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A e P --> HOME PAGE --> N° 2 - Gennaio 2001




Anno I - N° 2 - Maggio 2001

Figure della violenza in adolescenza
Comunicazioni




Agiti devianti e integrazione dell’aggressività nella costruzione dell’identità di genere maschile

Elena Riva *



Quando incontro per la prima volta Mattia, 17 anni, imputato di aver aggredito e derubato un travestito, mi colpisce di lui come sia a sua volta “travestito”:
Ho di fronte infatti un ragazzino piccolo e magro mascherato da duro, con viso e corpo di metallo: borchie e catene ne coprono il giubbotto di pelle, piercing di anelli e chiodi ne deformano lo sguardo e il sorriso, i capelli irrigiditi dal gel sembrano pungiglioni di un istrice.
Mattia non si fa pregare per esporre la “filosofia di vita” che ispira questo look, che gli consente di sopravvivere in un quartiere in cui “i bravi ragazzi si fanno rubare la donna e il motorino, non sanno farsi rispettare”.
In questo modo descrive quanto è accaduto a lui lo stesso giorno in cui ha commesso il reato, prima di quella strana serata in cui, uscito di pessimo umore e non del tutto sobrio da una birreria, sentendosi offeso e provocato da uno sguardo e da un gesto d’invito, ha aggredito uno dei tanti viados che passeggiavano sul marciapiede di periferia, picchiandolo e derubandolo dei guadagni della serata.
“Prima di tutto bisogna farsi rispettare” ribadisce Mattia, sostenuto da quell’aspetto consapevolmente finalizzato ad intimidire: per evitare umiliazioni in un quartiere in cui i confini fra trasgressività e devianza sono sfumati e in cui “avere precedenti” è un attestato di merito, occorre saper indossare atteggiamenti e vestiario adeguati.
Mattia ha un lavoro regolare e una ragazza fissa, in famiglia e nell’ambiente di lavoro mantiene un comportamento abbastanza corretto e rispettoso delle regole: vive quindi in precario equilibrio fra il ruolo di ragazzo che lavora per aiutare la madre, vittima di un marito irresponsabile, e l’esibizione da “duro di quartiere”.
La storia familiare di Mattia è esemplare: i suoi genitori, ancora adolescenti all’epoca del loro matrimonio, si sono ripetutamente separati e ricongiunti, secondo lui a causa dell’incapacità del padre di occuparsi responsabilmente della famiglia; Mattia dichiara fedeltà e gratitudine alla madre: “tutto quello che ho lo devo a lei”.
Qualche mese fa il padre di Mattia, da tempo clinicamente depresso, ha reagito all’ennesima istanza di separazione della moglie lasciando il lavoro e cadendo in uno stato di prostrazione che madre e figlio vivono come ricattatorio; orfano dall’infanzia, quest’uomo definisce la moglie “tutto il suo mondo”, e ritiene che assecondandone i desideri di libertà lei possa dimenticare la separazione e consentirgli di rimanere in casa; per non irritarla ha rinunciato ad esercitare ogni autorità paterna, tanto i figli, Mattia e il fratellino dodicenne, “non gli portano rispetto”.
Il padre considera Mattia un “bravo ragazzo”, così preoccupato però di mostrarsi “duro” con gli amici, da poter “fare delle sciocchezze”, come definisce il reato; la madre ritiene invece Mattia responsabile quanto suo padre delle proprie disgrazie, e si dichiara profondamente delusa da lui: da un ragazzo intelligente sarebbe stato legittimo aspettarsi una buona riuscita scolastica, magari un diploma; invece lui “ha buttato tutto via”, proprio come suo padre; tuttavia anche la madre di Mattia considera il reato una “ragazzata”, di cui il figlio non prevedeva certo le conseguenze.
Tale opinione banalizzante accomuna la famiglia; lo stesso Mattia, pur ammettendo di aver aggredito e derubato il viados, stenta a condiderarsi responsabile di un reato; nella sua logica affettiva l’attività illegale e perversa esercitata dalla vittima legittima l’azione punitiva e dovrebbe garantirgli l’immunità.
Il significato affettivo dell’agito violento di Mattia va interpretato infatti sullo scenario dello “sfortunato” giorno in cui è stato commesso, iniziato col furto del motorino e il litigio con la ragazza, eventi che hanno sferrato un duro colpo all’autostima di Mattia, relegandolo nella categoria dei “bravi ragazzi”, vittime designate di umiliazioni e soprusi. Perdere la ragazza singificava inoltre per lui perdere uno dei presidi (l’altro è il lavoro) della propria “parte sana”, ben adattata e socializzata, che lo sostiene ancora nel tentativo di diventare un adulto diverso da suo padre.

E’ importante, come sempre di fronte a un agito adolescenziale, capire cosa sia accaduto quel giorno a Mattia facendolo “esplodere” nel gesto aggressivo. Secondo Jeammet la violenza in adolescenza risponde sempre a una minaccia per l’identità; nella determinazione affettiva del reato commesso da Mattia, sembra essere stata la minaccia subita dall’identità di genere maschile a scatenare la violenza.
Nella relazione col padre, Mattia ha interiorizzato un’immagine maschile svalutata, che alterna onnipotenza fallica e impotenza vittimistica; nella sua storia e nel suo mondo interno è assente la funzione del Padre simbolico garante della Legge, che non a caso non compare nel suo immaginario nemmeno in relazione al reato: il rapporto fra chi fa un uso illegale e perverso della sessualità e chi lo deruba è regolato secondo lui dalla legge del più forte e del più furbo, la legge nel quartiere, l’unica che Mattia riconosca in assenza della Legge del Padre.
Mattia tiene precisare che mai avrebbe commesso lo stesso reato nei confronti di una donna, evidenziando come intendesse punire nel travestito una figura pseudo-maschile fragile e impotente, che tradisce la propria virilità e non sa farsi rispettare dagli altri uomini.
Il reato esprime dunque la protesta dell’ideale virile nei confronti di una figura paterna svalutata, e proclama il desiderio di acquisire un’identità virile potente ma protettiva delle donne-madri, che vanno amate e non vittimizzate.
Il dovere di “farsi rispettare” evoca per contrasto la rinuncia del padre a “farsi rispettare” dai figli, e oppone alla debolezza paterna un modello virile forte coi maschi e protettivo con le femmine; tale modello, non supportato da un’adeguata interiorizzazione e attaccato dalla madre stessa (“è come suo padre..”), si irrigidisce nella stereotipia ed esplode nell’agito aggressivo.
Il reato di Mattia è dunque una dimostrazione agita di potenza virile finalizzata a rinforzare una mascolinità incerta, ferita dal furto del motorino e dalla perdita della ragazza.

Fra le storie di adolescenti incontrati nei servizi penali, quella di Mattia mi è sembrata esemplare di come una relazione carente o distorta con la figura paterna possa ostacolare in adolescenza l’integrazione dell’identità di genere maschile, determinando un corto circuito emotivo che esita nell’agito violento. Se l’agito adolescenziale è finalizzato alla risoluzione subitanea, magica e onnipotente, di un’istanza evolutiva altrimenti disattesa, spesso il nucleo sottostante riguarda l’identità di genere.
Blos (1985) individua nella relazione originaria con il padre diadico sia le basi della costruzione dell’identità di genere, sia l’elemento etiologico determinante della psicopatologia adolescenziale maschile. L’imago paterna originaria, protettiva e idealizzata, preambivalente e preconflittuale, rappresenta un modello identificatorio e una prima istanza separante nei confronti dell’attrazione regressiva verso la madre simbiotica.
Quando in adolescenza il nucleo infantile dell’identità di genere deve essere confermato e stabilizzato, integrando i valori culturali dell’identità di ruolo maschile, la relazione diadica con il padre assume un’importante funzione di riferimento; la sua assenza lascia l’adolescente in balia del fantasma di poter essere reinglobato da una madre arcaica divorante, ostile ad ogni separazione.
Secondo Stoller (1968) la nostalgia dell’esperienza fusionale primaria è una minaccia sempre latente per la virilità, all’origine di tutte le difese maschili; spetta alla funzione paterna sostenere la sepazione dalla matrice simbiotica originaria e avviare il figlio all’autonomia; se il depositario di tale funzione psichica è assente nella vita affettiva e relazionale del bambino, la funzione separante e normativa non può essere interiorizzata e fondare l’ideale dell’Io, deposito delle norme e dei valori interiorizzati.
Dipendenza e passività, residui del legame primario con la madre, sono quanto più l’adolescente maschio teme; l’adolescente deviante, le cui relazioni primare sono state insoddisfacenti e i cui bisogni infantili non sono stati contenuti per mancanza di una funzione di “reverie” capace di metabolizzare rabbie e paure trasformandole in pensieri, più di ogni altro teme il bisogno e deve dimostrare a se stesso e agli altri di esserne immune; spesso il comportamento violento è una reazione alla minaccia della dipendenza, che trasforma la passività in attività, la dipendenza in dominio.
La famiglia del giovane deviante è spesso costituita da una figura materna fragile e priva di competenze educative, che parentifica il figlio chiedendogli non solo sostegno ma anche rivalse nei confronti degli uomini; e da un padre debole sul piano affettivoa ed educativo, malato o depresso, oppure caricaturalmente autoritario e aggressivo nel sostituire con l’onnipotenza fallica una carente potenza virile.
Se il ruolo paterno è carente, per queste caratteristiche del padre o perché la madre non gli lascia spazio nella relazione fantasmatica con il figlio, viene a mancare allo sviluppo del giovane deviante chi lo separi dalla madre e ne consolidi l’identità di genere.
In tutte le culture al termine dell’adolescenza viene celebrato un rituale di riconoscimento paterno dell’acquisizione delle prerogative e dei diritti del maschio adulto: “La benedizione spirituale del padre buono e forte tradizionalmente viene conferita al giovane mediante un atto simbolico e santificante che rappresenta un riconoscimento da parte della società di questo stadio dello sviluppo umano” (Blos P. 1985, pag. 15).
Nei contesti sociali o relazionali in cui tale riconoscimento è assente, il gruppo dei pari sostituisce gli adulti in tale funzione. Gli attuali processi di socializzazione spesso assegnano al gruppo un ruolo cruciale e tendono a delegittimare il sostegno etico adulto alla nascita sociale: il gruppo amicale, lungi dal rappresentare un’area intermedia di passaggio fra il contenimento infantile familiare e la realtà sociale più ampia (Meltzer, 1981), rischia di essere l’approdo del percorso di separazione dalla famiglia: in mancanza di un modello paterno, l’adolescente maschio tende ad assumere una pseudo-virilità dai tratti stereotipati e caricaturali, mutuata dalle relazioni fra coetanei.
Quando l’integrazione dell’aggressività nell’identità di genere è affidata al gruppo dei maschi adolescenti, spesso assume le forme stereotipate del bullismo, talvolta esplode nell’agito violento; il gruppo che sostituisce il padre nel legittimare l’identità di genere, fallisce dunque nell’integrazione dell’aggressività come tratto specifico del codice virile: tale fallimento produce la violenza.
E’ nel passaggio dal codice virile al codice paterno che le componenti autoassertive dell’aggressività maschile vengono volte al servizio dell’assunzione di responsabilità e della protezione della coppia madre bambino. La mancata ritualizzazione sociale della “benedizione del padre” ha dunque sul piano interno riscontro nella mancata internalizzazione di valori paterni da modularsi con quelli virili.
Gli adolescenti aggressivi hanno trovato come unico supporto alla crescita un gruppo dei coetanei capace di offrire solidarietà e complicità straordinariamente intense, ma per statuto inabile a “prendersi cura” dei bisogni in modo empatico e a sostenere la crescita; queste sono infatti per definizione funzioni parentali, che in nessun modo possono essere delegate ai pari.
La violenza dell’adolescente deviante può essere dunque interpretata come fallimento del processo di integrazione dell’aggressività nell’identità di genere virile, espressione della mancata interiorizzazione di una funzione paterna che faccia da argine alle risposte agite.

Enrico, sedici anni, è reo confesso di numerose estorsioni a coetanei, cui sottrae motorini, orologi, giubbotti e scarpe firmate.
Egli fa risalire alla morte del padre, avvenuta quando aveva undici anni, l’inizio dei comportamenti devianti. Allora non aveva confidato a nessuno il suo dolore, non si era “fatto compatire da nessuno”, ma sempre più aveva cercato di conquistare i coetanei con comportamenti trasgressivi ed esibitivi, cercando così di anestetizzare il dolore e negare la mortificazione derivante dagli insuccessi scolastici: “Insegnanti e bidelli avevano paura di me, entravo e uscivo quando volevo, tutti mi conoscevano, le ragazze bisbigliavano fra loro quando mi vedevano passare, e io dicevo cose che le facevano ridere...”.
Enrico affascinava e intimoriva i coetanei da cui desiderava essere ammirato; i suoi nemici erano “i primi della classe, quelli che non si sanno difendere”, i ragazzi sostenuti dalla famiglia nella crescita scolastica e sociale. Enrico ricorda il disprezzo che provava per i coetanei che non sapevano reagire alle intimidazioni e la sensazione di avere il diritto di umiliarli e sottometterli di fronte a tutti, anzi a tutte, affermando così la propria virilità di giovane uomo in contrapposizione al loro status di figli: “Non sopportavo i secchioni, gli imbranati, quelli che avevano paura.. più li vedevo spaventati e più avevo voglia di menarli..”
Con questo spirito Enrico è passato dalle prepotenze ai gesti violenti e vandalici, dal bullismo alla devianza. Egli nega di aver mai progettato le estorsioni: la molla che avviava tali comportamenti era la comparsa nel campo d’azione del piccolo gruppo di adolescenti sfaccendati al suo seguito, abbandonati a se stessi dalla scuola e dalla famiglia, di “figli di papà”, ragazzi incapaci di menare le mani ma invidiabili possessori dei beni desiderati da lui e dai suoi amici. L’invidia nei confronti di coetanei che ricevevano dalla famiglia protezione e oggetti di consumo, si aggiungeva al disprezzo per la loro condizione di dipendenza, rinforzando negli aggressori la convinzione di avere il diritto di appropriarsi di ciò che gli altri hanno ricevuto gratis e senza merito.
“Figlio di papà” è proprio ciò che Enrico non è mai stato, cresciuto privo di un modello adulto di socializzazione virile: i suoi furti sono dunque riappropriazioni di ciò di cui è stato deprivato dalla sua storia, un’eredità paterna che renda anche lui, almeno un po’, “figlio di papà”.


Bibliografia

Blos P. (1985) Il ruolo del padre originario nello sviluppo adolescenziale maschile in S. Greespan, G.Pollock “Adolescenza” Borla,1997 pag.15
Jeammet P. Psicopatologia dell’adolescenza Borla Roma, 1992
Maggiolini A. Riva E. (1998) Adolescenti trasgressivi F.Angeli, Milano
Meltzer D., Harris M. Psicopatologia dell'adolescenza, Borla, Roma, 1981.
Novelletto A. (1986) Psichiatria psicoanalitica dell’adolescenza, Borla, Roma.
Pietropolli Charmet G. (1990), L’adolescente nella società senza padri, Ed. Unicopli, Milano.
Pietropolli Charmet G. (1995) Un nuovo padre, Mondadori, Milano.
Pietropolli Charmet G. (1997) Amici, compagni, complici, F. Angeli, Milano.
Stoller R. (1968) Genere e identità di genere
Winnicott D.W. (1984) Il bambino deprivato, R. Cortina, Milano 1986.



* Centro Minotauro, Milano
E- mail: minotauro@ tin.it




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