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Anno I - N° 2 - Maggio 2001

Figure della violenza in adolescenza
Comunicazioni




La funzione del gruppo per i ragazzi che commettono reati

Cristina Saottini *




I giornali avevano riportato la notizia con grande rilievo; IL BRANCO HA COLPITO, DODICENNE SEQUESTRATA, LEGATA E STUPRATA PER ORE DA UN GRUPPO DI RAGAZZI.
Gli imputati erano descritti come appartenenti a famiglie multiproblematiche, ragazzi che non lavoravano né studiavano, una banda di perditempo violenti.
Denunciati, dopo alcuni giorni di detenzione erano stati sottoposti alla misura cautelare della permanenza in casa, in attesa del processo. Erano quindi iniziati i colloqui per approfondire la conoscenza della loro situazione personale.

L’indagine preliminare, nei procedimenti che riguardano minori, ha come suo scopo, infatti, non solo quello di stabilire la verità dei fatti, ma quello di valutare la personalità degli imputati e di conoscere il loro contesto familiare degli imputati, con l’obiettivo di prendere decisioni riguardo alla punibilità, che tengano anche conto delle necessità di promuovere una ripresa dello sviluppo del minore.
In questa ottica rientra l’intervento psicologico, che tra gli altri, si pone l’obiettivo di affrontare con gli imputati il senso delle loro azioni, attribuendo un significato simbolico al reato, inteso come segnale della crisi del processo di crescita.
L’obiettivo di rendere “pensabile” il reato compiuto in modo in generale “non pensato”, è quindi parte del processo di riflessione su di sé e di riappropriazione del senso del proprio agire.

L’abuso sessuale commesso da adolescenti è, evidentemente, un atto fortemente traumatico, ovviamente in modo preminente per chi lo subisce, ma anche per chi lo agisce.
Nella grande maggioranza dei casi in adolescenza vittima e abusatore si conoscono, hanno più o meno la stessa età, condividono la stessa realtà sociale e familiare, spesso le dinamiche psichiche di entrambi sono complementari.
Mi sembra che sia proprio questo aspetto di “riconoscibilità” di sé nell’altro, che il giovane abusante vuole negare attraverso l’atto violento, per cancellare la percezione in sé di quegli aspetti che la presenza dell’altro gli rende manifestamente intollerabili.
Il non riconoscimento della realtà emotiva dell’altro, assume quindi in modo esplicito in adolescenza, la caratteristica di non riconoscimento di sé e può quindi sancire un fallimento “traumatico” del processo di sviluppo.
Nell’abuso sessuale, questa negazione dell’altro e di sé, prende inoltre la forma di negazione del corpo sessuato e l’aggressione appare come un tentativo per mettere a tacere il proprio corpo, che l’adolescenza fa sentire pericolosamente familiare e contemporaneamente estraneo. La presenza degli altri fornisce un contesto in cui il bisogno di sostegno narcisistico e di sostegno all’identità che il gruppo fornisce, diviene esibizione sessuale di sé al gruppo.
Questa modalità distruttiva ed autodistruttiva, trova le proprie radici in un difetto nell’elaborazione dei conflitti tra bisogni narcisistici e riconoscimento del’oggetto, che non consente l’integrazione tra aggressività e bisogni di dipendenza. (Balier)
La quota di violenza, (intendo con Jeammet come violenza l’impulso narcisistico di difesa dell’identità minacciata, che ha per obiettivo quello di distruggere l’altro minacciante, anche attraverso comportamenti aggressivi) implicata nel gesto, differenzia la gravità della patologia e quindi la povertà e fragilità del sentimento di sé.
Per quanto riguarda la mia esperienza, tuttavia, in adolescenza non sempre gesti che appaiono anche gravi sul piano umano e giuridico, corrispondono ad una analoga gravità patologica nella struttura di personalità dei protagonisti, ma sempre sono segnali della rottura dell’alleanza generazionale e del mancato riconoscimento e sostegno da parte dei padri (reali e simbolici) ai bisogni di valorizzazione e di riconoscimento delle nascenti virilità ed identità sociale dei figli.

Nel caso di reati compiuti in gruppo, è essenziale per avviare un processo di riflessione, ricostruire il senso e il clima dell’aggregazione che ha promosso e sostenuto il reato, che, per essere efficace, deve potersi compiere con lo stesso gruppo.
La soggettività individuale, infatti, appare in gruppo, molto diversa da come si esprime fuori dal gruppo. I ragazzi, visti individualmente, possono per esempio mostrare un livello di riflessione su di sé ed una capacità di mentalizzazione che, una volta in gruppo, sembrano perdersi nella rigidità dei ruoli che ciascuno difensivamente assume quando è in mezzo agli altri; di contro è possibile che la deresponsabilizzazione rispetto ai propri comportamenti, che é affermata individualmente, si moduli in modo meno rigido e più facilmente modificabile in gruppo, grazie al rispecchiamento reciproco che consente di vedere negli altri e meglio tollerare gli aspetti meno accettabili di sé.
E’ comunque fondamentale riconoscere che, soprattutto in adolescenza, il modo di esprimersi individualmente ed in gruppo, possono essere molto diversi e che, quindi, il processo di riflessione su di sé ha spesso bisogno di svilupparsi in uno e nell’altro contesto.

Nel caso che voglio esporre i ragazzi, più di dieci, erano stati visti individualmente dagli operatori e ne era risultata un’immagine complessiva di persone che non solo non riconoscevano il senso del loro gesto, ma che anzi, attribuivano alla vittima la colpa dell’intera vicenda, affermando che lei stessa era consenziente e quindi le vere vittime del suo “voltafaccia”, della denuncia cioè, erano loro.
Questa affermazione, che certamente suona scandalosa e cinica, riflette la confusione sui rapporti che è tipica di situazioni come queste, in cui spesso manca la percezione soggettiva della propria aggressività, vissuta come un comportamento accettabile ed accettato.
In questo caso il sentimento di ingiustizia, era inoltre accentuato dalla rabbia, suscitata dalle affermazioni, certo molto enfatizzate e in certa misura non vere, riportate dai giornali, che in cerca di sensazionalismo, avevano usato la vicenda per dare voce a fantasie sui gruppi di adolescenti selvaggi e brutali, che appartengono in grande misura all’immaginario degli adulti.

Prima di incontrarli in gruppo per quattro incontri a cadenza settimanale, le informazioni che avevo su di loro erano limitate alla lettura dei brevi profili stesi dagli operatori che li avevano visti individualmente.

I ragazzi, quindicenni e sedicenni, erano quasi tutti apprendisti operai che avevano completato la licenza media, due frequentavano le superiori e uno non aveva occupazione, le situazioni familiari erano quasi tutte normali, solo una famiglia era già conosciuta dai servizi sociali.
La vittima quindicenne, era stata compagna di classe di alcuni degli aggressori ed era conosciuta da tutti, anche per i suoi comportamenti sessuali disinibiti.
In un pomeriggio domenicale in cui tutti passeggiavano ai giardinetti, senza premeditazione, due ragazzi avevano “caricato” la vittima sul motorino dirigendosi con lei verso un altro parchetto, lungo la strada avevano incontrato altri amici in motorino che si erano aggregati.
Alla fine raggiunta la meta, la ragazza aveva avuto rapporti orali con più di dieci di loro, uno a uno, mentre gli altri aspettavano il loro turno riparati dietro una siepe, come in una sorta di cerimonia. Si erano poi salutati come se nulla fosse. Una volta a casa la ragazza ne aveva parlato alla madre che aveva sporto denuncia.
In seguito all’intervento della Giustizia i ragazzi erano stati portati al Centro di prima accoglienza del Carcere minorile, consolidando in questo modo il loro essere gruppo, attraverso l’esperienza comune della reclusione e delle indagini preliminari.
Non era quindi un gruppo strutturato da abitudini comuni, ma un insieme di ragazzi, chi legato da amicizia, chi solo conoscente, trovatisi in modo relativamente casuale, riuniti da una specie di tam tam in funzione del reato.
Ciononostante la dimensione di gruppo è stata decisiva in questa situazione: in primo luogo ha reso possibile l’agito, poiché senza la forza del gruppo nessuno di loro avrebbe pensato di compiere una simile azione, ha poi dato ai suoi componenti la definizione sociale, “il marchio”, di branco, per poi fungere da sostegno e motore per l’elaborazione del senso emotivo del reato.
Dalla dimensione privata, di gruppo “nascosto dietro i cespugli”, in un rituale di affermazione di una virilità immaginaria, ottenuta attraverso l’espulsione sulla vittima della propria angoscia di passività e di mortificazione, rituale che ricorda nella sua ripetitività i giochi ai videogames, il gruppo si è trovato esposto allo sguardo pubblico e alla pubblica sanzione e poi, passando attraverso i riti della giustizia, che ha potentemente riportato sulla scena del rito la figura adulta, é arrivato a costituirsi come gruppo terapeutico, in cui gli accadimenti e le emozioni hanno trovato parola.
Questo percorso “dentro” gruppi che pur composti dalle stesse persone, si sono via via trasformati nella loro struttura, ha promosso nei membri una modificazione nella capacità di autorappresentazione. Il gruppo da luogo in cui trovano espressione comportamenti devianti che segnalano un fallimento del processo di simbolizzazione, diventa un luogo in cui, trova spazio di maturazione una capacità riflessiva che può riparare alle mancanze nel rispecchiamento sociale che dovrebbe sostenere la crescita.

Il gruppo si è inizialmente presentato ai colloqui, con me e con un collega maschio in funzione di recorder, molto compatto e coeso, nell’affermare che non si era trattato di un’azione né coercitiva né, tanto meno, violenta, ma che la presunta vittima era in realtà consenziente e si era ben volentieri e liberamente prestata a compiere con loro questa bravata.
Quest’affermazione, che suona immediatamente rozzamente difensiva e frutto di disimpegno morale e di deresponsabilizzazione, testimonia tuttavia anche una fantasia, che tutti hanno condiviso al momento del reato e che consentiva loro di collocarsi dentro un immaginario universo di potenza virile, cioè quella che certe donne, sono a disposizione del desiderio maschile al quale aderiscono passivamente.
Uno dei primi temi è quindi quello di cercare di capire le ragioni per cui la ragazza poteva essersi prestata volontariamente a questo tour de force. Per denaro no, si chiarisce subito, visto che non l’avevano pagata.
Forse per piacere? Su questa ipotesi lavorano a lungo: magari a lei piaceva farlo, visto che lo faceva. Qualcuno esprime in modo scurrile le sue opinioni sul desiderio femminile, incerto tra la voglia di far vedere che lo considera ovvio e scontato e quella di esibire una sovrana indifferenza. Certo, ma allora, se in fondo non si capisce cosa ci sia nella testa della ragazza, cosa a cui peraltro non vale la pena di interessarsi, come si fa a dire che era certamente consenziente?
Anche l’ipotesi che le piacesse perché era matta, non ha seguito, tutti concordano nel dire che non è matta. D’altra parte anche loro l’hanno fatto per imitare i film pornografici e alla fine, salvo per uno che sostiene l’idea che l’ha fatto per piacere, gli altri non sono stati tanto bene. Se il piacere non ha avuto tanto spazio per loro, possiamo pensare che non lo avesse nemmeno per lei. Quindi sembra proprio che il piacere non c’entri.
Allora perché? Forse per paura? No!, tutti concordemente e senza tentennamenti dicono che no, loro non le hanno fatto paura.
Raccontano quindi di come la ragazza li abbia seguiti; pur affermando di “averla caricata” sul motorino, insistono sulla sua possibilità di fuggire, se avesse voluto: non è fuggita, quindi, concludono, le andava di restare.
Loro, invece, sì che sono stati arrestati, sono stati portati in carcere e i genitori si vergognavano mentre loro piangevano tutti. Loro sì che hanno avuto paura, era pieno di pericolosi extracomunitari, sono stati minacciati.
A ben vedere, ricostruiscono, queste minacce non è che fossero esplicite, ma un ragazzo marocchino si era tolto le stringhe delle scarpe e questo aveva suscitato il terrore che volesse strangolarli. Poi non era successo niente, avevano giocato a calcetto e fatto chiacchiere.
Anche con i carabinieri che li avevano trasportati in carcere, non c’era certo bisogno di essere chiusi a chiave in macchina, comunque non si sarebbero mossi, erano come paralizzati.
Convengono che la paura è un sentimento strano, blocca la mente, ti fa vedere dei pericoli anche dove non ci sono, è una cosa nella testa.
L’attesa di un evento che sai che accadrà e non puoi farci niente, ti terrorizza, come quando erano tutti in fila davanti alla porta del giudice che doveva decidere le misure cautelari per ciascuno di loro, ed entravano uno alla volta e quando quello prima usciva, quello dopo sbiancava, e prima di entrare a sua volta chiedeva “e a te cosa ha fatto” e la risposta era sempre la stessa: “permanenza in casa”, ma loro avevano il terrore che li rimandasse in carcere.
Questo rito della giustizia, sembra riproporre, rovesciata, la stessa dinamica del reato, il trionfo sprezzante “dell’uno via l’altro” si è trasformato in una attesa terrorizzata.
E’ proprio partendo dalla possibilità di esprimere la propria paura e di discuterne in gruppo come vittime, che possiamo parlare della paura che può aver provato la ragazza, anche se loro non hanno pensato di minacciarla con violenza.
Quando si è tanti si fa più paura - dicono -. E ancora: “il gruppo dà forza, in gruppo facciamo cose che non faremmo mai da soli, ma è anche vero che in gruppo devi fare quello che decidono gli altri, per esempio devi far vedere che fai sesso, altrimenti ti danno della checca.”
Si introduce nel pensiero comune, il senso di una propria rassegnazione nei confronti della pressione del gruppo, che non è più solo sentito come lo stare tutti insieme uniti da una sola volontà condivisa.
Uno di loro, il più caratteriale e forse il più disturbato, si fa portavoce della posizione più autodifensiva in modo espulsivo (noi siamo bravi è lei che è una donnaccia), in modo così caricaturalmente rigido da risultare non più condivisibile da molti del gruppo, ora più sensibili alle sollecitazioni che il gioco delle identificazioni ha messo in atto.
La sensazione di essere oggetto delle prepotenze verbali di quell’amico, che cerca di usarli come complici per non pensare, e di doverlo sopportare per solidarietà, porta quasi naturalmente un altro di loro a dire, come per gioco: “forse, come noi dobbiamo sopportare te, anche lei c’è stata per rassegnazione.” Ma poi il gioco si approfondisce nell’affermazione che arriva da più parti: “forse lei la prima volta lo ha fatto perché le andava e poi non è più riuscita a tirarsi indietro. Magari le andava di farlo con uno e si è trovata a farlo con tutti.”
Si parla della sessualità, del disagio provato dopo il rapporto, “non credo di essere colpevole di qualcosa, ma mi sentivo di aver fatto una cavolata, me lo sentivo nello stomaco” dice uno.
Sembra che con relativa rapidità e facilità si siano messi in moto dei processi di identificazione con la vittima che comincia a far parte del gruppo interno al gruppo reale, “lei è un po’ loro”, come, io credo, sia sempre stato, ma ora questo rispecchiamento, pur non essendo oggetto di riflessione consapevole, non deve più essere rigidamente negato, poiché è meno minaccioso per l’identità. Credo che la mentalizzazione si realizzi in gruppo anche attraverso la possibilità di sperimentare rispecchiamenti differenti tra i diversi membri, rispecchiamento molteplice che protegge dal timore di confondersi con l’altro, nella sua dimensione di doppio.
Certo i rapporti con le ragazze sono complicati -dicono- “le ragazze sono più mature di noi, sanno parlare, anche se hanno due anni di meno, ti tengono testa, fanno paura.” Prende forma un pensiero comune, che con le ragazze, ma non solo con le ragazze, o fai paura o hai paura, non è tanto possibile avere incontri in cui ci siano rapporti reciproci.
Ce chi ha una ragazza e chi non ce l’ha, chi è stato lasciato dopo la denuncia. S’interrogano se sia giusto in futuro parlare alle proprie ragazze di quello che è successo, chi pensa di sì, chi non lo farebbe mai, chi dice che dipende dal rapporto, se ci si vuol bene si ha anche fiducia. Anche per quanto riguarda i rapporti orali, chi dice che sono cose da pervertiti, che non si fanno con le ragazze serie, che dice che quando c’è confidenza si possono fare tante cose, basta essere d’accordo.
I pareri si moltiplicano in una discussione vivace in cui hanno posto le opinioni differenti, in un clima molto diverso da quello monolitico con cui il gruppo aveva preso avvio.
L’incontro successivo inizia all’insegna della persecutività, inizialmente avvertita nei miei confronti, sentita come la rappresentante del giudice, che con sottili arti psicologiche cerca di far dire loro quello che non vorrebbero. Il clima è teso, qualcuno sembra più disponibile a riprendere il discorso, altri tacciono ostilmente.
La possibilità di sperimentare un modo di essere insieme, non centrato sul fare ma sul pensare, sembra averli incuriositi, ma anche sconcertati e spaventati. Dicono di non aver mai parlato tra loro, fanno cose insieme e in queste vanno d’accordo, ma avere opinioni diverse li mette in difficoltà, hanno paura che poi litigheranno. “Le parole inguaiano” dicono e io sembro rappresentare il responsabile del guaio, come le ragazze che fanno paura perché pensano.
Ma non è difficile per loro rendersi conto che il timore che provano riguarda il perdere la protezione del gruppo, se sperimentano pensieri diversi al loro interno, protezione tanto più indispensabile ora, che si trovavano esposti al giudizio pubblico.
Le differenze, allora, rompono i legami e rendono deboli e soli? Le tensioni che sperimentano tra loro, riguardano anche la rappresentatività delle diverse opinioni: “Io parlo solo per me” dice uno. Oppure: “Quando qualcuno parla, lo fa a nome proprio o anche per gli altri?” Siamo io o siamo noi?
Compare l’altro, differente da sé ma non inconciliabile, nei confronti del quale si avverte una responsabilità fino ad allora non riconosciuta: la preoccupazione di tradire e la paura di essere traditi, non per volontà malvagia, ma per incompetenza nel comprendere e nel farsi portavoce di quello che l’altro pensa e che si condivide solo in parte.
Torna, allora, il desiderio di ricompattarsi e di risolvere le tensioni interne, proponendosi nuovamente come vittime di un’istigazione da parte della ragazza, anziché come autori di un danno nei suoi confronti. Ma l’aver potuto sperimentare una forma di responsabilità reciproca all’interno del gruppo aiuta a parlare della responsabilità. “Se ti rubano il motorino - dice uno - è forse colpa tua che non custodendolo hai provocato qualcuno al furto?” O forse il prendere vantaggio dalla situazione di debolezza altrui è segno di una mancanza di responsabilità che riguarda chi compie il gesto, anche indipendentemente dal danno fatto?
“Ma lei ha scelto una strada facile per avere la compagnia dei maschi”, concordano alcuni.
“Ma anche noi abbiamo scelto una strada facile” , dicono altri.
Sembra, infine, che sia possibile raggiungere un sufficiente riconoscimento dell’esistenza della ragazza e del danno a lei inferto, in una dimensione in cui non domina la colpa ma in cui, attraverso l’identificazione con la vittima, trova spazio il senso della propria responsabilità.
“L’abbiamo proprio trattata come uno straccio!”, affermano, quasi tutti concordi. E di quello che ostinatamente insiste sulla propria innocenza, dicono: “sembra che non capisca niente, è di coccio, ma in fondo capisce anche lui”, con un atteggiamento responsabile che non cade nel facile rischio di usarlo come capro espiatorio.
Cosa si può fare adesso?
Propongo di pensare insieme a quale misura di messa alla prova potrebbe essere proposta, ed è pensando al loro amico “di coccio” che tutti dicono: “potrebbero costringerci a servire una donna bellissima e inavvicinabile; oppure costringerci a soddisfare delle donne che ci cercano solo per sesso; oppure mandarci a lavorare in un centro per ragazze madri”, in una serie di ipotesi in cui si mescolano contrappasso e riparazione.
Il loro sentirsi sessualmente inadeguati, si dilata in considerazioni che riguardano il generale senso d’inadeguatezza e di mortificazione, che possono condividere.
Parlano del loro lavoro, dell’essere apprendisti di operai anziani che li trattano in modo irrispettoso, costringendoli a lavori ripetitivi, senza insegnare loro niente.
“Ci costringono a scopare tutto il giorno -dicono alcuni, intendendo il lavoro di ramazza che fanno gli apprendisti- ma non possiamo toccare un arnese senza sentirle su!”
Molti pensano che le prepotenze siano un modo inevitabile di avere rapporti con i datori di lavoro. Qualcuno sostiene che l’unico modo per imparare e quello di farsi “cazziare” (rimproverare in modo violento ed umiliante) dai più anziani, così poi potrai diventare come loro!
Qualcuno mette in dubbio che l’umiliazione sul lavoro sia così utile, c’é chi dice che “la paura non fa imparare”. La prepotenza genera prepotenza. Il discorso si approfondisce e fioriscono le ipotesi per affrontare le prepotenze, senza subirle e senza diventare a propria volta dei prepotenti.
In questo caso, il processo di mentalizzazione ha portato al disoccultamento di un livello di umiliazione profonda, il proprio livello di abuso da parte degli adulti che umiliano la loro soggettività e la loro virilità nascente, portandoli poi a mettersi loro nei panni dell’aggressore. La disperazione della nascita sociale bloccata porta alla necessità di ricorrere difensivamente ad un acting che recuperi dallo stato di umiliazione e di mortificazione narcisistica. Questi ragazzi sono soggetti sociali a crescita bloccata, con padri sociali che non aiutano a nascere e non daranno il proprio nome, ragazzi che cercano nella dimensione di gruppo una delle soluzioni possibili.
Hanno quindi utilizzato uno strumento fase specifico, delegando al gruppo la funzione di fare paura, sottomettere, infliggere l’umiliazione e derespondabilizzare il soggetto. Hanno convocato il gruppo-banda, perché avevano bisogno di convocare un interlocutore a cui delegare la funzione di mettere in scena un’azione che rappresentasse collettivamente la soluzione del loro problema.
Sarà, quindi, il gruppo che dovrà risoggettivizzare, rimentalizzare, riresponsabilizzare, rendere pensabile e pronunciabile, ciò che era stato nascosto nella disperazione di un’azione ignobile.

Il gruppo che ha condiviso questo acting, ha mostrato una straordinaria, a mio parere, capacità nell’elaborare il significato dell’acting, elaborazione che ha importanza sia per i processi di mentalizzazione del gruppo, che si ricostituirà nella sua dimensione amicale su una nuova base, sia per i processi d’interiorizzazione individuale, sia per lo sviluppo di un senso della propria responsabilità individuale e sociale. La mentalizzazione collettiva favorisce la capacità di simbolizzazione individuale che sostiene la crescita.
In adolescenza l’essere gruppo ha un significato mitico; l’effetto trasformativo in questo lavoro terapeutico breve, credo sia legato in larga misura all’assetto “teatrale” che il gruppo consente, (che può essere assimilato al gioco o all’area transizionale), assetto in cui tutti possono essere contemporaneamente attori e spettatori, che favorisce processi di mentalizzazione che vanno a vantaggio della soggettivazione.
Invece di costringere tutti quanti a sottomettersi, il “gruppo che pensa” è un aiuto ed uno stimolo, almeno iniziale, per aiutare ciascuno a riprendere la propria strada.


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