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Anno II - N° 1 - Gennaio 2002


Lavori originali




La conclusione dell’analisi e della psicoterapia in adolescenza.

Arnaldo Novelletto



Nel suo libro “Adolescence et psychanalyse” (1998) François Ladame ricorda che bisognò arrivare al 1960 prima che Jeanne Lampl de Groot togliesse l’adolescenza dal non cale in cui l’aveva gettata l’interesse per l’infanzia, esasperato dalla polemica tra Anna Freud e la Klein. Finalmente gli psicoanalisti si decisero ad analizzare adolescenti sul divano.
E’ da lì che comincia la nostra storia, che di conseguenza ha appena trentanove anni.
Che scendono a ventitré se consideriamo che il primo lavoro che si occupa della conclusione dell’analisi dell'adolescente è quello di Jack Novick (1976). Fino ad allora si era detto solo che gli adolescenti, invece di terminare il trattamento, di solito lo interrompono. Novick scodella una serie di concetti che sono destinati a diventare premesse importanti per ogni terapeuta di adolescenti. Non si può parlare di conclusione se non si considera l’inizio del trattamento. Parlare di conclusione significa parlare della chiusura del processo analitico. Perciò per parlare di una fase conclusiva ci vuole l’esistenza di un processo analitico e in particolare l’esistenza di un transfert. Fondamentale è la capacità dell’adolescente di sperimentare e osservare il transfert, piuttosto che viverlo fuori, come realtà corrente. Il problema - fa notare Novick - è che l’adolescente, in luogo di riconoscere, di comune accordo con l’analista, che la cura deve giungere a una precisa conclusione, cova segretamente, talvolta fin dall’inizio, un suo “progetto di conclusione unilaterale”. Novick conclude affermando che le caratteristiche della fase conclusiva sono indipendenti dall’età dell’adolescente. Esse dipendono piuttosto dall’interazione fra la nevrosi di transfert e la realtà della conclusione.
Come si vede, il lavoro di Novick è un lavoro classico dal punto di vista delle indicazioni della cura psicoanalitica: basta notare la naturalezza con cui parla di nevrosi di transfert in adolescenza e della capacità dell’adolescente di sperimentare e mantenere nel transfert un livello edipico di organizzazione psichica. Insomma secondo lui la cura psicoanalitica va riservata ad adolescenti con una struttura psichica sufficientemente nevrotica.
La seconda tappa nella storia di questo argomento è, secondo me, il lavoro di Marion Burgner (1988). Alle due possibilità già note (conclusione concordata e conclusione unilaterale prematura) la Burgner ne aggiunge una terza, l’analisi unilateralmente interminabile. Quest’ultima è propria di quegli adolescenti che si aggrappano all’analista in modo da scongiurare che la separatezza possa verificarsi. Il caso da lei descritto ne esemplifica una variante, caratterizzata da una relazione di transfert notevolmente perversa (attaccare l’analista fino a distruggerlo, per poi rianimarlo e indurlo a sperare, in una eterna altalena). Lo spirito con cui la Burgner si decise a proporre al paziente in questione una data di chiusura andava, per sua stessa ammissione, “in senso inverso rispetto alle aspettative analitiche”.
La Burgner conclude: “Gli adolescenti che non hanno raggiunto un certo grado di separatezza psichica dai loro oggetti primari interni e che non sono in grado di farlo nemmeno nella loro analisi, avranno difficoltà in sede di conclusione del trattamento”. Suona come una conclusione lapalissiana, che però ha il merito di riconoscere quanto la clientela psicoanalitica fosse nel frattempo cambiata. Non dimentichiamoci che la questione era stata posta all’attenzione del mondo analitico fin dal 1984, quando fu discussa da Gaddini in un simposio IPA, peraltro riservato agli analisti di training. Ci potremmo chiedere se la difficoltà legata a quella che Freud (1937) chiamava “alterazione dell’Io” non si sia ulteriormente ingigantita e diffusa e che possa oggi coinvolgere gli adolescenti più rapidamente e diffusamente che altre fasce d’età.
Una breve vignetta clinica per illustrare una evenienza possibile nella nostra realtà odierna.
Qualche mese fa un uomo di mezza età mi chiese un appuntamento.
Sebbene il cognome mi dicesse vagamente qualcosa, quando si presentò di persona mi resi conto di non averlo mai visto prima. Mi disse che il motivo della consultazione riguardava suo figlio, per il quale io avevo consigliato una psicoterapia psicoanalitica nel 1980, quando aveva 13 anni. Ora ne aveva 31 ed era ancora in terapia.
Allora, con l’aiuto dei miei vecchi appunti cominciai a ricordare. Innanzi tutto la moglie del signore che avevo davanti, poiché era stata lei a rivolgersi a me all’inizio. Mi aveva colpito l’aria accorata di una donna sulla quarantina che sapeva di dover diventare cieca perché già affetta da una malattia ereditaria. Il quadro che mi fece del ragazzo era piuttosto preoccupante. Stava frequentando la III media, con difficoltà di rendimento malgrado l’intelligenza. Aveva grossi problemi di rapporto con i coetanei ma sopra tutto paure immotivate, come quella dei terroristi, per la quale era molto riluttante ad uscire di casa da solo. Si era ricavato un proprio spazio nella soffitta, dove si dedicava alle sue letture preferite: astronomia, spionaggio, intrighi internazionali, colpi di stato. Dopo qualche colloquio con il ragazzo fu evidente che il paziente aveva angosce persecutorie e idee di riferimento che a malapena riusciva a negare, scindere e razionalizzare attraverso gli interessi culturali di cui sopra. La diagnosi di stato borderline s’imponeva, così come l’indicazione di una psicoterapia psicoanalitica, che il paziente iniziò con un collega. Per un anno ebbi notizie del ragazzo, poi più nulla. Ora il padre mi stava aggiornando. Grazie all’aiuto psicoterapeutico ma anche agli appoggi di cui la famiglia poteva disporre, suo figlio aveva potuto prendere la maturità scientifica, laurearsi in scienze politiche e ottenere una borsa di studio in un istituto di ricerche politico-sociali, ma le problematiche di rapporto interpersonale con gli adulti e il conseguente isolamento si erano riaffacciate in modo preoccupante. Il paziente non aveva mai lasciato la famiglia, né stabilito legami sentimentali. Da qualche tempo, in rapporto con difficoltà insorte nel lavoro d’ufficio, erano comparsi spunti deliranti che preoccupavano molto i genitori, anche se il figlio sembrava in grado di non oltrepassare la soglia del passaggio all’atto. Egli non aveva mai voluto interrompere il trattamento. Ad un certo punto c’era stata una riduzione della frequenza (forse in vista di una conclusione?) ma poi il paziente aveva chiesto e ottenuto di tornare alla frequenza precedente. Ora i genitori si sentivano impreparati al ruolo che poteva incombere su di loro qualora l’equilibrio psichico del figlio si fosse ulteriormente scompensato. Consigliai loro un appoggio psicoterapeutico di coppia a frequenza regolare e a quanto ne so la situazione continua ad andare avanti senza rotture.
Questo caso dimostra chiaramente che in certi pazienti non si può nemmeno parlare di trattamento interminabile, dal momento che non vi sono nel paziente (ed eventualmente anche nei suoi genitori) i presupposti psichici strutturali per poter avviare il trattamento verso una conclusione.

Malgrado questi interrogativi tuttora aperti, negli Stati Uniti si è presa l’iniziativa di affrontare in modo programmatico il problema della conclusione dell’analisi e della psicoterapia del bambino e dell’adolescente. Ne è venuto fuori, a cura di A. G. Schmuckler (1991) un volume intitolato Saying Goodbye (Dirsi addio) che contiene molti casi clinici con particolare riguardo alla conclusione dell’analisi, rispettivamente, in prima, media e tarda latenza e prima, media e tarda adolescenza.
Con riferimento ai casi, molto ben dettagliati, di una decina di adolescenti trattati con l’analisi, il libro suscita alcune considerazioni interessanti, che non sono soltanto teoriche, come vedremo meglio più avanti.
La diagnosi e le motivazioni del tipo di terapia confermano che l’indicazione della psicoanalisi da parte dei colleghi americani segue tuttora criteri più restrittivi dei nostri. La maggior parte degli adolescenti trattati rientrano in una struttura di personalità fondamentalmente nevrotica. Sul piano tecnico, di conseguenza, psicoanalisi e psicoterapia vengono tenute chiaramente distinte, senza tuttavia che ciò finisca per relegare la psicoterapia in un livello inferiore. Non stupisce, quindi, che l’ultimo lavoro incluso nel volume riguardi la conclusione, oltre che dell’analisi, anche della psicoterapia con bambini e adolescenti. Il suo autore, R. D. Gillman esordisce affermando che “La conclusione in psicoterapia segue gli stessi principi generali che regolano la conclusione in psicoanalisi”. Bisogna però tenere presenti -continua Gillman - anche le differenze tra i due processi, che a loro volta rimandano a differenze tra i pazienti stessi. I pazienti che si trovano in analisi come risultato di un’indicazione terapeutica corretta e condivisa dalla coppia al lavoro, formano un insieme relativamente omogeneo dal punto di vista della capacità di negoziare, sperimentare e portare a termine una conclusione formalmente valida. I pazienti in psicoterapia variano molto di più dal punto di vista della diagnosi e della gravità. Indipendentemente dalla capacità del terapeuta di mantenere un setting rigoroso, le psicoterapie sono spesso intermittenti e “comportano separazioni limitate, nella consapevolezza che il rapporto con il terapeuta o il trattamento può essere ripreso quando la situazione lo richiede” (Cooper, 1989). Resta dunque inteso che psicoanalisi e psicoterapia, pur nella loro diversità tecnica, possono essere applicate e valutate con un identico approccio metapsicologico.
Risulta altrettanto chiaro che l’impostazione programmatica che sembrava considerare ciascuno dei casi descritti nel libro come emblematico di una corrispondente sottofase adolescenziale (prima, media e tarda) è restata solo un’etichetta. Nessuno dei rispettivi analisti, nella discussione del proprio caso, ha ripreso l’ipotesi di una differenziazione stadiale della conclusione del trattamento. La suddivisione in sottofasi è insomma soltanto uno schema che non ha pretese operative, non suggerisce nessuna strategia. Però esso ha comunque uno scopo importante: serve a ricordare ad ogni terapeuta il parametro rappresentato dalla peculiarità di ciascuna sottofase dello sviluppo psichico adolescenziale. Dalla conoscenza bene interiorizzata di queste fasi (e delle loro corrispondenti risonanze controtransferali) dipende la specificità del lavoro terapeutico con l’adolescente e la differenza rispetto all’analisi del fanciullo.
E veniamo all’ultima tappa.
In Europa nel corso degli anni ’90 si è verificata una progressiva autonomizzazione della psicoanalisi dell’adolescente da quella del bambino. In questa stessa aula si svolse due anni fa una tavola rotonda in cui R. Cahn e il sottoscritto portarono argomenti alla specificità della psicoanalisi dell’adolescente. Solo da poco tempo la FEP ha deciso di riservare un colloquio annuale sul training alla sola adolescenza. Le forme d’intervento psicoanalitico in adolescenza si sono venute differenziando: oltre alla psicoanalisi individuale si prende in considerazione la psicoterapia psicoanalitica, la terapia analitica di gruppo e lo psicodramma. Il dibattito tra Cahn e Ladame (1992) sul rapporto tra psicoterapia e psicoanalisi dimostra che la differenza tra struttura nevrotica e narcisistica ha cambiato nome: si parla di preconscio funzionante da un lato e di scissione dell’Io dall’altra, con tutte le difficoltà di valutazione che una distinzione così generica ovviamente comporta. Cahn vede nel primo caso l’indicazione della cura psicoanalitica e nel secondo quella di una psicoterapia a setting e tecnica adattabile. Ladame sottolinea però che il contratto psicoterapeutico non va preso alla leggera né unilateralmente. Il consenso del paziente è legato al riconoscimento da parte sua dell’esistenza di un disturbo. Se questo manca, è più prudente mantenere un regime di consultazioni.
A questa prima suddivisione subentrano però distinzioni più fini e complesse man mano che la disamina metapsicologica si sviluppa. Per esempio setting e ascolto analitico sono due componenti della cura psicoanalitica propriamente detta che a loro volta possono essere presi in considerazione separatamente. Il primo assicura il contenimento narcisistico proprio della cura, il secondo assicura la funzione psicoterapeutica. Procedendo di questo passo, i due autori convergono sull’opportunità di un approccio terapeutico molto duttile, sotto forma di consultazioni terapeutiche preparatorie a una psicoterapia intensiva o cura classica. In generale, dunque, prevale il concetto che la comprensione delle componenti fondamentali della situazione tra analista e adolescente, momento per momento, debba prevalere rispetto alla scelta di strategie tecniche prestabilite.
Le riflessioni di tutti coloro che si sono formati e che lavorano da tempo in questo contesto non possono allora essere limitate alla psicoanalisi individuale propriamente detta. Come Brenner diceva fin dal 1985, “se la pietra di paragone della fine analisi dovesse differenziare la psicoterapia dalla psicoanalisi, resteremmo senza possibilità di replicare a quegli analisti che considerano l’analisi infantile come una forma di semplice psicoterapia psicoanalitica”.
Naturalmente questo richiede una grande presa di responsabilità da noi analisti. Accostare psicoanalisi e psicoterapia sul piano della conclusione del trattamento richiede che il livello psicoterapeutico non sia inteso come ripiego destinato solo al superamento di momenti critici ma passeggeri, oppure solo a situazioni cliniche non gravi. Questa è una sfida che dobbiamo assolutamente raccogliere.
Credo che proprio questo possa essere il discorso di apertura da affiancare al testamento freudiano. Non c’è dubbio che la cura psicoanalitica debba continuare a fungere da modello di riferimento del processo analitico. Lo giustifica una serie di ragioni che non starò a ripetere (il livello di maggiore profondità e continuità nel quale si può collocare la coppia analitica al lavoro, la maggiore ricchezza del materiale e dei conseguenti scambi interpretativi che la coppia analitica può trarre dalla dinamica di transfert e controtransfert che ne risulta ecc.). Questo però non equivale a pensare che la cura psicoanalitica debba valere anche come modello esclusivo dell’unica indicazione terapeutica possibile.
Lo spazio potenzialmente creativo non va quindi cercato sui libri o nei convegni scientifici, ma nella capacità interiore del terapeuta di concludere nel miglior modo possibile il singolo trattamento, e non come fonte d’indicazioni pratiche, tanto meno se condensate in un presunto schema tecnico da applicare in ciascuna sottofase dell’adolescenza.
Perciò ritengo che non ci si debba aspettare nulla da una discussione che parta dalle presunte differenze della conclusione dell’analisi a seconda che essa avvenga nella prima, media o tarda adolescenza. Una risposta in termini esclusivamente negativi non può però essere esaustiva. E’ necessario che si indichi un indirizzo alternativo.
Io questo indirizzo ritengo di vederlo in ciò che le varie forme di approccio terapeutico all’adolescente disturbato hanno in comune. Riconoscere una pari dignità metodologica di diversi tipi d’intervento psicoanalitico, indipendentemente dalla gravità del paziente significa applicare lo stesso bagaglio formativo, cognitivo e controtransferale alla conclusione della psicoanalisi, a quella della psicoterapia, al rischio di interruzione unilaterale e anche ad altri fenomeni affini. Penso ad esempio all’intervallo (intermission) (Ekstein, 1983), o alla conclusione ripetuta (vedi il caso Stanley di P. Kay, 1991). Penso anche al caso, ben più comune, di tutti quei tardo-adolescenti o giovani adulti che contraffanno la separazione (quella dall’analista tra le altre) con l’enfatizzare l’allontanamento fisico per nascondere la persistenza immodificata del legame profondo con gli oggetti originari, ecc.ecc.
Non è dalla diversità fenomenologica di queste strategie difensive dell’adolescente che dipende il livello di trattabilità, ma da una valutazione più precisa, sopra tutto dal punto di vista economico, delle resistenze sottostanti. Il dottrinale sulla tecnica corretta della conclusione d’analisi è ormai molto ricco, e può essere certo meglio insegnato, sia in campo psicoanalitico che in campo psicoterapeutico. Il problema è piuttosto quello della sua applicabilità, cioè della scelta del momento più opportuno per introdurlo; della evidenziazione precoce delle fantasie d’interruzione prematura e della loro interpretazione nel transfert; dell’analisi di quegli atteggiamenti di controtransfert che possono colludere con la chiusura prematura. I traguardi ideali rispetto ai quali valutare la terminabilità dell’analisi, non solo in termini sintomatici ma anche in termini relazionali e in termini trasformativi, sono troppo noti per doverli ripetere qui.
Prima di concludere vorrei soffermarmi brevemente soltanto su una di queste mete. Essa è stata definita da Anna Freud (1945, 1970) e dagli autori che nella sua scia privilegiano la continuità dello sviluppo psichico (Blos 1983, Laufer e Laufer 1984, Burgner 1988, 1991) il “ritorno alla linea di uno sviluppo progressivo”.
Non c’è dubbio che A. Freud abbia fatto un passo decisivo nell’ “ampliare la sua visione della psicoanalisi da una teoria psicopatologica ad una teoria dello sviluppo” (Novick, 1990). Restringendo l’attenzione alla ricerca psicoanalitica sull’adolescenza, a me sembra che da allora sia stato fatto un ulteriore passo avanti: quello di andare oltre una concezione dello sviluppo psichico basata su una valutazione protocollare del funzionamento mentale, termini che potremmo definire psicoanalitico-cognitivi (sviluppo dell’Io e del Super-Io, dinamica intra ed intersistemica, evoluzione del pensiero e simbolismo, evoluzione della relazione con l’oggetto ecc.). Sono tutti criteri irrinunciabili, naturalmente, che però non garantiscono un’attenzione adeguata al livello di coesione e alle possibilità di evoluzione del Sé del paziente. A mio parere negli ultimi 30 anni la ricerca psicoanalitica sulla patologia narcisistica, cogliendo tutte le affinità che lo sviluppo della mente adolescente presenta con queste condizioni patologiche, ci ha permesso di capire un fatto fondamentale: la vera natura del limite superiore dell’adolescenza. Mi è sempre sembrato che la richiesta di precisare questo limite, sia in termini cronologici che in termini psicoanalitici, costringesse gli addetti ai lavori a risposte poco convincenti. Il frequente ricorso a criteri di ordine sociologico o culturale mi sembrava un motivo in più per trovarle tali.
Lo spostamento d’accento dalla psicologia psicoanalitica dell’Io allo sviluppo del Sé mi sembra aver offerto un’uscita provvidenziale da quella angustia concettuale. Negli ultimi 20 anni abbiamo assistito agli sforzi che questa esigenza profonda faceva per trovare una sua nuova direzione. Winnicott, Kohut, Gaddini, i cultori dell’intersoggettività e altri ancora hanno cercato nuovi confini al concetto di Sé, del suo sviluppo, della sua patologia. R. Cahn (1998), non a caso uno psicoanalista di adolescenti, ha individuato pazientemente quel filo conduttore, da lui felicemente definito “soggettivazione”, capace di mantenere il discorso in un ambito rigorosamente psicoanalitico, senza bisogno di riforme, scissioni o abiure. Questo indirizzo consente di cogliere quanto l’adolescenza dell’individuo può persistere nel Sé adulto, e quanto, di conseguenza, la psicoanalisi dell’adulto può attingere vantaggiosamente a quella dell’adolescenza. Il filo conduttore della soggettivazione è quello dell’interminabilità dello sviluppo del Sé. Quando questo filo si dipana in analisi, fino a un certo punto è rivestito dalla tecnica, ma dove la tecnica finisce esso si prolunga come filo nudo, all’eterna ricerca del proprio Sé, nel paziente come nell’analista. Quindi attenti ai rischi della terminabilità, più che a quelli dell’interminabilità.

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