PSYCHOMEDIA --> HOME PAGE
A e P --> HOME PAGE --> N° 2 - Gennaio 2001




Anno I - N° 2 - Maggio 2001

Figure della violenza in adolescenza
Comunicazioni




Note sulla violenza in adolescenza:
Riflessioni in margine ad un Convegno

Eleda Spano *



Elio, 15 anni, adottato a 2 anni, da bambino si strappava compulsivamente i capelli fino ad avere metà della testa completamente nuda. Adesso scappa di casa, picchia i compagni per futili motivi, minaccia i genitori, ruba soldi in casa, si aggrega ad un gruppo di ragazzi più grandi che fanno uso e spacciano sostanze. In Ospedale Diurno insulta e provoca tutti gli operatori, butta oggetti dalla finestra, scappa ripetutamente. I genitori adottivi, esasperati, progettano di collocarlo in una casa famiglia.
Rosa, 16 anni, dà fondo ai liquori di casa fino a stordirsi, mangia smodatamente per poi sottoporsi a giorni di digiuno, tenta più volte il suicidio.
Marcello, 17 anni, ha una condanna per aver partecipato ad un’aggressione di gruppo ai danni di un coetaneo, procurandogli lesioni gravissime.
Francesca, 14 anni, da un anno non va più a scuola. Non sa perché, ma spesso “fa la matta”. Insulta la madre, sputa, le lancia addosso forbici e coltelli, minaccia di suicidarsi.
Ennio, Giovanni e Mirko si coalizzano per paralizzare l’Ospedale Diurno. Abbigliati da naziskin, compiono incursioni nelle stanze di terapia, esibiscono catene e coltelli, sfidano ogni regola o limite.
Violenza rumorosa, eclatante, violenza silente, passiva, autodiretta, agita o solo mimata. Solo alcune tra le diverse “figure” della violenza in adolescenza su cui ho avuto occasione di riflettere da un punto di osservazione privilegiato quale l’Ospedale Diurno per Adolescenti della II Divisione di Neuropsichiatria Infantile dell’Università di Roma “La Sapienza”.
Riflettere, quando è in gioco la violenza, è allo stesso tempo un lusso e una assoluta necessità, presi come si è dall’urgenza di non essere sopraffatti e resi inutili, o dalla tentazione di controatteggiamenti superegoici, quando non francamente punitivi, quasi sempre destinati a fallire e ad incrementare nuova violenza. Spunti di riflessione e di confronto, scambi di esperienze dense di risonanze emotive, sono circolati in gran copia nel corso del IV Convegno Nazionale di Psicoterapia dell’Adolescenza che si è recentemente tenuto ad Alghero (6-7 ottobre 2000), con la partecipazione della maggior parte dei gruppi che in Italia si occupano di adolescenti e con l’autorevole presenza straniera del Presidente dell’ISAP, A. Braconnier.
La locandina del Convegno raffigurava la Testa di Medusa del Caravaggio, e ne metteva in evidenza dettagli separati: la bocca spalancata in un grido, gli occhi sbarrati, terrificati e terrificanti. Una scelta grafica forte, dalle molteplici valenze simboliche. Prima fra tutte, evocata dal mito, la pietrificazione della capacità di pensare che la violenza genera in chi si trova a subirla, ma anche in chi la compie, spesso come unica risorsa contro una minaccia di annientamento che la mente non riesce neanche a rappresentarsi. I serpenti che guizzano sulla testa di Medusa evocano la reazione caratteristica di ognuno, umano o animale che sia, di fronte al serpente, cioé appunto l’arresto, l’immobilità. E’ noto l’effetto ipnotico esercitato dal serpente sulla sua preda. “La violenza -scrive Jeammet (1992)- agisce al livello della capacità di pensare dell’individuo... Egli perde le sue possibilità di critica, di fiducia in sé stesso, e si ritrova sempre più dipendente. Non ha altra scelta che sottomettersi oppure diventare violento.”
Il lavoro di Pasche (1971), “Lo scudo di Perseo”, aveva già utilizzato questa metafora per evidenziare come Perseo arrivi a trionfare sulla Medusa solo grazie allo scudo donato da Atena, che nella mitologia è simbolo della mente, del pensiero. Una riedizione, insomma, di quello schermo protettivo che salvaguarda l’investimento del mondo esterno ed il costituirsi di uno spazio intermedio di illusione, protetto sia dalle conseguenze traumatiche della separazione che dalla fascinazione dell’ inglobamento, permettendo al bambino di “suddividere i suoi investimenti in modo da non mettere in pericolo la propria conservazione, la propria identità.” Sarebbe dunque la carenza dell’oggetto ad imprigionare Medusa e la sua vittima in un unico sistema inglobante/inglobato.
Come Novelletto (2000) ha sottolineato nella sua ampia e complessa introduzione sui fondamenti teorici e lo stato dell’arte, il titolo scelto per il Convegno (“Figure della violenza in adolescenza”) sta ad indicare le funzioni fantasmatiche, rappresentazionali ed elaborative dell’adolescente violento, piuttosto che la sua sintomatologia comportamentale. Senza avere la pretesa di riassumere qui la sua relazione, mi limiterò a ricordare che essa ha ripercorso l’evoluzione storica del concetto di violenza, a partire dalla contrapposizione dei modelli pulsionale e relazionale e del diverso ruolo attribuito all’oggetto esterno. “Il modello pulsionale -dice Novelletto- prima ancora che al bisogno di scaricare gli istinti e alla ricerca del piacere, resta legato al carattere innato della pulsione distruttiva e alla primarietà dell’attività fantasmatica del soggetto [...]. Il modello relazionale invece privilegia il ruolo dell’oggetto reale, e considera l’aggressività come corollario di relazioni insoddisfacenti [...]”. Ciò pone una prima e necessaria distinzione tra la distruttività legata alla pulsione di morte e l’aggressività che contribuisce alla creazione di legami. Da cui deriva una seconda distinzione tra aggressività costruttiva, “object seeking”, e aggressività trasformata o maligna.
Il richiamo a Winnicott (1969) e al suo fondamentale lavoro sull’uso dell’oggetto, che deve poter essere distrutto in fantasia prima di essere riconosciuto e usato come oggetto esterno reale (con tutte le implicazioni relative all’acquisizione dell’esame di realtà, così cruciale nella sua radicale rimessa in discussione dell’adolescenza), apre un altro fronte di discussione tra chi vede nella violenza adolescente una continuità lineare con i suoi prodromi nell’infanzia, da ricercare nei fallimenti precoci e nei traumi delle primissime relazioni, e chi rivendica una specificità legata alla maturità sessuale e agli oggetti attuali dell’adolescente. Il concetto di “soggettivazione” (Cahn, 2000), inteso come processo che dura tutta la vita e che fa sì che un individuo possa (o meno) diventare soggetto per se stesso, mi sembra conciliare questi diversi punti di vista. Tale processo trova nell’adolescenza uno dei suoi punti cerniera tra infanzia ed età adulta, con tutti i rischi ma anche con tutte le potenzialità trasformative di una nuova opportunità. Seconda individuazione, certo, come per Blos (1962), ma con qualcosa in più che è l’accento sulle fantasie connesse al corpo sessuato, all’impatto più o meno violento della pubertà sull’apparato mentale e sull’immagine del Sé. Il peso della risposta dell’oggetto esterno, reale, si intreccia dialetticamente con il peso della pulsione e dell’assetto narcisistico nel lavoro complesso che accompagna la nascita del soggetto.
Quando si tratta di violenza, è determinante proprio il vissuto del soggetto, che si tratti di chi tale violenza la agisce, di chi la subisce, o di chi si identifica alla vittima o all’aggressore.
Per tornare alla Medusa, la bocca atteggiata nel grido si rifà ad alcune rappresentazioni di Michelangelo, che per esse si era esplicitamente ispirato al “Fanciullo morso da un gambero” di Sofonisba Anguissola, alla quale aveva anzi commissionato un bozzetto di “putto piangente”, per servirsene come di modello. Quel grido di bambino è diventato un prototipo ripreso nei secoli, fino a “L’urlo” di Munch. Bambino, ragazzo, adulto, nonché maschile e femminile, sfumano e si sovrappongono, sovrastati dall’emozione che la rappresentazione evoca, richiamo a quella minaccia per l’identità che è alla radice di molti atti di violenza.
Il volto della Medusa caravaggesca non è dunque un volto femminile. Il Longhi (1952) ritiene che si tratti del medesimo modello ritratto nel “Fanciullo morso da un ramarro”. Personalmente, mi è parso di trovare una qualche somiglianza anche con il “Bacchino malato”, considerato un autoritratto giovanile dello stesso Caravaggio. Del resto, è noto che egli ebbe una vita molto avventurosa e violenta. Precocemente orfano di padre, già a 11 anni era apprendista a Milano, per poi trasferirsi a Roma appena adolescente. Conobbe miseria e malattia e fu ben presto coinvolto in risse, uccisioni e processi, transfuga di città in città fino alla morte, a soli 37 anni.
Il tema dell’autoritratto si lega all’uso dello specchio, oggetto di sperimentazione da parte del Caravaggio, non ignoto alla pittura del Ô500, ma da lui trattato con finalità completamente diverse. Scrive il Longhi: “[...] come se, per lui naturalista, il nuovo metodo fosse pegno di certezza più intensa.” E ancora: “[...]ciò che più lo sorprese fu di accorgersi che allo specchio non è punto indispensabile la figura umana; se, uscita questa dal campo, esso seguita a rispecchiare il pavimento inclinato, l’ombra sul muro, il nastro lasciato a terra.” Frasi che, a noi che lavoriamo con gli adolescenti, rievocano quella drammatica rimessa in discussione delle certezze dell’infanzia circa la realtà, così legata alle vicende delle relazioni oggettuali.
Asse narcisistico ed asse oggettuale, dunque, dove l’aggressività è ancora ricerca di contatto, sia pure violento, appello all’oggetto; mentre la distruttività, come scrive Sassanelli (1997), “si colloca viceversa nell’area fenomenologica della rabbia e della collera e insorge quale risultato di un grave fallimento dell’ambiente a corrispondere ai bisogni d’oggetto-Sé del bambino. [...]La rabbia distruttiva è dunque sempre motivata da una ferita al Sé; essa è pertanto di natura narcisistica e coinvolge in prevalenza persone narcisisticamente vulnerabili.” Anche Jeammet (1997) sottolinea che l’aggressività testimonia di un legame ed in gran misura lo preserva, mentre la violenza “tende alla distruzione del legame con l’oggetto e alla negazione della dimensione soggettiva dell’altro.”
Carau (2000), nella sua relazione su “Il trattamento della violenza”, ha descritto con vivezza l’articolarsi della violenza nella relazione terapeutica, “esposta alla fluttuazione adolescenziale tra movimenti attuali e irruzioni primarie, bisogni narcisistici e spinte oggettuali”. Sulla base di un ampio materiale clinico, ha evidenziato la difficoltà di cogliere la sottile linea di confine tra un transfert che garantisca una protezione narcisistica all’adolescente e un transfert narcisistico paralizzante. “L’attacco non è al pensiero,- egli dice-, ma all’assetto emotivo del terapeuta. [...] Coinvolgersi e distanziarsi è il paradosso controtransferale.” L’osservazione che in questi pazienti lo spazio intermedio (indispensabile perché sia possibile un trattamento individuale) è inesistente o gravemente distorto, spesso saturato proprio dalla violenza, ha portato l’attenzione sulla ricerca di ambiti terapeutici allargati, come “spazio terzo” con funzione di mediatore.
Nella discussione che è seguita alla relazione, Carau ha anche sostenuto l’importanza, nel trattamento di questi casi, di una esperienza come terapeuti di bambini. La sua osservazione mi ha richiamato alla memoria una delle mie prime psicoterapie con un piccolo paziente, iniziata a 4 anni e conclusa a 10. Da quella esperienza scaturì un lavoro, scritto con Adriano Giannotti (1988) e presentato nell’ambito di un seminario di C. Bollas sul tema dell’uso dell’oggetto. Si trattava di un bambino straordinariamente e spietatamente violento, invischiato in una relazione simbiotica psicotizzante con la madre, che gli impediva qualsiasi individuazione. Egli pretendeva di essere una femmina, ignorava totalmente il padre, imitava la madre in tutto, ma con una tonalità macchiettistica che la offendeva. Io ero per lui un oggetto inanimato, da maltrattare, aggredire e schiacciare come i giochi che gli avevo messo a disposizione per la terapia. In capo a qualche mese la sua valigetta era un insieme di detriti, che ben rispecchiava il mio personale stato d’animo. Certo, per quanto violento, un bambino è più agevolmente contenibile, sul piano puro e semplice della forza fisica. Tuttavia quella lontana esperienza mi ha insegnato che non è sul quel piano che si giocano le cose, ma piuttosto su quello del controtransfert. Può essere estremamente difficile, anche con un bambino così piccolo, tollerare l’uso spietato, di stampo perverso, che il paziente fa di noi. Sopravvivere alla distruzione per essere finalmente riconosciuti come oggetti reali richiede uno sforzo di attenzione e di empatia molto elevato, e costringe a barcamenarsi a volte avventurosamente tra la necessità di porre un limite (che sia garanzia di qualche differenziazione) e quella di fornire allo stesso tempo una protezione narcisistica senza la quale la minaccia di annientamento o di impossessamento che l’oggetto rappresenta rilancerà sempre più in alto l’onnipotenza, o sfocerà in una resa incondizionata da parte del soggetto.
Di maschile e femminile si è molto dibattuto durante il Convegno, a partire dall’osservazione che tutti i casi clinici presentati si riferivano a pazienti maschi, fino ad interrogarsi sul sesso del terapeuta. Annosa questione, in adolescenza, e mai risolta. E’ meglio che il terapeuta sia dello stesso sesso per favorire i processi di identificazione e limitare un eccesso di eccitazione nella relazione, oppure che sia del sesso opposto per facilitare l’elaborazione dei conflitti edipici? La risposta non può essere univoca, mi pare, e dipende dalla valutazione dei singoli casi.
Quanto all’idea che la violenza possa essere più appannaggio maschile che femminile, per restare nel campo della pittura, come non pensare all’opera di Artemisia Gentileschi? Se mettiamo a confronto la “Giuditta che uccide Oloferne” della Gentileschi con la stessa opera dipinta dal Caravaggio, non possiamo non concordare con quanto scrive G.Greer (1979): “L’autrice rinuncia alla tensione che percorre il quadro del Caravaggio, al di fuori del gesto omicida, e l’interesse si accentra tutto sulla feroce energia e concentrazione di una Giuditta scura e furiosa, che maneggia la spada come una contadina che uccida un vitello, in un ovale di luce claustrofobico[...]. Davanti a quest’immagine di violenza e di odio l’osservatore s’incanta per la maestria e si ritrova incapace di pietà o risentimento.” E’ il caso di ricordare che Artemisia Gentileschi fu violentata a 15 anni da Agostino Tassi, amico e collaboratore del padre, e poi dal padre trascinata in tribunale nel processo intentato contro il Tassi, esponendola alla tortura di un degradante interrogatorio. Il processo finì praticamente nel nulla, ma la sua vita ne fu radicalmente cambiata. “Non sapremo mai -scrive la Greer- quanta della sua forza potenziale si disperse in vani attriti, nel difendere con truculenza la propria libertà individuale ed esigere rispetto dai clienti [...]”. Vale a dire, come scrive Jeammet (1997): “A partire dal momento in cui l’amor proprio è in gioco e dove c’è una ferita narcisistica, non è più possibile trovare il limite dove fermarsi”.
I temi trattati nelle due giornate del Convegno, arricchite da numerosi work-shop, hanno riguardato la tecnica, il controtransfert, la necessità di una attenta autoanalisi, nonché il senso di impotenza, di frustrazione, qualche volta di paura che certe situazioni generano. Gli agiti violenti, estrema difesa identitaria per il paziente, attaccano la nostra identità terapeutica, tendono a paralizzare il nostro normale funzionamento, evocano personali fantasmi di violenza. E’ assai arduo immaginare su chi o cosa fare affidamento per un’alleanza, per costruire un progetto. Si rivela dunque di particolare importanza, al fine di individuare le strategie terapeutiche più efficaci, una attenta diagnosi di struttura che ponga particolare attenzione all’esistenza di potenzialità riparative. Ho parlato all’inizio dell’Ospedale Diurno come di un osservatorio privilegiato che permette, grazie al lavoro in équipe, di tentare il trattamento anche di quei casi che in uno studio privato sarebbe ben difficile accogliere. La possibilità di un approccio multifocale, la presenza di diverse professionalità, nonché di diverse personalità nel gruppo dei curanti, offre un ventaglio ampio di possibilità di spostamento, diluendo i transfert e rendendoli più tollerabili. Le regolari discussioni di gruppo permettono una sinergia delle forze in campo, drenano in parte le tensioni, contrastano quella pietrificazione cui ho più sopra accennato, esternalizzano o drammatizzano (in un contesto che ne permette una risignificazione) brani della storia psichica del paziente a lui ancora inaccessibili.
La relazione presentata ad Alghero da Monniello (2000), generosa di materiale clinico e di riflessioni personali sul controtransfert, era dedicata appunto a “I destini della violenza in Ospedale Diurno” e descriveva in modo molto coinvolgente un percorso terapeutico in ambito istituzionale. Lo scontro fisico con il suo paziente, a lungo spostato e contenuto nella cornice dell’Ospedale Diurno e nelle figure dei suoi diversi operatori, sfocia in colluttazione nel momento in cui la cornice non regge più. Il terapeuta, che è anche responsabile del Servizio, è chiamato in causa direttamente dall’équipe, oltre che dal paziente. Pressato da ogni parte, non ultimo dal suo controtransfert, usa la forza fisica per ristabilire i limiti. Lo scontro è duro per entrambi, non tanto sul piano fisico, quanto per le implicazioni emotive suscitate. Ricorderò per inciso che uno dei temi cruciali dell’adolescenza in generale, e dell’adolescente violento in modo particolare, è proprio l’uso del corpo e della fisicità, con tutte le sue possibili valenze simboliche. Sarà soltanto attraverso una profonda rimessa in discussione personale e un attento lavoro di autoanalisi da parte del terapeuta, che questo episodio potrà diventare, come ha detto Monniello, “un atto fondante” che permetterà la costruzione di uno spazio terapeutico più riservato.
Vorrei aggiungere, (avendo condiviso parte di questo faticoso percorso), che questo episodio e la sua elaborazione hanno anche aperto la strada alla possibilità per l’équipe di parlare intorno a questo paziente, di pensare insieme su quanto accadeva fuori della stanza di terapia. Il limite posto con fermezza dal padre-coordinatore-terapeuta ha dunque permesso sia all’équipe che al paziente di cominciare a trovare un senso, una figurabilità, alla violenza agita e avviare un processo di trasformazione, ciascuno nel suo personale tragitto.


BIBLIOGRAFIA

Blos P. (1962), L’adolescenza: una interpretazione psicoanalitica, Milano, Franco Angeli Editore, 1971.
Cahn R. (1998), L’adolescente nella psicoanalisi. L’avventura della soggettivazione, Roma , Edizioni Borla, 2000.
Caroli F. (1998): Catalogo della Mostra “L’Anima e il Volto”. Milano, Palazzo Reale 1998/99. Milano, Ed.Electa, 1998.
Greer G. (1979), Le tele di Penelope - le donne e la pittura attraverso i secoli, Milano, Bompiani, 1980.
Jeammet Ph. (1992), Psicopatologia dell’adolescenza. (p.157), Roma, Borla, 1992.
Jeammet Ph. (1997), La violence à l’adolescence. Défense identitaire et processus de figuration, Adolescence, 1997, 15, 2, 1-26.
Longhi R. (1952), Caravaggio, Roma, Editori Riuniti, 1988.
Monniello G. (2000), I destini della violenza in Ospedale Diurno, Relazione al IV Convegno Nazionale di Psicoterapia dell’Adolescenza (Alghero, 6-7 ottobre 2000).
Novelletto A. (2000), Le figure della violenza. Introduzione teorica e stato del problem,. Relazione al IV Convegno Nazionale di Psicoterapia dell’Adolescenza (Alghero, 6-7 ottobre 2000).
Pasche F. (1971), Le bouclier de Persée ou psychose et réalité, in Le sens de la psychanalise (27-41), Paris, PUF, 1988.
Sassanelli G. (1997), La psicoanalisi e i suoi miti, Roma, Edizioni Borla, 1997.
Spano E., Giannotti A. (1988), Il difficile conseguimento dell’identità di genere. Rischi di un’organizzazione perversa, in Psichiatria dell’Infanzia e dell’ Adolescenza, Vol.55, N.6. Roma, Edizioni Borla, 1988
Winnicott D.W. (1969), The use of an object, Int.J.Psychoanal.,50:, 711-716.



* Psic. Dir. Ospedale Diurno per adolescenti del Dipartimento di Scienze Neuropsichiatriche dell'Età Evolutiva, II Div. NPI, Università di Roma "La Sapienza".
Membro Ord. Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica dell’Infanzia e dell’Adolescenza (SIPSIA)
Membro Ord. Associazione Romana di Psicoterapia dell’Adolescenza (ARPAD)
Membro Ord. International Society for Adolescence Psychiatry (ISAP)
E-mail: eleda.spano@uniroma1.it





PSYCHOMEDIA --> HOME PAGE
A e P --> HOME PAGE --> N° 2 - Gennaio 2001