PSYCHOMEDIA --> HOME PAGE
A e P --> HOME PAGE --> Anno II - N° 2 - Maggio 2002




Anno II - N° 2 - Maggio 2002


Lavori originali




Il funambolo sulla corda tesa (1)
Questioni sulla difficile consultazione di un primo-adolescente e dei suoi genitori.

Sabina Lambertucci Mann



In uno dei suoi articoli più conosciuti, “Realtà esterna e realtà interna”, Jeammet scrive: “I genitori sono gli oggetti d’investimento privilegiati di questa realtà esterna. Le loro posizioni non sono mai neutre né indifferenti per l’adolescente. Può dipendere la riorganizzazione del suo mondo esterno. Però, quali che siano le loro strutture e le loro difficoltà personali, i genitori avranno tento più bisogno di essere sostenuti in quanto la crisi adolescenziale dei figli di solito corrisponde in loro alla crisi della mezza età É Alle prese essi stessi con il lutto della loro giovinezza e di molti dei loro ideali, si trovano in piena elaborazione della propria posizione depressiva, perciò le sollecitazioni degli adolescenti assumono spesso per loro il ruolo di altrettanti interpretazioni selvagge”.
Il caso che descriverò ha suscitato in me molta perplessità e molti interrogativi circa la mia pratica di analista. Per Felix l’entrata nell’adolescenza è stata complicata dal fatto che la sua patologia infantile era ancora molto florida e s’intrecciava e confondeva con i rimaneggiamenti e le vicende conflittuali e identitarie comuni a tutti gli adolescenti. Insomma l’adolescenza di Felix sta esordendo su delle basi narcisistiche alquanto vacillanti.

Lo incontro per la prima volta nel settembre 2000, su richiesta dei suoi genitori. Ha 12 anni e mezzo ed è entrato in V (corrisponde alla III media italiana). La consultazione è motivata dalla sua ansia crescente, dalle difficoltà scolastiche e da disturbi del comportamento (crisi di collera, gesti violenti su se stesso o verso gli altri membri della famiglia) che preoccupano i genitori.
E’ il terzogenito di tre maschi, cosa che, come vedremo più avanti, ha avuto un impatto intenso e traumatico fin dalla sua nascita e forse addirittura dal concepimento.
Da bambino (aveva 7 anni e mezzo) cominciò un trattamento presso il Centre Binet. Dopo una prima interruzione lo riprese a 11, e quando lo ricevo insieme ai genitori l’ha sospeso di nuovo, ma in un clima che stavolta mi sembra diverso: mi trovo infatti di fronte all’emergere di una sintomatologia molto vistosa, espressione degli intensi conflitti psichici prodotti dal suo ingresso nell’adolescenza.
So quindi che il nostro incontro sarà segnato anche da un’altra circostanza: il cambiamento di consulente, dal momento che, dopo i due colleghi che mi hanno preceduto (e che hanno trattato Felix fino a ciascuna delle due interruzioni precedenti) io sarò la terza analista che riceve ragazzo e genitori.
Sul piano controtransferale mi sento influenzata dalla lettura della sua cartella clinica e da tutto quello che, a partire da lì, posso immaginare sulla storia di questo ragazzo, della sua famiglia e della sua evoluzione negli ultimi anni. Su certi elementi del suo percorso terapeutico tornerò più avanti.
Al nostro incontro Felix accetta di entrare nella mia stanza camminando a ritroso, come se fossero i genitori a spingervelo. E’ un primo-adolescente molto alto, esile, dinoccolato, goffo, che sembra tenersi dritto a stento, come se non avesse colonna vertebrale. Mi fa pensare ad un bambino dal corpo cresciuto troppo in fretta, un corpo che esprime una sofferenza vera e propria, come se fosse quello di uno scorticato vivo. I tratti del suo viso sono tirati, di tanto in tanto abbozza sorrisi che esprimono ancora di più il suo malessere, ma anche un moto di autodenigrazione. Mi viene spontaneo associarlo a un’annotazione segnata dal collega che l’aveva visto per primo: Felix gli aveva confidato degli incubi nei quali vedeva se stesso come un morto o uno scheletro.
Ripenso all’immagine dello scheletro, che non può reggersi in piedi É Ma allora, oggi Felix si sentirà vivo? Oppure vive nella paura di essere soltanto uno scheletro, un morto vivente? M’invade un sentimento di pena e di tristezza.

E’ la madre di Felix che parla per prima, per esprimere la propria inquietudine sul figlio, che giudica “troppo fragile”. Felix sussulta immediatamente e si oppone con violenza alle parole della madre: sento che la sua grande violenza verbale e la sua angoscia rischiano di sopraffarlo, sento che si trattiene a fatica e intravvedo la possibilità di un passaggio all’atto auto- o eteroaggressivo. Continuo a sentirmi turbata e cerco di comprenderne le ragioni.
Decido allora, come seconda mossa, di ricevere Felix da solo, per lasciargli la possibilità di esprimersi senza l’ascolto, gli sguardi e le riflessioni dei genitori, ai quali mi sembra reagire quasi come un sensitivo. Poter essere ascoltato senza i genitori sembra distenderlo e così riusciamo a parlare in modo più sereno e a mio parere autentico. Senza mai incontrare il mio sguardo Felix mi parla a lungo dei sentimenti di disistima che prova nei propri confronti e, specularmente, del sentimento molto vivo di non essere stimato dai genitori, da suo padre in particolare. Si sente molto deluso. Piange a dirotto, quasi come un bambino. Mi dice che non sopporta più suo padre perché è “molto violento” con lui e “ingiusto”. “Sono il figlio inviso di mio padre e dei miei nonni paterni”. Da sua madre si sente più accettato, pur vivendo anche con lei conflitti molto intensi. E mi spiega: “quando mi scontro con mio padre non posso battermi fisicamente con lui perché è troppo forte”, ma poi sposta l’aggressività verso sua madre insultandola o cercando di picchiarla, infine se la prende con se stesso e si sente terribilmente triste. Una specie di violenza a spirale.
Violenza e aggressività, ma anche dispetto, tristezza e colpa. Il vissuto depressivo mi sembra in primo piano. Ma di che depressione si tratta? Mi colpisce la dimensione narcisistica del moto depressivo: quali sforzi sta facendo questo ragazzo per salvare un po’ del suo narcisismo che sembra sbriciolarsi? Si vede come un bambino che delude i genitori, un buono a nulla, un ragazzo irrecuperabile. Si squalifica e a sua volta squalifica tutti gli adulti che lo circondano.
Mi immagino il clima di violenza e di passione che regna in questa famiglia in cui tutti sembrano sopraffatti. Sento le paure di un raffronto omosessuale sadomasochista tra Felix e suo padre e una vicinanza di marca incestuosa tra lui e sua madre. Gli faccio notare che la situazione che sta vivendo deve essere molto difficile per lui e che deve costargli molta pena. Lui lo riconosce e sembra alleviato dal mio intervento. Ma subito dopo vedo riapparire la sua suscettibilità quando accenno alla sua terapia infantile. Mi rendo conto che Felix non tollera niente che sfiori il sentimento di dipendenza dagli altri.
Gli chiedo se ha dei ricordi di quell’esperienza. Me ne parla a mezze parole, banalizzando, dicendo che non aveva “bisogno di nessuno”, che erano stati i genitori a spingerlo. E’ a disagio, lo vedo molto angosciato. Mi sento impantanata in un sentimento d’impotenza e allo stesso tempo d’inquietudine. Temo un passaggio all’atto? Una chiusura irreversibile? Un rifiuto totale di aiuto e di cure? Una possibilità di rottura, di frammentazione? Penso anche che Felix non è immune da un episodio (o un movimento) psicotico É
In questa prima consultazione Felix continua a ripetermi in tono megalomane (eppure paradossalmente con una sfumatura di grande fragilità) che ce la fa da solo, che non ha bisogno di nessuno e che anche se comincia ad avere problemi a scuola ( i voti sono scesi nettamente e ha avuto varie note in condotta) se la caverà da sé . Ripete una volta di più: “Non ho bisogno di nessuno”, e questo dopo avermi a lungo parlato di tutto il suo sconforto! A questo punto sono colpita da un’altra ripetizione: da bambino Felix diceva già di non aver bisogno di nessuno e oggi le sue parole restano le stesse, ma può essere che in questa nuova fase della vita il suo rifiuto di ricevere aiuto assuma un significato diverso. Comprendo la sua voglia di “cavarsela da sé” anche come bisogno di smarcarsi, di sentirsi più indipendente, di opporsi al suo stato di bambino rivendicando le sue scelte mediante il rifiuto. Questo processo potrebbe risultare di buona lega: un tentativo difficile di avviare un processo di separazione e di “soggettivazione” (Cahn).
Però allo stesso tempo sono colpita dalla qualità strana del suo contatto: ogni tanto è diffidente, talvolta sfuggente o sarcastico, la sua mimica esprime qualcosa di bizzarro. Presenta difficoltà associative e un’assenza quasi totale di capacità di rappresentazione, il suo discorso è povero, talvolta confuso e infine la sua inibizione è massiva e contrasta con i moti d’aggressività e di rivolta ai quali ho assistito all’inizio della consultazione. Lo sento ad un bivio: da un lato i suoi moti d’opposizione potrebbero essere indice di un inizio, certo difficile, di un processo di separazione e di approccio alla posizione depressiva, ma d’altro lato i meccanismi di difesa come la proiezione, il diniego, i vissuti sensitivi mi fanno temere un rischio di frammentazione, di crollo.
Eppure Felix esprime una domanda d’aiuto, malgrado la sua reticenza e la sua ambivalenza.
M’interrogo subito sul setting, forse sul mio setting interiore al quale potermi ancorare per riuscire a pensare e a reggere in questo incontro che sento difficile.
Che setting adottare per poter continuare a lavorare con Felix e i suoi genitori e aiutare questo ragazzo ad elaborare la sua sofferenza che non si rivela soltanto nel suo discorso, ma anche e sopra tutto nel suo corpo?
Allora mi trovo ad esitare fra varie condotte:
Felix potrebbe incontrare di nuovo la psicoterapeuta della sua infanzia, fare il punto con lei e discutere eventualmente l’opportunità di essere indirizzato a un analista d’adolescenti. Però sento in lui una forte paura di gettare questo sguardo sul suo passato infantile, come se rischiasse una regressione senza possibilità di ritorno.
Oppure potrei proporgli d’incontrare subito un altro analista (anche fuori dal Centre Binet) per sottolineare il fatto che non è più il bambino di una volta.
Anche qui esito perché la sua ambivalenza è eccessiva. I passaggi da un terapeuta all’altro sono stati più d’uno e penso che Felix ha prima di tutto bisogno d’incontrare un “oggetto stabile” con il quale tessere un’alleanza. Inoltre, malgrado tutti i cambiamenti di terapeuta, Felix mi dà l’impressione di non differenziare le relazioni né le persone: io potrei essere la stessa analista dei primi due.
Perciò decido di prendere tempo e di cercare, anche se in modo un po’ artigianale, di continuare il lavoro di consultazione con Felix e con i suoi genitori.
Questo percorso mi sembra almeno per ora il meno rischioso.

Quando, alla fine di questo primo incontro, ricevo i genitori in sua presenza, Felix ha di nuovo una reazione di estrema violenza ed esce dalla stanza. Suo padre mi ha appena spiegato che Felix, malgrado la sua intelligenza, a scuola non riesce a concentrarsi e non tollera di perdere al gioco. “Vuole essere sempre il primo”, dice, e su queste parole Felix sbatte la porta e se ne va. Sono inquieta per l’estrema sensibilità narcisistica di questo ragazzo che a momenti mi sembra potersi disorganizzare. Sento anche che queste sue reazioni così vive mi sollecitano e potrebbero spingermi ad agire, mettendo il mio pensiero in corto circuito.
I genitori mi dichiarano apertamente la loro inquietudine circa quella reazione di opposizione del figlio, ma si dicono anche sollevati di constatare che egli può mostrarsi così davanti a me, come se attraverso quell’atto (di sbattere la porta) egli potesse provarmi in modo più esplicito la sua sofferenza e confermare i timori espressi dai genitori. D’altra parte, mentre Felix è fuori dalla stanza, essi mi ripetono che non riescono più a parlargli e che Felix è estremamente sensibile alle loro osservazioni e a quelle dei fratelli maggiori.
Tra me e me penso che, anche se Felix vuole sempre vincere e primeggiare, come dice il padre, occupa tra i tre figli il posto dell’ultimo nato, del piccolo. Non esprime forse la sua rabbia di non essere il primo, il preferito, l’unico figlio dei genitori? Non è invaso da sentimenti di collera legati alla sua rivalità fraterna? Sento anche che l’entrata dei genitori nella mia stanza ha nuovamente infranto quel po’ di alleanza che si era potuta stabilire tra Felix e me. Ma come fare? A chi dare spazio?
Propongo a Felix di rientrare e combiniamo un altro incontro per continuare il discorso, tutti insieme.
Però torno a pensare al setting e mi chiedo se non dovrei differenziare gli spazi fin da ora: uno spazio per Felix e un altro in parallelo, ma con un altro collega, per i genitori. Presa in carico bifocale, secondo quanto trasmesso da Jeammet. Mi è difficile accettare i limiti ai quali mi costringe questo lavoro di consultazione.
Resto perplessa e ho l’impressione che per ora l’equilibrio è molto fragile e che separarsi sarà difficile sia per Felix che per i suoi genitori.

Che dire del funzionamento psichico di Felix in questo primo incontro?
Lo sento oscillare tra un movimento depressivo mal organizzato da una parte (venato di vissuti persecutori, proiezioni, dinieghi, posizioni megalomani, con un narcisismo molto compromesso, ridotto a zero) e, d’altra parte, una tendenza all’agire che mi preoccupa per la sua tinta sadomasochistica: scontrarsi con il padre, rischiare di prenderle, picchiare la madre per cadere poi in uno stato di colpa estrema. Anche i suoi comportamenti di autosabotaggio (vedi il rendimento scolastico) mi sembrano rientrare nella stessa dinamica. Mi chiedo se per Felix l’azione non sia un modo per mascherare un inizio di disorganizzazione. Temo che sotto questa depressione possa covare un processo più preoccupante di disgregazioni del pensiero, perché talvolta i suoi discorsi non sono chiari. Mi chiedo anche se a volte l’azione non sia provocata in lui da momenti di angoscia estrema.
Eppure, da un punto di vista più ottimistico potrei capire la sua tendenza all’agire, l’opposizione violenta ai genitori, i suoi insuccessi come l’unico modo che è riuscito a trovare per differenziarsi (pur danneggiandosi) rispetto alle immagini interne dei genitori.

Due mesi dopo ricevo i suoi genitori, Felix non è voluto venire con loro. Acconsento a vederli malgrado l’attacco al setting che avevamo convenuto, perché credo che senza la loro alleanza terapeutica non potrei mai dare aiuto a Felix. Del resto anche un lavoro “indiretto”, senza Felix, potrebbe avere un senso per dei genitori sopraffatti da sentimenti che non riescono a controllare.
La consultazione, abbastanza lunga, mi permetterà di ascoltare in prima persona (senza cartelle cliniche di mezzo) la storia della famiglia e il posto (particolare, come ho già sottolineato) che vi è stato dato a Felix.
Il padre racconta che Felix gli si oppone sempre con molta violenza e che si mette spesso in pericolo. Quando si fa male cerca attivamente suo padre, lui soltanto può curarlo e consolarlo. Mi dico che in quel modo Felix ritrova con suo padre una relazione fisica mediante il corpo, come un bambino piccolo, ma con un corpo offeso da un incidente. E’ l’unico caso in cui accetta l’aiuto del padre.
A partire da lì il padre comincia ad associare intorno alla propria infanzia e adolescenza. Resto assai colpita dall’autenticità del discorso di quest’uomo che racconta con molta fatica la sua storia infantile. E’ anch’egli un terzogenito, ma è stato sempre trascurato dai genitori, troppo occupati dalla loro attività di commercianti. S’è sentito spesso triste e solo, senza quell’aiuto psicologico che egli vorrebbe ora offrire a suo figlio. S’identifica a Felix per le difficoltà scolastiche che ha avute anche lui per parecchi anni. Sento in lui sentimenti di depressione e disillusione. Ho l’impressione che il racconto della sua storia e la sua relazione con il figlio siano molto cambiati rispetto a quanto avevo letto sulla cartella redatta nelle consultazioni precedenti. Ora mi appare come un padre provato, addirittura depresso, ma tuttavia presente e desideroso di coinvolgersi in prima persona nella sofferenza di suo figlio. Un padre non sembra più esimersi come era stato osservato in passato.

Poi prende la parola la madre di Felix. E’ una donna molto dolce ma triste, estremamente ansiosa circa il futuro scolastico di suo figlio. E’ insegnante elementare e capisco che per lei la riuscita scolastica ha la massima importanza. Si sente molto vicina a Felix ma, contrariamente al marito, non mi parlerà quasi per niente della propria infanzia. Si affretta invece a raccontarmi la storia di suo figlio a partire dal concepimento e il suo racconto mi aiuterà a collegare l’attuale inizio dell’adolescenza di Felix con la prima infanzia. Però sono impressionata dal peso che la ripetizione ha nel suo racconto. Credo che, così come per Felix, anche per lei il cambiamento di consulente non abbia avuto alcun effetto differenziante: io sono come gli altri.
Quindi nell’ascoltarla penso che per lei, dalla nascita di Felix in poi, il tempo non è passato e che lei non ha potuto elaborare i conflitti che sono emersi mano mano. Mi parlerà della dieta che faceva per avere una bambina, della delusione di suo marito alla nascita di Felix, della propria tristezza e solitudine davanti a questo figlio che non aveva posto in casa loro. Un racconto che riprende punto per punto tutto quello che già sapevo: le malattie infantili di Felix, gli incidenti a ripetizione, la sua agitazione, l’aggressività, i disturbi del sonno e le fobie. Poi le prime consultazioni al Centro, la psicoterapia e il suo progressivo disinvestimento da parte di Felix.
Infine la svolta fatidica dell’entrata in VI: un anno duro, perché Felix lavorava in modo compulsivo ma senza riuscire ad apprendere, o meglio a trattenere ciò che aveva appena appreso. Io mi chiedo se Felix abbia mai potuto crescere agli occhi di questa madre che sembra viverlo come una parte di sé, il proprio prolungamento narcisistico, il suo bambino idealizzato.
Perché questa necessità di bloccare il tempo, di restare appiccicata a questo ragazzo che per di più, nei suoi sogni, avrebbe dovuto essere una femmina? Non si tratta di una difesa contro la propria aggressività nei confronti di Felix?

Questa consultazione mi porta a riflettere su vari punti.
L’impatto del trauma alla nascita di Felix: è un bambino e non la femminuccia attesa. In che misura questo antico trauma ha potuto influire sulla costituzione del suo narcisismo primario, sullo sviluppo del suo Io e sulla sua identità sessuale? A questo proposito Winnicott scriveva che “il trauma è in rapporto con la dipendenza. Il trauma è quello che rompe l’idealizzazione di un oggetto per mezzo dell’odio di un individuo, come reazione al fatto che quell’oggetto non è riuscito a svolgere la sua funzione”.
E’ proprio a proposito della dipendenza di Felix da sua madre e viceversa, che io mi interrogo sul carattere delle sue relazioni precoci. Esse devono esser state particolarmente difficili, tanto più che il padre di Felix non sembra aver svolto un ruolo di terzo e di contenitore per la madre. Questa distorsione delle relazioni precoci mi sembra plausibile anche perché la madre riferisce di aver avuto una grave depressione post-partum. Come ha potuto investire il suo bambino? Intravvedo un lutto non elaborato del suo bambino ideale, la femminuccia che sognava. Mi sembra che il ruolo di schermo antistimolo della madre sia stato a lungo ostacolato: gli incidenti ripetuti di Felix, le numerose malattie, i disturbi del sonno di cui ho già parlato.
Si può parlare di una “madre morta” nel senso di Green?

Ma torniamo ai nostri incontri.
Non rivedrò più Felix, ma una volta i due genitori insieme e un’altra volta la sola madre. Evidentemente questi cambiamenti ripetitivi di setting non mi lasciano indifferente, ma io decido di ricevere chi viene e di dare un senso a questi agìti, che non sono soltanto agìti dell’adolescente ma anche dei suoi genitori. Con questi ultimi il lavoro è stato, in un primo tempo, un tentativo di capire il senso che ciascuno dei due poteva dare a quel bisogno imperioso d’avere una figlia. La madre di Felix mi confessa di sentirsi molto vicina alla propria madre e vive tuttora con lei una relazione molto fusionale. Ma allora il suo desiderio di avere una figlia non poteva essere legato alla sua difficoltà di separarsi dal personaggio materno?
Trovo invece difficile comprendere cosa potesse rappresentare per il padre di Felix la nascita di una bambina. Forse la speranza che il suo terzo figlio, non essendo un maschio, potesse soffrire meno di lui? Ma sono soltanto ipotesi É
Questo secondo incontro ha permesso ai genitori di realizzare quanto fosse forte il loro attaccamento al figlio e di poterne parlare. Essi hanno espresso il sentimento di estrema dipendenza che vivevano reciprocamente nei suoi riguardi e la necessità di poter accompagnare Felix lungo quel difficile periodo, pur cercando di riflettere insieme a me sulla necessità di lasciargli uno spazio di autonomia più ampio.
I genitori mi dicono anche che gli scambi famigliari sono migliorati, che le scene di violenza sono più rare e che Felix sembra andare meglio, investe più di prima il guppo dei coetanei ma le difficoltà scolastiche persistono.
All’ultimo incontro la madre viene sola. Un altro cambiamento di setting, ma io continuo a seguire il mio setting interno di cui ho già parlato. Ciò non toglie che io mi chieda perché stavolta il padre non c’è. Se l’è squagliata come in passato? Oppure ha lasciato il posto alla moglie che oggi sembra assumere una posizione più personale, parlandomi con più facilità dei suoi sentimenti di tristezza e del suo bisogno d’aiuto?
Apprendo che la scuola ha consigliato a Felix di ripetere la V. E’ stato un colpo, sia per lui che per sua madre. Ma è stato proprio a partire da questo fatto che egli è riuscito a chiedere aiuto ai genitori, che hanno fatto con lui una specie di contratto. Essi accetteranno di non farlo ripetere ma in cambio egli dovrà accettare di consultare un’analista per sé e l’aiuto di uno studente per i suoi compiti. La madre mi parla di sé in termini nuovi: ha voglia di uscire dal ruolo di maestra che ha sempre svolto per Felix e che è sempre stato causa di grandi conflitti. Si chiede se non dovrebbe cominciare una psicoterapia personale per sentirsi più appoggiata a vivere quei processi di separazione che la fanno ancora soffrire. Vorrebbe l’indirizzo di uno psicoteraputa, che io le darò alla fine dell’incontro.
Sembra soddisfatta di poter proporre a suo figlio un aiuto terzo e ora arriva a chiedere a suo marito di porre dei limiti più fermi quando il figlio li scavalca. Stando a lei, sembra che Felix accetti questo patto e che per ora la situazione sia più calma.

Ora s’impone un breve passo indietro. Come si collegano i precedenti due anni e mezzo di psicoterapia con la consultazione attuale e cosa è rimasto della passata esperienza?
La prima consultazione, a 7 anni e mezzo, era stata motivata all’agitazione costante di Felix, alla difficoltà di concentrazione in classe e alla sua aggressività, spesso rivolta contro se stesso. Il consulente che lo vide lo descrisse come “un bambino in lotta attiva contro la depressione mediante il ricorso a difese maniacali”. L’agire era in primo piano. Felix non piangeva mai, nemmeno quando stava molto male.
Quando i genitori parlarono al primo consulente della nascita di Felix, suo padre associò spontaneamente al fatto che avrebbe sempre voluto una femmina. Condivideva questa aspettativa con sua moglie, che a questo scopo aveva seguito una dieta molto rigorosa. Entrambi erano stati confortati da un’ecografia che mostrava un genitale femminile. Però alla nascita i genitori erano rimasti di stucco nel constatare che il bambino era un maschio. Quando il primo consulente vide Felix senza i genitori fu colpito dall’ansia, le molte paure e gli incubi del bambino. Felix parlava anche di angosce riferite al suo corpo: temeva di avere delle carie perché mangiava troppe caramelle e sopra tutto era preoccupato di un piccolo disturbo che cercava di nascondere con cura: usava poco la mano destra perché all’età di 18 mesi se l’era incastrata in una porta e ne aveva riportato dei postumi motori abbastanza seri.
Alla fine di quell’incontro il consulente gli aveva proposto un aiuto psicoterapeutico per acquietare le sue paure, ma Felix aveva rifiutato, dicendo che non aveva bisogno di niente e di nessuno. Sono i miei genitori che devono venire, non io. E’ lo stesso bisogno che Felix ha ripetuto da adolescente.
Nel suo referto il consulente parlò di “un funzionamento psichico tra nevrosi e psicosi” e si espresse in favore di un’indicazione di analisi, tenendo conto della cooperazione dei genitori. Nella seconda e ultima consultazione di quel periodo il collega notò che Felix aveva proiettato sul Centro un’immagine negativa e sottolineò che a scuola egli aveva invece investito molto positivamente una persona che gli forniva un aiuto psicopedagogico, cosa che andava incontro al suo bisogno di relazioni esclusive e di paura della rivalità.
La madre di Felix diceva “mio figlio corre appresso a un’immagine di sé che egli non può darci”. A conclusione di quest’ultimo incontro il consulente tornò a proporre una psicoterapia presso il Centro, pur esprimendo il timore che il passaggio dalla psicopedagogista alla psicoterapeuta si potesse rivelare lungo e difficile.
La questione dell’indicazione di questa psicoterapia in età di latenza mi sembra una delle più importanti di questo caso. Essa nasce evidentemente dalla posteriorità ed è quindi di ordine prevalentemente speculativo, tanto più che il consulente di Felix non ero io. Ma ci si può chiedere se a quel punto non sarebbe stato meglio attendere un consenso maggiore del bambino e sopra tutto di suo padre, prima d’iniziare un trattamento.
Quello che sappiamo è che il padre di Felix era restato piuttosto diffidente o meglio ambivalente rispetto a quella scelta e che sua madre era molto vicina a suo figlio e poco propensa a separarsene. Insomma l’ambivalenza dei genitori era assai chiara fin dall’inizio.
La psicoterapia si sarebbe svolta senza interruzioni per due anni e mezzo, fino alla fine della scuola elementare. Della psicoterapia so poco: Felix esprimeva spesso posizioni di rifiuto; voleva padroneggiare tutto, lasciando poco spazio agli interventi della terapeuta. Padroneggiamento, impossessamento, aggrappamento: Felix non disegnava, non giocava, era costantemente alla ricerca di un legame esclusivo e unico con la sua terapeuta.
L’interruzione della psicoterapia è avvenuta come per estinzione: Felix non aveva più voluto andarci. Ma non era stata possibile nessuna elaborazione. La sua psicoterapeuta annotava di non aver mai potuto incontrare il padre di Felix, ma che era pressata unicamente dalla madre, sempre ansiosa nei riguardi del figlio.
La collega ha sempre avuto l’impressione che Felix fosse alla ricerca del padre che, secondo lei, si defilava.
Paradossalmente qualche anno più tardi è stato il padre a poter riflettere con sua moglie sul proprio atteggiamento di fuga da Felix neonato e sul proprio desiderio di aiutare di più suo figlio ora che è adolescente.

Quando Felix ha 11 anni, dopo il suo passaggio alle medie, i genitori chiedono una nuova consultazione per il figlio che esprime forti sentimenti di svalutazione di sé, d’insuccesso e di tristezza. Il nuovo consulente che li riceve resta colpito dalla profonda ferita narcisistica del ragazzo e dal livello della sua angoscia. In quell’incontro Felix afferma di nuovo che non vuole essere aiutato, ma poi accetta d’incontrare la precedente terapeuta. Però dopo tre sedute interrompe di nuovo, dicendo che sono stati i genitori a fargliela ricominciare. Nove mesi più tardi farò la loro conoscenza.
Che dire della latenza di Felix e della sua difficile entrata nell’adolescenza?
Tendo a pensare che in lui questa fase “intermedia” non abbia potuto né costituirsi né elaborarsi. In effetti la sua eccitazione psichica, l’agitazione, le angosce di separazione, la tendenza all’automutilazione che Felix ha vissute nell’infanzia hanno reso impossibile il processo della latenza, nel quale le tensioni interne avrebbero dovuto acquietarsi. Si può immaginare che in questo ragazzo l’esperienza della secondarizzazione e il distanziamento degli oggetti genitoriali siano venuti a mancare.

Spero di aver svolto un ruolo di “para eccitazione” cioè di schermo antistimolo, per questo ragazzo e per i suoi genitori, una funzione “terza” che può averli aiutati a cominciare a vivere quel “tempo sospeso” che sta tra l’infanzia e l’adolescenza. Resto tuttavia persuasa che senza questo lavoro con i genitori Felix non potrà uscire dalla sua posizione di rifiuto, di paura della passività, e accettare il sostegno indispensabile ad affrontare la problematica della dipendenza, la cui elaborazione è necessaria per avviarsi verso una separazione-individuazione, cioè per abbordare il lavoro del lutto nei riguardi dei propri oggetti infantili idealizzati.
Concludo citando un passo in cui Green definisce quel periodo che precede l’adolescenza e che egli ha chiamato “seconda latenza”:
“La seconda latenza designa quel periodo di tempo che separa la pubertà dall’adolescenza. I processi pubertari avvengono nel corpo, ma è rilevante che la realtà non sia cambiata, se non in misura molto ridotta. La sessualizzazione generale avviene solo alla comparsa dell’adolescenza, perché per l’adolescente l’angoscia non è soltanto quella della trasformazione del suo corpo, ma anche quella della sua incapacità maturativa di amare, nel senso che ciò esige che si prendano in considerazione anche i problemi dell’altro. Questa capacità sessuale e amorosa rivendicata dall’adolescente va incontro ad una zona cieca: la ricostruzione e la rinascita del proprio narcisismo”.
Desideravo offrire alla vostra condivisione i miei interrogativi, i miei dubbi e i limiti del mio lavoro con questo primo-adolescente che ci rimanda peraltro ad altri casi tipici nei quali la nostra creatività di analisti è sollecitata, è ostacolata e siamo obbligati a procedere senza cadere come funamboli su una corda tesa.

Sabina Lambertucci Mann
E-mail: sabina.mann@free.fr
(Traduzione di Arnaldo Novelletto)

Note:
(1) Lavoro presentato alle Giornate del Centro A. Binet su “L’entrata nell’adolescenza”, 1-2 dicembre 2001.





PSYCHOMEDIA --> HOME PAGE
A e P --> HOME PAGE --> Anno II - N° 2 - Maggio 2002