro. Gli angeli, l’anima, sono qui, nel cuore. E’ la parte buona, sta bene, ma non c’è collegamento con quella parte nella testa, non comunicano assolutamente.”
Io: “La parte emotiva, il cuore, e la parte più mentale. Interessante la tua osservazione su quella difficoltà a collegarle, chissà che il tuo timore relativo al poter piangere in seduta dell’altra volta non sia attinente a questo”.
Anna: “Penso di sì, è vero. Penso sempre che devo pensare, rimettere tutto in ordine anche un po’ ossessivamente, come quando metto a posto gli oggetti della mia stanza: li prendo e li sposto mille volte, dando sempre dei significati alle posizioni in cui li metto..”.
Io: “Sì, i tuoi pensieri sono tanto importanti; tempo fa dicevamo che erano anche il tuo rifugio, il tuo patrimonio. Ora che ci sono più esperienze e più emozioni vissute forse avverti questo scollegamento con più chiarezza. Dicevi che nel cuore le cose vanno bene, ma forse a volte puoi temere quello che viene da lì, dal tuo lato emotivo, come qualcosa che non è tanto facile da padroneggiare. Puoi aver sentito questo timore anche con Sandro, nel tuo avvicinarti a lui, nel prendere l’iniziativa nella vostra intimità..”.
Anna: “Ho sempre paura di fare come feci quella volta a 13 anni, che inseguivo quel ragazzo che mi piaceva e poi un giorno a quella festa lo baciai e poi mi alzai la maglietta. Fu una scena brutta, mi mandarono via, glielo ho raccontato, vero? E poi c’è un’altra cosa: io lo so che non è vero che le persone sono tutte false e che mi prendono in giro, ci sono persone che io sento autentiche, ma quando qualcuno mi interessa ho paura e mi accorgo che faccio paura..”.
Gli insight di Anna sono sempre intensi e profondi. La comunicazione tra noi in queste sedute si è ristabilita e mi sono trovata a chiedermi infine quanto ce la possa fare io a non aver paura di stare nella relazione di transfert con lei, continuando da un lato a fornirle gli apporti identificatori di cui ha ancora bisogno, e dall’altro a sostenere le sue spinte all’autonomia, in un percorso verso la soggettivazione che sento accidentato e difficile, ma avviato.


Perret-Catipovic
Mi sembra che questo sia un caso esemplare per parlare del trattamento in adolescenza. Vorrei cominciare dall’ultima domanda che viene posta in relazione ad una possibile interruzione del trattamento. Nella presentazione vengono sottolineati i progressi ed emerge il lavoro che la paziente è già in grado di fare. Basta però dire alla ragazza (A.) che ha fatto dei progressi che immediatamente si mette a piangere e dice che a casa va tutto male. E’ un’evenienza abbastanza classica nella terapia con adolescenti che, se fanno un passo avanti, ne facciano due indietro, quindi per noi diventa abbastanza difficile scegliere a quali contenuti fare attenzione, cioè se dobbiamo sostenere il narcisismo oppure dobbiamo continuare a lavorare sulle difese, sapendo che questo tipo di lavoro può provocare delle regressioni. Per esempio, quando A. dice che a scuola va male, che ha sbagliato tutte le prove, si è tentati di lavorare al sostegno dell’Io, cioè sul rinforzo delle sue difese narcisistiche. Sono stata spinta a cominciare dalla domanda che la terapeuta si è posta alla fine, in quanto riguarda un problema che mi interessa molto: Come ci si deve comportare quando si sente che c’è un rischio di interruzione? Bisogna cercare di lavorare in direzione di una fine quanto meno provvisoria o bisogna far finta di niente, ignorare il rischio, continuando sul percorso incominciato? A parte le considerazioni teoriche, potrei dirvi come mi comporto io in questa situazione. Io scelgo di ridefinire l’obiettivo del trattamento. Il problema è che, quando si comincia un trattamento all’età di 17 anni, quando c’è uno scompenso psicotico, si parte da un determinato contratto terapeutico, che di solito viene stipulato con l’ambiente (medici, famiglia) piuttosto che con il paziente, sopratutto quando il paziente in quel momento non è in grado di volgere lo sguardo verso di sé, non ha un contatto corretto con la realtà. Mi sembra del tutto legittimo che, se il trattamento procede bene, sia il paziente a voler stabilire un contratto con il terapeuta; è quello che ad un certo punto dice A “io non ho scelto di venire in analisi” e poi va a cercare altri tipi di trattamenti. In pratica è evidente che intende appropriarsi di un tipo di trattamento. E’ vero che il rischio di rottura del trattamento è impercettibile, ma il primo passo da fare è quello di ridefinire i termini della terapia. Allora si può elaborare il rischio di interruzione facendo un discorso molto chiaro: arriviamo ad una conclusione della terapia avviata con un determinato contratto e si continua sulla base di un nuovo contratto terapeutico. Un aspetto che mi ha colpito nella descrizione del caso, in relazione al bisogno della paziente di ridefinire il setting e di affrontarlo, è il fatto che la terapeuta parla di psicoterapia e la paziente parla di analisi, quindi prima di andare avanti è importante che terapeuta e paziente si mettano d’accordo su che cosa fanno insieme. Riallacciandomi a quello che diceva Ladame a proposito degli scopi di un trattamento, qual è l’obiettivo della terapia è una domanda che ci dobbiamo porre in continuazione. Forse in analisi la questione è più in secondo piano rispetto a una psicoterapia. Bion dice che lo psicoanalista deve essere “senza memoria e senza desiderio”. Io penso che nel trattamento psicoanalitico con l’adolescente questa frase sia molto pericolosa. Se il terapeuta dimentica quali sono gli obiettivi durante il trattamento con l’adolescente si entra in una fase molto confusa e a rischio. Nei trattamenti con gli adolescenti che subiscono un’evoluzione molto rapida (per esempio, come dice A., “a volte vengo che sto male e me ne vado che sto male, altre volte vengo che sto bene e vado via male”) è fondamentale che l’analista tenga conto dell’evoluzione e ridefinisca sempre gli obiettivi, in quanto l’adolescente è un individuo in fase evolutiva.


Ladame
Non avrei potuto desiderare una presentazione clinica migliore per mostrarvi nel concreto ciò di cui ho parlato precedentemente forse in maniera schematica seguendo i tre tempi: la valutazione, gli obiettivi e i metodi. Io vorrei cominciare commentando la domanda della terapeuta: “quanto ce la possa fare io a non aver paura di stare nella relazione di transfert con lei”. Mi sembra una frase estremamente pertinente e soprattutto che denota onestà e rigore per la fase in cui si trova la terapia, in quanto sono convinto che in quella situazione sia impossibile non avere paura. Ci troviamo in pratica all’incrocio dei tre punti di cui abbiamo parlato - valutazione, obiettivi e metodi. A questa domanda possiamo rispondere solo dopo aver risposto ai tre punti fondamentali dell’analisi. Per quello che io possa sapere della paziente, sembra che A. abbia vissuto una rottura profonda e grave dello sviluppo nella fase iniziale dell’adolescenza, all’età di tredici anni, “Anna la bambina dolce e remissiva fino a 13 anni e dopo l’adolescente impazzita, violenta e sedata solo da farmaci, incapace di avere rapporti sociali”. Questa descrizione è propria di un processo traumatico, disorganizzante che distrugge nella pubertà e crea nella persona un terremoto, un chiasma. A. fa sempre riferimento a due immagini opposte, quella dell’angelo e quella del diavolo. Sono due opposti classici che si possono trovare anche in persone non malate, se però arrivano ad una integrazione. Invece in questa paziente la rottura violenta della pubertà rappresenta un grosso ostacolo sulla strada dell’integrazione. La scena metaforica in cui questa paziente è costretta a vivere ci viene raccontata soltanto quando A. dice “io ho sempre paura di fare come feci quella volta a 13 anni, che inseguivo quel ragazzo che mi piaceva e poi un giorno in discoteca lo baciai e poi mi alzai la maglietta; fu una scena brutta, mi mandarono via”. Qui ritroviamo la stessa domanda che vi ho posto descrivendo la mia prima vignetta clinica “chi si sederà davanti a me in terapia? La ragazza in gamba, intelligente che frequenta una delle migliori università del mondo o la ragazza scatenata e forsennata preda delle crisi di bulimia?” Ciò che mi ha colpito di più nel caso di Anna è il tema della paura, in quanto a venti anni la paziente ha sempre questa paura, il terrore profondo resta. A questo punto e in presenza di questo terrore qual è l’obiettivo del trattamento e quali sono i mezzi che si possono usare per raggiungere questo obiettivo? Mi sembra evidente che A. ha presentato dei progressi spettacolari a partire dall’inizio del rapporto con la terapeuta. In effetti era “impazzita” con l’avvento della pubertà e con l’emergere della sessualità, e il fatto che adesso funzioni in una certa maniera e non sia ricoverata mi sembra già un progresso enorme. Penso che adesso A. si trovi in un momento veramente cruciale della terapia e quindi la questione degli obiettivi (a che cosa serve la terapia? dove vogliamo arrivare?) merita particolare attenzione e deve essere definita. Se l’obiettivo è quello di permetterle di integrare la sua pulsionalità, la scena folle di quando aveva 13 anni si ripeterà nello studio della terapeuta e per riuscire a contenere questa scena folle è necessario un setting diverso da quello attuale. Secondo me è proprio questo il problema della scelta tra psicoterapia e psicoanalisi. Ci sono indicazioni nel materiale clinico presentato che un setting più intensivo, a più sedute potrebbe essere sia sopportabile che adeguato. Per esempio una indicazione del genere è contenuta nella storia dei cani che A. racconta, A. dice di “aver dovuto portare fuori i cani ma i cani non sono suoi”. Questo è un modo di mostrare la battaglia, la lotta con le sue pulsioni, quindi da una parte A. mostra di voler integrare la sua pulsionalità, ma dall’altra la rifiuta, spacca da sé il suo capitale pulsionale (come nel caso degli adolescenti più gravi). Penso che a questo punto bisogna ridefinire la sua follia confusa dei 13 anni e discutere gli obiettivi della terapia: o A. continua la terapia per integrare questa follia oppure sceglie di lasciare la sua follia fuori e rimane quindi “l’angelo privo di pulsioni”. Concludo sottolineando che la questione tecnica del livello di interpretazioni, cioè se interpretare il transfert o no, non è separabile, è indissolubile dalla definizione degli obiettivi e dei metodi. Nei trattamenti con pazienti nevrotici questa questione è meno importante.

Perret-Catipovic
Per quanto riguarda il trattamento di A. sono anch’io convinta che deve continuare, ma ad un altro livello e con altri mezzi. In una situazione come questa c’è il rischio di interruzione. Però in queste circostanze si rischia molto di perdere il paziente perché il terapeuta propone quello che ritiene sia meglio per il paziente, ma il paziente non è in grado di accettare e quindi molla. E’ molto importante riflettere sull’obiettivo non solo della terapia, ma di tutto quello che noi facciamo, quindi anche di un eventuale ipotesi di interruzione. Una riflessione sulla fine dei trattamenti in adolescenza, è una questione molto attuale, perché penso che pochi di noi abbiano terminato un trattamento con adolescenti. Già la questione della fine di un’analisi è oggetto di un acceso dibattito e non è nemmeno detto che ci sia una fine. Allora che cosa è la fine di un trattamento? Nel numero Adolescence è stato chiesto a Cahn e ad altri colleghi di scrivere qualcosa sulla fine del trattamento in adolescenza e io ho scoperto che le colleghe napoletane si occupano di questo argomento. Sono d’accordo con le colleghe napoletane e con Cahn sul fatto che a volte bisogna elaborare, discutere dell’interruzione della terapia per ricominciarla ad un altro livello e con altri mezzi. Nel caso di A. forse il livello su cui lavorare adesso è quello di soffermarsi sulla sua sessualità, la sua sessualità nella condizione umana e così via. Questi scompensi adolescenziali con deliri, in cui gli adolescenti immaginano di avere origini extraterrestri rinviano non solo al tentativo di negare la propria sessualità di maschio o di femmina, ma anche di negare la sessualità dei genitori dai quali derivano; A dice “sono convinta di essere frutto di un esperimento” che le hanno tenuto nascosto perché sono questioni che le si pongono sulle sue curiosità sessuali, questioni che lei non può affrontare e da cui si difende con deliri, ricorrendo agli angeli che non hanno sesso. Che cosa succede allora se la terapeuta propone troppo presto un cambiamento e un approccio più analitico a queste domande? Ci sarà un attacco diretto all’esistenza dell’analista e non ci si può aspettare che un analista sia in grado di sopportare tutto.

Novelletto
Mi sento un po’ l’angelo custode di M. C. Pandolfo, penso che sia mio dovere!
Io penso che tra Ladame e noi c’è un pieno consenso sul piano teorico per quanto riguarda l’importanza della valutazione e della struttura, invece sul piano dell’applicazione tecnica ci sono pareri discordanti. Portando come esempio il caso di A. vorrei controbattere qualcosa al suggerimento di Ladame di cambiare il settting a questo punto della terapia. La dott.ssa Pandolfo nella sua descrizione parla della presenza di meccanismi di scissione anche nella madre di A., visto il suo modo di descrivere la figlia. Ci ha fatto intendere quindi che nella madre di A. c’è una patologia non molto diversa dalla figlia, con la differenza che la madre è in qualche modo legittimata ad agire le sue resistenze, il suo rifiuto di un offerta di comprensione psicogenetica, mentre nel caso della figlia definiremmo ciò in termini di rottura, fuga. Io credo che nel contesto della valutazione del quadro, che si ritiene opportuno proporre al paziente, non si può ignorare che questo quadro sarà oggetto anche di difese e resistenze da parte dei genitori, quindi faccio l’ipotesi che la paura che la dott.ssa Pandolfo ha nei confronti della paziente possa essere una paura sopra tutto nei confronti della madre. So che la madre di A ha fatto numerosi tentativi per portarla da una sofrologa, quindi la madre si sentirebbe molto sollevata se la figlia interrompesse la sua psicoterapia, con assoluta indifferenza circa il fatto che l’interruzione avvenga sotto forma di un agìto o sia il risultato di una decisione condivisa.
Io vorrei sottolineare che il bilancio tra le prospettive positive di una terapia e tutti i rischi che si oppongono, può essere condiviso con l’adolescente fino ad un certo punto. Quando noi facciamo i rilevamenti sullo stato della navigazione, sappiamo molto bene che non possiamo condividere con il paziente adolescente, come talvolta può capitare con il paziente adulto, il senso profondo di queste valutazioni, cioè rimane sempre un margine di responsabilità dell’analista che è superiore rispetto al paziente. Per esempio in questo caso l’assumersi la responsabilità di riconoscere un ruolo alla distruttività materna che A. non è ancora in grado di riconoscere. Penso che sia una cosa che talvolta l’analista deve gestire dentro di sé, senza sperare di poter condividerla sempre con l’adolescente.

Ladame
Ringrazio Novelletto che ci ha riportato al cuore del problema. E’ chiaro che sono solo parzialmente d’accordo.
Vorrei distinguere due piani: uno è il piano della sessualità della ragazza e della possibilità di integrare la sessualità nel suo essere, l’altro è il piano concreto della presenza reale della madre. Io non volevo assolutamente dire alla dott.ssa Pandolfo che oggi deve cambiare il setting, ma volevo dire che, a seconda degli obiettivi che stabilirà, dovrà cambiare il setting. Sono d’accordo con Novelletto sulla onnipresenza della madre sia nella realtà esterna sia in quella interna. Penso che la scena eterosessuale, l’acting out fatto a 13 anni sia in realtà pseudoeterosessuale e rappresenti la difesa della bambina dall’incesto con la madre, e che quindi ci sia una condensazione di significati nella scena raccontata da A. Sono pienamente d’accordo che ci sono dei contenuti, come questo estremo rischio di dipendenza dalla madre, che non possono essere comunicabili alla paziente e che quindi stiamo lavorando veramente sul filo del rasoio. A. comunque è ora una ragazza alla fine dell’adolescenza, ha vent’anni, non ne ha più tredici. Qualunque sia la realtà della patologia della madre, ci sono interiorizzazioni che già sono state fatte. La dott.ssa Pandolfo alla fine si chiede se dovrà continuare a fornire alla paziente gli apporti identificatori di cui ha ancora bisogno. Mi sembra che l’interiorizzazione di questa immagine della madre folle sia già avvenuta, per cui il problema a questo punto è come permettere di cambiare questa identificazione profonda. Sono d’accordo sul fatto che non si può dire alla paziente di continuare la terapia perché la madre è pazza, ciò sarebbe traumatico ed anche antietico. La domanda invece riguarda l’essere e il divenire della paziente insieme con la terapeuta, la quale chiede alla paziente “che cosa vuoi fare della tua sessualità?”. E’ dunque importante riprendere il tema della sessualità e vedere quale mezzo scegliere insieme per affrontare questo problema, lasciando aperte una serie di prospettive: continuare come adesso, valutare la possibilità di un cambiamento di setting oppure stabilire una interruzione negoziata per predisporre una successiva ripresa.
E’ etico trasmettere al paziente che, anche se non si fa attualmente il trattamento ottimale, sarà possibile farlo in futuro. In ogni seduta ci si dovrebbe chiedere “perché il paziente è ancora qui e a fare che cosa?”.

Novelletto
Per quanto riguarda i propositi di riprendere un’analisi in seguito, un proverbio italiano dice “meglio un uovo oggi che una gallina domani”! Io mi differenzio da Bion sul fatto che ho sempre il desiderio che il paziente non interrompa. Vorrei rispondere sul fatto che secondo me non è indispensabile che la paziente passi da due a tre o a quattro sedute. Nella prima seduta riportata la paziente sta uscendo da un lutto, sta provando dolore perché il suo primo ragazzo non la cerca più e lei non ha il coraggio di cercarlo. A questo punto succede che incontra l’angelo custode e penso che questo incontro non sia del tutto casuale, ma sul piano psicopatologico potrebbe essere considerato un delirio di protezione, abbastanza raro nell’adulto. Nell’adolescenza questo tipo di fantasma si avvicina molto a quei fenomeni normali quali il compagno immaginario. La dott.ssa Pandolfo descrive che nella prima parte della terapia A. era molto emozionata, desiderosa di recuperare terreno rispetto agli altri. Questo desiderio di recuperare terreno, anche se si verifica in una ragazza di 20 anni, corrisponde ad una pulsione che secondo me non è esclusivamente proprio sessuale. Questo tipo di consapevolezza che il proprio sviluppo, la propria soggettivazione si è arrestata è una consapevolezza che si può trovare anche in pazienti fortemente scissi o anche con danno organico, come gli insufficienti mentali. Io credo che la realizzazione, l’uso di questa spinta si sia dimostrata molto possibile nell’attuale setting e questo è dimostrato dal fatto che di fronte ad una perdita (quella del ragazzo) A. è in grado di reagire evocando la presenza di un oggetto interno protettore, affabile, incoraggiante da contrapporre a diavoli ed extraterrestri. Ora se la paziente può fare questo tipo di operazione mentale in questo setting, ciò è un segno che questo setting funziona e può dare dei risultati importanti. Secondo me questa fantasia, che io ho definito altrove “fantasia di recupero maturativo”, A. la fa risalendo dalla fantasia di recuperare attraverso la sessualità. Vale a dire che nel rapporto con Sandro A. sperava di diventare normale, integrata, col semplice fatto di trovare uno sbocco non incestuoso alla sua sessualità. Ma secondo me la scissione di A. è molto più grave di quella relativa soltanto all’immaturità sessuale, quindi A. ha intrapreso nella terapia lo sforzo di integrare libido e distruttività ad un livello molto più primitivo che non a livello sessuale. Se una terapia può dare questo tipo di sviluppo è secondo me una terapia che va bene così come è.


Ladame
Cercherò di essere più breve possibile, soffermandomi sui punti in cui non sono d’accordo. Ormai Sandro non c’è più e si ripete una scena dell’età di 13 anni. Il problema è che A. dice “c’è il diavolo, ma adesso c’è l’angelo custode e io sto bene”. C’è quindi una scissione tra l’angelo e il diavolo. Allora Sandro proteggeva la paziente da un transfert passionale verso la terapeuta. Ora si ha una congiuntura in cui o ci sarà soltanto l’angelo custode (e quindi la terapeuta dovrà svolgere il ruolo dell’angelo custode) oppure ci sarà un’esplosione che avverrà nel transfert. Sono convinto che il trattamento funzioni, ma che funziona con dei limiti. Si potrebbe tentare quindi di riunire idealmente Sandro all’angelo custode nella sola persona della terapeuta.

Monniello
A proposito del contributo clinico che dà la terapeuta vorrei riprendere tre punti:
1) in molti casi con l’introdurre un nuovo contratto l’holding viene messo in discussione. Io proporrei un altro modo, cioè valutare quello che è stato fatto fino ad un certo punto e quindi valorizzare il percorso fatto insieme, come ha fatto con A. la dott.ssa Pandolfo, fare un piccolo bilancio e continuare;
2) Quale scopo dare al trattamento. Nel nostro lavoro clinico io e la dott.ssa Maltese, a proposito di obiettivi del trattamento, abbiamo proposto la formula seguente: parafrasando Freud, il quale in relazione all’analisi diceva che bisogna arrivare al sicuro convincimento dell’esistenza dell’inconscio, portare l’adolescente al sicuro convincimento di disporre di un proprio apparato psichico attraverso il quale pian piano affrontare le sue angosce. Secondo noi questo può essere un obiettivo del trattamento;
3) Per quanto riguarda la questione di offrire ai pazienti gravi un setting psicoanalitico come soluzione ideale, la realtà mette di fronte al fatto che questa soluzione deve essere elaborata come un lutto all’interno del terapeuta perché la realtà è complessa, soprattutto per certi aspetti di penuria di rappresentazioni. Il versante su cui io proporrei di leggere questa difficoltà è quello di pensare che accanto a questo difficile, ipotetico lavoro di lutto si possa immaginare, proprio per confrontarsi con la penuria di rappresentazioni, il lavoro nella mente dell’analista. Mi riferisco in particolare al lavoro di autoanalisi dell’analista. Intendo dire che il lavoro con l’adolescente può riattivare delle possibilità di rappresentazione dell’adolescente stesso perché all’interno della mente dell’analista prosegue un lavoro di autoanalisi con se stesso. Per autoanalisi intendo tutto il lavoro che è stato avviato dalla propria analisi e che resta qualcosa di molto fertile in quanto continua a cercare rappresentazioni dentro di sé e indirettamente non può che trasmetterle all’adolescente.

Ladame
In relazione all’osservazione complessa del dott. Monniello per quanto riguarda la crisi di rappresentazione si possono ipotizzare schematicamente due possibilità. In un primo caso, meno complesso, la crisi di rappresentazione ha una natura difensiva per cui l’analista presta il suo apparato psichico per mettere in parole le rappresentazioni che mancano. Riprendendo una metafora della relazione primaria il terapeuta presta il proprio pensiero perché possa esprimersi il pensiero del paziente. Ciò che rende molto difficile fare questo è la dimensione del transfert, e qui sta la seconda possibilità. Infatti se si è in una situazione in cui si è installata con forza una relazione transferale muta, il silenzio di rappresentazioni che ne deriva può essere un modo per difendersi dalla passionalità presente nella relazione transferale, soprattutto quando ci troviamo di fronte ad una paziente adolescente e a una terapeuta entrambe di sesso femminile. Quindi il rischio è di buttare altro olio sul fuoco. Quando si è in una situazione del genere, in cui c’è il rischio che non ci sia più un terzo tra paziente e analista per cui la paziente sente le parole non più come simboli ma come oggetti molto concreti, la soluzione che si potrebbe proporre è quella dello psicodramma, che in base alla mia esperienza può essere una soluzione davvero utile.
Per quanto riguarda le riserve di cui parlava il dott. Monniello sulla ridiscussione del contratto con gli adolescenti, secondo me non si tratta di introdurre in maniera improvvisa questo discorso. Il discorso è stato evocato dalla stessa A. che ha esplicitamente detto di considerare concluso il primo contratto stipulato al posto suo. Quindi lo spazio per proporre questo contratto c’è. In realtà è vero che viene messo in discussione il contenitore, ma questo non vuol dire necessariamente che il contenitore precedente fosse inefficiente o non servisse a nulla. Si tratta di fissare nuovi obiettivi e quindi eventualmente occorre un contenitore, un setting più rigoroso, di un senso diverso rispetto a quello che c’era prima.
Per quanto riguarda l’ultimo punto sono pienamente d’accordo che l’obiettivo della terapia sia quello di dare al paziente adolescente la possibilità di dare credito al suo apparato psichico, che gli servirà come riparo dai traumatismi interni, ma ciò presuppone che l’analista contenitore, da esterno che era, sia stato interiorizzato. A proposito dell’aspetto del lutto nel transfert in un vecchio articolo di diversi anni fa io parlavo di transfert e controtransfert nei pazienti adolescenti. A mio avviso il controtransfert è quella situazione in cui il narcisismo del terapeuta viene messo in discussione, viene sfidato; forse quando la dott.ssa Pandolfo diceva di aver paura nel transfert non rifletteva tanto la conflittualità quanto questa minaccia al suo narcisismo di terapeuta.


Ladame
Lasciatemi comunque ribadire che non c’è motivo di avere paura di ridefinire il contratto. Non c’è pericolo in quanto i pazienti, soprattutto quelli molto gravi, sono terrorizzati dal loro stesso psichismo e sono convinti per questo che anche gli altri abbiano paura, quindi ridefinire può essere anche un modo per dire loro che il terapeuta non ha paura e ci si può inoltrare in quella zona della mente.

Perret-Catipovic
Per portare avanti una terapia è necessario che il terapeuta ad un certo punto sia entrato nella follia del paziente e la condivida. Per poter fare ciò occorre soddisfare alcune condizioni. In campo completamente diverso si può fare un paragone con la necessità di fare un’operazione a cielo aperto per salvare il paziente. Il chirurgo in questa situazione si assicurerà che ci siano le condizioni per poter fare l’intervento, controllerà la sala operatoria, gli strumenti, il personale che collabora con lui… Se non sono garantite queste condizioni di sicurezza il chirurgo non opera, perché il paziente può rischiare di morire. Nelle terapie con adolescenti si apre spesso un dilemma del genere: cosa possiamo provocare se si va troppo in fretta o troppo lentamente. La paziente della presentazione clinica, Anna, aveva avuto quell’episodio a 13 anni, era stata anche ricoverata a 17 anni e poi pian piano era migliorata. Per poter continuare il trattamento bisogna fare altro. Se si decide di affrontare altri temi nella terapia con la paziente, come la sessualità o l’identità, è probabile che A. avrà un altro episodio psicotico, quindi prima di poter fare questo passo avanti è necessario valutare se la paziente è in grado di sopportare questo episodio psicotico o se verrà usato a danno della terapia, attribuendo al trattamento la colpa di averla fatta impazzire nel corso di una regressione temporanea. A volte dunque, prima di fare questi passi avanti, è necessario aspettare anche degli anni finché non siano garantite le condizioni di sicurezza. E’ proprio su queste questioni, cioè su quali sono gli obiettivi, i mezzi che si possono usare, che cosa si rischia di provocare, che io mi sto interrogando a proposito di una paziente che ho seguita dall’età di 18 fino a 21anni e della quale voglio parlarvi.
La prima volta che ho sentito parlare della paziente è stato attraverso la madre, la quale ha telefonato al servizio chiedendo che la figlia fosse ricevuta con urgenza perché stava molto male, voleva suicidarsi. Però lei non poteva accompagnarla, perché stava per partire per le vacanze! Io sono a disposizione per affrontare le situazioni di crisi e poche ore dopo la ragazza ha telefonato di persona chiedendomi se ero davvero disponibile ad incontrarla. Si trattava effettivamente di una situazione di crisi. Avevo di fronte una ragazza che stava terminando il primo anno di università nella facoltà di filosofia, non aveva mai avuto problemi rilevanti, ma nel momento preciso in cui i genitori stavano partendo per le vacanze aveva mostrato angosce intollerabili. Mi ero fatta l’idea di dover intervenire sulla situazione di crisi, vale a dire intervenire soltanto su questa angoscia appena emersa, con il proposito di trovare dei punti di riferimento che sostituissero ciò che fino ad ora era stato rappresentato dai genitori. Però la ragazza, nel momento in cui i genitori partivano, aveva l’impressione di avere davanti a sé un orizzonte infinito, dove non c’era nulla che la potesse fermare. Allora l’idea è divenuta quella di lavorare per alcune sedute sul rinforzo delle sue competenze, cioè sui possibili riferimenti interni che aveva, intervenendo in maniera direttiva su come organizzare le sue giornate. La paziente ha reagito abbastanza rapidamente, ma venne fuori che non era la prima volta che stava male quando i genitori andavano in vacanza, anche se stavolta era stata la più eclatante. Dagli incontri con lei emerse chiaramente che aveva funzionato fino ad allora soltanto sovraccaricandosi al massimo per evitare di pensare. Per la prima volta nella sua vita, alla fine del primo anno d’università si trovava davanti quindici giorni liberi durante i quali non aveva niente da fare. Siccome la situazione era nettamente migliorata la ragazza mi disse “mi ha fatto così bene venire da lei! Non è che potrei continuare a venire ogni quindici giorni?” Allora le ho posto la domanda “a far che? Per non perderci di vista? Per diventare amiche?” Questa mia domanda è stata per lei fastidiosa e difficile da capire, e ci siamo lasciate con questo “rivederci per fare che cosa?” in sospeso, dandoci appuntamento ad un mese di distanza. Un mese dopo arriva molto turbata e agitata perché dall’ultimo incontro si è fatta un sacco di domande. Non capisce perché è d’accordo e allo stesso tempo non è d’accordo con me, pensa che io avessi ragione quando le ho detto che stava facendo tutto il possibile per non pensare, eppure non può essere d’accordo su questo, dal momento che studia filosofia, che consiste appunto nel pensare in continuazione. Mi dice che le sembra utile tornare ogni tanto per discutere di questa questione, ma io le rispondo con notevole fermezza che non c’è più motivo per farlo perché lei non è più in una situazione di crisi. Se lei ha interesse a porsi questa domanda con qualcuno bisogna organizzare gli incontri con una dose massima di sicurezza, quindi se lei vuole fare una psicoterapia deve pensarci molto seriamente perché si tratterebbe di un vero lavoro, che potrà portare conseguenze rilevanti per la sua vita.
Mi ricordo che abbiamo impiegato l’intera seduta per discutere dei rischi della psicoterapia, rischi per una persona come lei, che aveva costruito finora la sua vita con l’intelligenza e aveva mantenuto fino al primo anno di università dei meccanismi difensivi efficaci. Doveva sapere che, se qualcuno incominciava ad interessarsi ai suoi meccanismi di difesa e alla loro efficacia, si sarebbe potuta trovare ad un certo punto scoperta, priva di protezione. Io ero a conoscenza della crisi così forte che lei aveva avuto, quindi lei doveva sapere che fare una psicoterapia comporta l’instaurarsi di una relazione di dipendenza da qualcuno e doveva riflettere attentamente se era in grado di sopportare tale dipendenza.
Certo questi sono discorsi teorici, non ci si può aspettare che l’adolescente sappia cosa sia una relazione di dipendenza o un transfert, ma secondo me è importante parlarne all’inizio, prima di tuffarsi nella relazione. Anche questa volta ci siamo lasciate con l’accordo di rivederci un mese dopo, quando avrebbe portato le conclusioni delle sue riflessioni su tutti questi argomenti. Quando tornò mi chiese di fare una psicoterapia perché aveva riflettuto e si domandava se a quel punto aveva già finito di vivere o se avrebbe potuto ancora svilupparsi, tenendo conto anche dei momenti difficili che aveva vissuto. Sottolineò inoltre un aspetto fondamentale che l’aveva spinta a prendere questa decisione, cioè il fatto che io avevo parlato del piacere di vivere e che a quel punto si era resa conto che nella sua vita non c’era niente che andasse particolarmente male, ma che non aveva mai occasione di provare piacere. E’ difficile sentire una frase di questo genere da una ragazza diciottenne, carina, intelligente e provvista di tutto ciò che serve per vivere una buona vita. Alla domanda con chi volesse fare questa psicoterapia, non ci poteva essere altra risposta se non con me. Mi disse “lei è stata l’unica persona che mi ha dato la speranza di poter essere un giorno una donna felice e matura”. Sono considerazioni molto pericolose perché fanno capire che nella relazione c’è già il germe della seduzione. A questo punto abbiamo deciso di cominciare.
Poco dopo l’inizio della psicoterapia era sostanzialmente preoccupata di trovare cosa dire per farmi piacere. In occasione della prima interruzione, ebbe una vera esplosione passionale. Poco prima di andarsene mi disse: “non so cosa mi darà la forza di sopravvivere per una settimana in questo mondo così grigio, ma il colore dei suoi occhi così belli è l’unica cosa che mi dà la speranza di vivere”. Io sono partita per una settimana dopo questa chiusura ma quando sono tornata è stato terribile, perché la paziente ha provato per la prima volta l’assenza, la mancanza e ha sofferto tantissimo, non l’ha sopportata così come non aveva sopportato la partenza dei genitori e ha messo immediatamente in discussione la continuazione della terapia, dicendo “se lei mi vuol far soffrire come mia madre che ci vengo a fare?”
La possibilità di continuare è stata dovuta al fatto di poter ricordare tutto quello che era successo prima che cominciasse il trattamento. Nei mesi successivi la situazione è stata molto difficile e anche pericolosa. Avevo veramente paura per la vita di questa ragazza, perché in questa sua situazione di totale vuoto identitario lei viveva in una identificazione adesiva, “incollata a me”, la sua unica ragione di vita era costituita dai contatti che aveva con me. Più stava incollata a me, più aveva la sensazione di non esistere. Passava il tempo ad incollarsi a identità casuali, per esempio vedeva una persona per la strada e pensava che potesse piacermi, allora andava a comprarsi immediatamente dei vestiti uguali a quella persona in modo da poter venire da me e sedurmi. Questo suo modo di comportarsi si traduceva in una relazione che aveva qualcosa di perverso, e tutto il discorso era incentrato su “chi cercava di sedurre chi”. La paziente veniva per cercare di dirmi cose che mi facessero piacere, ma nello stesso tempo era arrabbiata, convinta di aver perso tutta la sua libertà perché io l’avevo sedotta; le sue accuse di seduzione diventavano ogni volta più precise, io pensavo che se fossimo state negli Stati Uniti avrei rischiato veramente di grosso, perché aveva trovato un alleato: era riuscita ad allearsi con sua madre per accusarmi di essere perversa e tentare di sedurla.
La madre, da parte sua, non era stata in grado di elaborare un trattamento che aveva cominciato e poi interrotto per paura di quello che poteva succedere nella relazione. La paziente mi disse, per esempio, che sua madre non sopportava che lei parlasse di me e che una volta aveva affermato “ma perché continui ancora a parlarmi della signora Perret-Catipovic, sono sicura che lei non sa assolutamente cosa farsene di te, l’unica cosa che le interessa è il sesso”. La paziente mi disse che aveva cercato di difendermi, ma la madre le aveva detto “quando lei ti parla, non tiene in mano una penna che muove in un certo modo?”. Lei le ha risposto “no, non ha la penna in mano”. Allora la madre ha ribadito “quando parla non si tocca i capelli?” e ne ha provate tante finché non ha trovato un dettaglio per dirle “vedi, si masturba davanti a te perché sta tentando di attirarti nei suoi giochi perversi”. E’ vero che la madre era molto malata, ma allo stesso tempo cosa mi diceva la figlia raccontandomi queste cose? Perché non riusciva a non parlare di me a casa? Perché non era capace di proteggere la sua terapia? Proprio in questa fase di continue domande siamo entrate in un’altra dimensione, cioè la necessità che la paziente aveva di rendermi onnipresente. Io la vedevo due volte alla settimana ma per lei era diventato insopportabile che ci fossero dei momenti di separazione tra le sedute. Quando era con me la paziente viveva in un mondo troppo pieno di eccitazione e quando non era con me viveva momenti di vuoto assoluto. Per uscire da quei momenti di vuoto mi convocava nel suo psichismo, ma immediatamente, come nel dialogo che aveva avuto con la madre, il fatto di pensare a me diventava troppo eccitante. Il trattamento era diventato davvero molto difficile, si poteva dubitare che servisse a qualcosa in quanto l’unica cosa di cui si riusciva a parlare era che quando io non c’ero ciò era insopportabile, ma quando io c’ero era ancora più insopportabile. Bisognava dare un senso a questa eccitazione ma non si riusciva a farlo, nelle due sedute a settimana si riusciva soltanto a parlare della sua disperazione. Quando è così ci si trova in un paradosso, se si interrompe si lascia la paziente ancora di più nel vuoto e nella frustrazione, se si aumenta il numero delle sedute si va in direzione dell’eccitazione.
Ciononostante ho incominciato a proporre l’idea di passare da due a quattro sedute a settimana, quanto meno per trasmetterle che non avevo paura della sua pulsionalità, la paziente è rimasta molto turbata da questa proposta, mi ha risposto “ già faccio tanta fatica a trovare cose da dire due volte alla settimana, cosa vuole che le dica in quattro?” La ragazza appariva effettivamente come vuota, incapace, come se non ci fosse niente altro dentro di lei. Un giorno stava descrivendo ogni dettaglio del mio abbigliamento, si soffermava sul fatto che avevo cambiato colore dello smalto alle unghie, cercava di scoprire qualunque particolare visivo nel mio comportamento e aspetto fisico che potesse rivelare un’intenzione seduttiva. Le sottolineai l’aspetto difensivo di questo suo modo di guardarmi nei dettagli come un modo per evitare di guardare dentro se stessa, ma probabilmente fu un errore tecnico da parte mia, nel senso che non avevo sopportato quello che mi aveva detto e glielo avevo rimandato indietro sicuramente troppo presto, almeno con due anni di anticipo. Infatti la volta successiva la paziente è arrivata per la prima volta con una tristezza infinita, dicendo “faccio di tutto per farle piacere, ma non ci riesco. Per farle piacere ho provato a guardare dentro di me ma ho trovato soltanto del vuoto, ho cercato di ascoltare quello che c’è dentro di me ma mi ha risposto con il silenzio”. La paziente sentiva veramente di essere stata ferita narcisisticamente in modo insopportabile. Insomma eravamo in una situazione in cui se aumentavamo le sedute andava male, se le riducevamo andava male lo stesso, se rimanevamo nella situazione attuale andava male ugualmente. Io cominciavo a fare errori significativi, quindi bisognava fare comunque qualcos’altro, anche perché la ragazza aveva smesso di studiare.
Abbiamo pensato a questo punto di introdurre lo psicodramma, in modo da introdurre un terzo nel rapporto tra lei e me.
La paziente ha fatto molta fatica ad accettare lo psicodramma, lo fa fatto soltanto per farmi piacere. Il setting dello psicodramma prevede che la terapeuta sia presente anche se sta sullo sfondo ed è stato per questa ragione che la ragazza ha accettato di farlo “lei non mi porterà in quel posto per sbarazzarsi di me, deve essere presente, altrimenti non accetto di farlo”. Ci sono state soltanto quattro sedute di psicodramma, dirette da Ladame, e sono state usate per elaborare il legame insopportabile con me. Dopo la prima seduta di psicodramma ci siamo viste e lei mi ha detto “perché mi ha mandato in quel posto, che cosa pensa che possa cavarne, come pensa che tutte quelle persone possano sostituirla?”. Ha cominciato a descrivermi tutte le persone presenti in modo molto sprezzante: c’era il tipo che era antipatico, quello che era moscio o che parlava male…Il suo tentativo era quello di fare una collusione narcisistica con me, come per dire “io e lei non abbiamo bisogno di nessun altro al mondo”. Era davvero molto irritata per il fatto che io potessi ritenere quelle persone in grado di supplire la funzione che invece dovevo svolgere io. Questo ci ha permesso di elaborare la questione “chi seduce chi”, cioè a dire il perché lei aveva bisogno che io fossi per lei l’alfa e l’omega. A partire dall’introduzione dello psicodramma si è aperto uno spazio tra lei e me, è riuscita ad investire su altre persone, a parlare della sua sofferenza che prima non era mai riuscita a mettere in parole, sopra tutto di un aspetto che la torturava: prima ripeteva “dentro di me non c’è nulla” e adesso “dentro di me c’è una grande sofferenza”.
La capacità di investire altre persone passava sempre attraverso il suo legame con me, quindi le uniche persone che poteva investire erano uomini che avessero la mia stessa età, possibilmente con lo stesso nome di battesimo di mio marito.
La paziente si era informata su di me, sapeva assolutamente tutto e poi nelle sedute raccontava delle serate che aveva trascorso con tizio o caio. Dunque cercava di fare una triangolazione in cui c’eravamo io, lei e una terza persona di sesso maschile, ma la cosa falliva perché lei invece di essere la mia rivale diventava me, cioè si tornava ad una relazione a due. In realtà c’era un tentativo di spostare la relazione perversa con me su uomini con i quali finiva quindi per avere una relazione altrettanto perversa.
A questo punto diventava però possibile considerare l’ipotesi delle quattro sedute alla settimana. Nel giro di qualche mese eravamo arrivate al punto in cui la paziente metteva in discussione il proseguimento del trattamento, dicendo “o faccio quattro sedute a settimana o interrompo del tutto”. Infatti la sensazione di frustrazione durante il trattamento era stata sempre qualcosa di insopportabile. Non sono arrivata alla proposta delle quattro sedute a settimana per caso ma perché la paziente, oltre le due ore alla settimana, aveva sempre occupato un bel po’ del mio tempo: mi telefonava, mi riempiva la segreteria telefonica di messaggi, consumava l’intero rullo del fax, mi scriveva talmente tante lettere da riempire la cassetta della posta. Siccome mi sembrava opportuno mettere questa eccedenza di materiale dentro un quadro che potesse contenerla, ho pensato all’ipotesi di fare quattro sedute a settimana. Quando lei resisteva alla mia ipotesi di calare questo materiale in un setting più adeguato diceva “smetto e lascio tutto”, oppure diceva di essere d’accordo con la mia proposta. Allora le ho suggerito di andare a parlare con Ladame della possibilità di aumentare le sedute, con l’idea di triangolare la situazione e mi sono rivolta a Ladame come persona terza, e incaricata di svolgere la funzione di coordinatore del trattamento. La paziente non mi ha mai detto cosa si sono detti, ma dopo l’incontro con Ladame mi ha telefonato dicendo “finalmente ho capito quello che mi serve, vorrei passare a quattro volte a settimana”. Un’ora dopo mi ha richiamato dicendo “spero che lei non sia disponibile troppo presto perché mi sono rotta una gamba e non posso venire”.
Alla fine siamo riuscite a passare a quattro sedute a settimana, e da quel momento in poi non ci sono stati tra noi altri contatti oltre le sedute previste, il conflitto viene elaborato all’interno del setting. Abbiamo mantenuto la situazione vis a vis perché la paziente ha bisogno di un controllo percettivo, ma da quando il setting è diventato più solido è riuscita a proteggere il trattamento, in particolare da sua madre. E’ riuscita addirittura a far in modo che i genitori cominciassero una terapia familiare, ha lasciato la famiglia ed è andata a vivere in una casa famiglia. Per un periodo è ritornata a casa, ma la madre la torturava notevolmente, e allora lei è stata abbastanza forte da allontanarsi di nuovo per poter rincontrarla ad un livello diverso, inaugurando un tipo diverso di relazione. Da quando il setting è diventato più solido la paziente è riuscita a riprendere un percorso lineare nei suoi studi universitari. Prima aveva fatto diversi cambiamenti di facoltà, ora è diventata molto più forte e in grado di proteggersi, però non è lei a pagare il trattamento, sono sempre i suoi genitori. Ciò dà ai genitori il diritto di controllarla di tanto in tanto, quindi le fanno discorsi del genere “noi ti diamo i soldi per la terapia, ma la terapeuta si interessa a te o ai tuoi soldi?”. Questo è un aspetto difficile da gestire. Oggi non ho la sensazione che questa paziente sia in una condizione gravissima né che sia ancora in una situazione di crisi. Ho la sensazione che il suo sviluppo sia rilanciato, ovviamente mi piacerebbe accompagnarla in questo suo percorso che già è stato alquanto minacciato in passato, però credo che questo lavoro per essere efficace deve svolgersi in condizioni positive. Penso anche (e la paziente sembra essere d’accordo con me) che questo lavoro, per andare avanti, deve trasformarsi in una psicoanalisi, se ci si vuole staccare da vincoli e partire con le rappresentazioni. La paziente pensa oggi che nel giro di due anni avrà finito gli studi, si troverà un lavoro e mi chiederà di fare una analisi. Io spero di poter lavorare con lei almeno ancora un po’, in modo da poterci lasciare quando lei si sentirà libera di fare l’analisi, se vuole, anche con un altro analista. Questo è l’obiettivo che mi sono posta nel lavoro che stiamo facendo adesso.


Ladame
Vorrei sottolineare il fatto che oggi non abbiamo avuto occasione di parlare dei nostri due incontri precedenti, eppure alcuni punti si sono resi evidenti nel rapporto tra questa ragazza e la dottoressa Catipovic. Per quanto riguarda la valutazione, ad esempio, c’è un aspetto che spesso sfugge come nel caso di questa paziente, in cui c’è stato un piccolo indizio che avrebbe potuto fungere da campanello d’allarme. E’ una cosa che compare in maniera molto più evidente nelle situazioni psicotiche, mentre in questo caso si è trattato di uno scompenso ansioso molto grave e non di una psicosi. Mi riferisco alla problematica dell’oggetto primario. Nei casi più favorevoli l’oggetto primario è presente ma è muto, nel profondo dell’essere. E’ la garanzia dell’esistenza, la presenza dell’altro in se stessi, che però non ci rende mai alienati a noi stessi, altro paradosso del soggetto umano. Nel caso di questa paziente era davvero difficile accorgersi fin dall’inizio che l’oggetto primario, invece di essere onnipresente ma silenzioso, era fonte di alienazione come nelle situazioni psicotiche classiche. Questo potere alienante dell’oggetto primario si traduce infatti in un rapporto con l’altro che minimizza quel poco di essere di sé, che era rimasto nella paziente. Questo va visto anche nel transfert passionale verificatosi. Dico ciò sopra tutto perché molte volte nella valutazione ci troviamo di fronte a informazioni incomplete e poi certe cose le scopriamo nel corso del trattamento. Si tratterebbe di vedere se poteva essere possibile prevedere quello che sarebbe successo prima di essere travolti da quella bufera raccontata dalla dottoressa Catipovic. Se nella valutazione ci accorgiamo di questo tipo di problematiche, dobbiamo mettere in atto dei dispositivi di protezione della terapia.

Carratelli
A me sembra che voi diate estrema attenzione alla dimensione esperenziale, sia oggettuale che narcisistica, come si vede nel caso della dott.ssa Catipovic, dove il tema dell’alienazione dell’oggetto primario e dell’impossessamento dell’altro, sia a livello sessuale che mentale, è l’elemento costante. Mi ha colpito sopra tutto l’attenzione che voi date alla terza dimensione, quella transizionale. Mi sembra che all’interno di questa dimensione, che ci permette di comprendere tutta la formazione delle costruzioni intermedie, vada riconosciuto lo svolgersi continuo di due versanti, l’uno molto concreto e l’altro sempre più psichico. Da questo punto di vista Novelletto ha osservato che l’analista non può condividere tutto con il paziente, si è parlato della introduzione dello psicodramma, dell’ospedalizzazione o della terapia farmacologica. Tutto ciò può avere una funzione squisitamente transizionale, ed ha appunto anche una necessità concreta (come ad esempio lo psicodramma) ma poi nel tempo possono essere risignificate dalla terapia e dal setting.


Perret-Catipovic
Sono pienamente d’accordo, in quanto penso che quando tra soggetto e oggetto non c’è uno spazio l’adolescente rischia di perdersi nell’adulto. E’ necessario allora che ci sia una terza persona all’esterno che faccia da punto di riferimento, che serva a scollare lo spazio della fusione e dare lo spazio che rimane alla area transizionale. Questo funziona però con gli adolescenti che non sono molto malati e che quindi possono capire l’utilità che può avere una terza persona. Con gli adolescenti molto malati non è sufficiente spiegare che il terzo può avere tale funzione, quindi a volte bisogna non rappresentare le cose ma raffigurarle con azioni concrete che poi assumono senso nel trattamento.


Carratelli
Vorrei aggiungere che le strutture intermedie servono anche per la trasmissione psichica con le generazioni, nella misura in cui viene privilegiata la dimensione transizionale. Questo vale sia per il tema della mamma della sua paziente che per la mamma della paziente della dott.ssa Pandolfo. Per esempio il modo in cui la paziente della dott.ssa Pandolfo si rammarica del fatto che deve pulire la cacca dei cani di sua madre non indica soltanto la questione di cui parlava sia Novelletto (occuparsi della madre reale) che Ladame (occuparsi dell’imago), ma rivela anche una dimensione transizionale che riguarda il modo in cui questa ragazza è stata un appoggio per la follia della madre e come va ancora negoziata l’attualità di questa follia. Non si tratta soltanto di una situazione esterna, né di una situazione interna, ma piuttosto di una follia che sta in mezzo ai due oggetti.

Perret-Catipovic
In effetti non bisogna mai dimenticare questi elementi. E’ proprio questo che rende il lavoro con gli adolescenti così complesso, perché essi fanno parte di un’organizzazione della quale bisogna tener conto per le relative ripercussioni, anche se non si lavora su tutto l’ambiente.

Piovano
Vorrei fare una riflessione sul percorso emotivo e di pensiero che ho fatto mentre ascoltavo la descrizione della relazione narcisistica con questa paziente. All’inizio mi sono chiesta il perché della necessità di trovare un terzo al di fuori della relazione analitica e perché non era possibile trovare un terzo nella mente dell’analista, all’interno della relazione. Mi riferisco alla capacità di osservare quello che avviene nella relazione, introdurre l’alterità, capire il punto di vista dell’altro senza perdere il proprio punto di vista. La dott.ssa Catipovic evidentemente sentiva l’esigenza di introdurre un terzo reale. Sembra che l’introduzione di questo terzo reale non abbia funzionato come si poteva immaginare, in più c’era il desiderio di voler passare a quattro sedute, che apparentemente sembrerebbe in contrasto con l’introduzione di una terza persona. Penso che la vera soluzione fosse quella di passare ad una analisi, cioè che fosse necessario introdurre un terzo che garantisse alla coppia analitica la possibilità di regredire e così di vivere quel contatto fusionale profondo che sta alla base delle identificazioni primarie o narcisistiche che pare mancassero in questa paziente. Quindi mi sembra che il terzo fosse garantito dal setting analitico, cioè dalla posizione sdraiata e dalla maggiore frequenza delle sedute.

Perret-Catipovic
Questo è l’obiettivo da raggiungere ed è evidente che in una situazione analitica si lavora in triangolazione, ma in certi casi la relazione passionale che si instaura impedisce ciò, in quanto l’analista non è più come la madre ma diventa la madre. Tra le moltissime lettere che questa paziente mi ha mandato ce n’è una che mi ha colpito molto. Diceva che in qualunque momento chiudesse gli occhi vedeva me, sentiva la musica e sentiva la mia voce, era completamente invasa da me. Perciò si chiedeva “ma lei chi è? Non è mia sorella, non è mia madre, non è mio padre, non è un’amica, non è la mia amante, eppure è tutte queste cose perché lei è tutto per me”. Sono d’accordo con quello che lei ha detto perché nel momento in cui il setting è diventato più solido ho potuto diventare un terzo. Con la frequenza di due volte a settimana non potevo rappresentare il terzo, quindi tutte gli altri interventi che tentavo di fare servivano solo perché la paziente accettasse di intensificare il setting senza scappare via e dire che per lei quella situazione era insopportabile.

Ricciardi
Visto che nei primi incontri la percezione, anziché rappresentare uno strumento che permettesse un distanziamento, aveva invece un senso perverso, vorrei sapere perché non aveva scelto di usare sin dall’inizio un setting analitico? In fondo la paziente dimostrava di aver potuto riflettere malgrado che le sedute fossero distanziate di un mese l’una dall’altra, ciò che sembrava poter testimoniare l’esistenza di una capacità rappresentativa?

Perret-Catipovic
È una domanda che mi sono posta anch’io. Io penso che, nel momento in cui si è instaurata una relazione tra la paziente e me, ci sia stato qualcosa che ha cancellato la distanza tra lei e l’oggetto. Già durante gli intervalli di un mese tra l’uno e l’altro dei primi incontri aveva utilizzato in maniera attiva il tempo, cioè aveva incominciato a cercare informazioni su di me.

Ladame
La domanda che forse ci dobbiamo porre è quanto fosse autentica questa apparente capacità della paziente di mantenere un’identificazione con la terapeuta durante l’assenza, perché in fondo l’esigenza del suo funzionamento psichico, come accade spesso negli adolescenti, era quella di mettere in continuità le cose percepite al posto delle rappresentazioni, quindi probabilmente la ricerca di informazioni sulla vita della dottoressa era particolarmente eccitante.

de Vito
A proposito della questione dei dubbi e dei rischi che la dr.ssa Catipovic nutriva per la psicoterapia per questa paziente, mi sembra che la proposta e la relativa attesa avesse assunto caratteristiche concrete di per sé, nel senso “io sono un oggetto che c’è e che può scappare”, quindi in termini di oggetto seduttivo in senso percettivo. Ciò può aver indotto in una paziente con quel funzionamento, un bisogno di tener concreto e vivo in sé l’oggetto che non era rappresentazionale ma percettivo, con tutte le caratteristiche di un oggetto traumatico, che invade il funzionamento psichico come un incubo, come qualcosa che non può essere cancellato dalla mente e che ha aspetti profondamente percettivi, sensoriali più che psichici, proprio come qualcosa che può esserci e non esserci più un attimo dopo.

Perret-Catipovic
Solo una associazione: mi viene da pensare ad una particolarità del rapporto madre- bambino. La madre della paziente era convinta che la figlia avrebbe avuto problemi di peso come lei. La madre mi ha raccontato di aver sempre nutrito la bambina di sorpresa, fin dai primi giorni di vita. Le toglieva il biberon all’improvviso, ed era secondo lei importante che la bambina non avesse l’impressione di provare soddisfazione nel nutrirsi. Penso che basti questo!


Novelletto
Ci stiamo avvicinando alla conclusione di questo bel ciclo di seminari, perciò desidero ringraziare François Ladame, la dr.ssa Catipovic e tutti voi che siete intervenuti.
Vorrei concludere tornando ad una visione globale dell’argomento dei trattamenti psicoanalitici in adolescenza. Mi sono chiesto se i due casi presentati oggi avrebbero potuto essere adoperati come esempi, il primo di una psicoterapia e il secondo di una psicoanalisi. Credo che questa difficoltà di operare una linea di demarcazione tra psicoanalisi propriamente detta e psicoterapia non solo non sia facile, ma sia anche inopportuno entro certi limiti. Per esempio questo pomeriggio tutti quelli che sono intervenuti sono analisti a pieno titolo e penso che si sentirebbero un po’ a disagio se fossero definiti psicoterapeuti. In altre parole secondo me per poter arrivare ad una osmosi più creativa e più vicina alle necessità dei pazienti adolescenti, noi dovremmo cercare di ridurre ancora di più questa differenza gerarchica che storicamente si è formata tra psicoanalisi e psicoterapia, in particolare con gli adolescenti.
Una delle differenze principali che distinguono un trattamento che si avvicini di più ad una analisi e un trattamento che non si pone al momento il problema di mirare ad una analisi, è senz’altro il posto che occupa l’interpretazione di transfert. Se ammettiamo ciò, io credo che ci imbattiamo in un problema che non mi sembra sia stato risolto nell’ambito della dottrina psicoanalitica in senso lato né in un senso né nell’altro. Mi riferisco al quesito se l’interpretazione del transfert sia superiore ad altre tecniche terapeutiche (come l’empatia, il rinforzo narcisistico) oppure no. L’Italia è particolarmente implicata in questa dialettica riguardante l’interpretazione del transfert, innanzi tutto perché è arrivata più tardi sul terreno psicoanalitico e c’è stato un silenzio di venti anni tra il ‘38 e il ‘58 circa. Durante questi venti anni la psicoanalisi in Europa è andata avanti e ha fatto grandi passi verso l’interpretazione di transfert. Ci sono analisti che prediligono interpretazioni di transfert e sono orgogliosi di uno strumento insostituibile nel loro lavoro, ci sono altri analisti, invece, molto più cauti che considerano l'interpretazione di transfert qualcosa di molto utile, ma talvolta delicato e persino rischioso. Credo che questa non sia una soluzione risolta. E’ legata infatti a tantissimi fattori che non riguardano soltanto l’equazione personale dell’analista, ma riguardano posizioni storiche, culturali, ideologiche, costumi propri dei paesi in cui le scuole psicoanalitiche sono attive. Non è un caso che i dibattiti svolti tra Laufer e Cahn nel meeting di Parigi sulla omosessualità in adolescenza nel ’95, e tra Ladame e Cahn nelle pagine di Adolescence sulla distinzione tra psicoanalisi e psicoterapia, abbiano sempre riguardato analisti di nazionalità diversa.
Dai suddetti fattori derivano implicazioni infinite in tutti i campi della vita di relazione, sui rapporti tra psiche e soma, sulla struttura e funzione del Super-Io ecc. ecc., quindi secondo me non si tratta di differenze tanto facili da superare.
Sarà forse per questo che in un certo senso io e il gruppo che si è formato intorno a me, ci sentiamo più vicini alla concezione di Cahn della soggettivazione non solo come quadro di riferimento dell’apparato psichico e del suo funzionamento nel corso dello sviluppo dell’individuo, ma anche come quadro di riferimento nella valutazione della struttura e quindi della analizzabilità del paziente. Ci è parso tale approccio certamente più agile, più accogliente, meno angosciante di quelli di Laufer. Non si tratta di attribuire a Laufer, come diceva stamattina Ladame, un atteggiamento radicale, eroico, di corpo a corpo con la patologia del paziente, ma penso che siano tanti altri i fattori che possano giustificare queste diversità senza aspettarci che una sia più valida, più affidabile, più utile terapeuticamente dell’altra.
Nel corso di questa giornata di lavoro mi è venuta in mente una metafora: ho pensato alla relazione terapeutica tra adulto e adolescente come una partita a carte in cui l’adulto ha un numero di carte doppio rispetto all’adolescente, e i due giocatori non si tratta soltanto di fare più punti o perdere, ma anche di scartare le carte che penalizzano. Lo scopo finale della partita non è quello di vincere ma è quello di pareggiare, cioè ci dobbiamo alzare dal tavolo soddisfatti di non aver assunto una posizione né di inferiorità né di superiorità nei confronti dell’adolescente. Io penso che questa parità possa essere un assetto interiore transfero-controtransferale di grande avvenire per quanto riguarda lo sviluppo interiore dell’adolescente. In conclusione io mi accontento di pareggiare.

Ladame
Siamo arrivati al momento di separarci. Per me è stato veramente piacevole trascorrere con voi queste tre giornate con voi.

Perret-Catipovic
Vi ringraziamo per averci ricevuto e mostrato tanta attenzione.

Novelletto
All’inizio possiamo sentirci diversi dagli svizzeri, ma alla fine possiamo sentirci uguali!




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