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Anno I - N° 1 - Gennaio 2001

Figure della violenza in adolescenza




La violenza contro l'oggetto d'amore

Gustavo Pietropolli Charmet *



Il lavoro clinico con adolescenti costringe ad interessarsi di un affetto di cui è più raro doversi occupare lavorando con bambini ed adulti. Si tratta dell'odio. Negli ultimi anni ho lavorato con ragazzi che odiavano come attività psichica prevalente. Ruminavano progetti vendicativi e dedicavano al loro perfezionamento molta devozione tanto da rimanere catturati dalla rappresentazione dell'oggetto odiato quanto lo sono allorché s'innamorano e divengano succubi dalle sembianze dell'oggetto finalmente ritrovato. Molti di loro li ho incontrati dopo che avevano concretizzato il desiderio di vendetta ed avevano compiuto gesti di feroce violenza nei confronti dell'oggetto odiato. Non odiavano più perché finalmente si erano vendicati dell'umiliazione subita. Così mi sono convinto che dovendosi interessare delle violenze che gli adolescenti commettono sia molto importante dedicare un'attenzione particolare all'affetto dell'odio poiché mi sembra che la rabbia non sia sufficiente per commettere dei delitti: per usare violenza contro la persona è necessario ci sia l'odio, cioè un affetto duraturo e stabile nel tempo, che anzi si incrementa e si potenzia ristagnando nella mente, doloroso da tollerare perché sospinge verso l'azione che è comunque terribile. Non tutti i ragazzi e le ragazze che odiano commettono azioni violente contro l'oggetto bersaglio del loro progetto di rivalsa, ma tutti gli adolescenti che avevano commesso azioni molto violente odiavano profondamente l'oggetto che avevano attaccato ed il motivo che li aveva sospinti ad agire era il desiderio di vendetta e di rivalsa. Ho perciò scelto di trattare un segmento limitato delle imprese violente dei ragazzi: quelle che compiono nei confronti di oggetti che nel frattempo amano poiché in questi casi è più palese come l'odio sia strettamente correlato al bisogno di amore e di riconoscimento e come lo sguardo d'odio dell'adolescente abbia la medesima fissità ed intensità dello sguardo dell'innamorato che contempla estaticamente l'insostenibile bellezza dell'oggetto d'amore.

Mentre scrivo queste pagine sto lavorando con Aurelio di 15 anni che ha tentato più volte di strangolare la madre adottiva: la odia perché gli nasconde la madre naturale, lo umilia pretendendo che egli sia diverso ed abbia prestazioni scolastiche e sociali migliori: la odia perché è troppo dipendente da lei e non riesce ad ottenere uno sguardo di ritorno che sia pari all'intensità delle sue attese. La odia perché lo ha adottato ed ha bisogno che ora stia ferma, immobile, che non fiati neppure, che non dica più le solite stronzate che dimostrano che non capisce niente, che è pazza, fissata, che forse lo vuole denunciare ai carabinieri e chiuderlo in Istituto. La odia perché lo minaccia di abbandono e lo mortifica solo aprendo la bocca, fiatando, entrando nella cameretta fingendo di interessarsi della biancheria ed invece viene a controllarlo perché non si fida, è una spiona senza diritto d'accesso. La ama però e vuole dormire con lei, ancora nel lettone, per sempre, quando il padre pallidissimo e disertore è anche geograficamente in altri luoghi. La madre mi mostra i lividi sul collo, sulle braccia e lui piangendo le urla che è tutta una messa in scena, che ha i capillari fragili, che la ha appena toccata. Aurelio la odia sempre: i suoi accessi di furore sono la secrezione irruente dell'odio cronico che l'accompagna tutti i giorni, che gli impedisce di imparare dall'esperienza e di individuarsi. Odia a nome di tutti i ragazzi adottati che giunti all'adolescenza sono costretti ad effettuare una complessa separazione da genitori usurpatori troppo buoni che è difficile far diventare cattivi: per ottenere lo scopo bisogna provocarli molto di più che se si fosse figli naturali. Aurelio odia la madre adottiva perché la ritiene responsabile dell'uccisione della madre naturale e la signora lo teme poiché sa che suo padre naturale era un uomo molto violento, forse all'ergastolo per omicidio. Se un giorno Aurelio serrerà la presa e soffocherà la madre adottiva non sarà per ucciderla, ma per placare l'odio che s'attizza in lui allorchè ella fiata, respira autonomamente invece che giacere impagliata nella sua poltrona davanti al televisore ed esserci senza guardare, ricattare, spiare, interessarsi ansiosamente di lui quasi lui fosse un ragazzo di cui diffidare o avere paura. Nelle sedute in cui è presente anche la madre, Aurelio la guarda mentre lei parla con calma raccontando eventi domestici di insolita violenza e io vorrei interrompere la seduta, separarli, evitare l'inevitabile: tutto quell'odio non può che comportare o che Aurelio si tappi le orecchie, cosa che a volte fa quando la signora prolunga troppo il resoconto delle malefatte, o che gli tappi la bocca, le impedisca di emettere assieme al fiato anche delle parole: Aurelio non vuole propriamente toglierle la vita, ma ha bisogno di devitalizzarla e tenerla vicina, ma ferma, muta, dominata, finalmente capace di ascolto silenzioso.

Anche Rosy, di sedici anni, frequenta il mio studio in questi giorni. Anche lei odia la madre, ma l'ha messa dentro il corpo, l'ha fatta diventare il suo stesso corpo. Rosy vive immersa nella madre, in contatto diretto, biologico con la madre. Ciò la fa molto soffrire poichè vorrebbe invece sentirsi libera e non dover più rispondere alle spropositate aspettative materne, un vero e proprio assedio, una tormenta di identificazioni proiettive che sono penetrate nella carne di Rosy che s'è trovata addosso un corpo che è il suo ma costruito attraverso una trasfusione di cellule materne dalle quali Rosy si sente assediata quasi fossero microbi o alieni che la parassitano per sopravvivere in attesa di papparsi anche il suo cervello e la sua identità. Non ho mai sentito e visto nessuna ragazza odiare il proprio corpo come riesce a fare con costanza e vera devozione Rosy. Lei va per le spicce; non fa come le coetanee che non gli danno più da mangiare e se ne liberano facendolo morire di fame pensando che il cibo rubato al corpo sia un alimento perfetto per la mente. Rosy taglia il proprio corpo, lo apre con la lama del temperino e guarda con odio eccitato il sangue che trasuda dai tagli fitti, paralleli, superficiali, dolorosi, destinati a lasciare cicatrici. Quando decide di tagliarsi non è arrabbiata, non è vittima di un trauma recente; si tratta invece dell'esecuzione di un rito a lungo meditato in un clima di odio feroce nei confronti del corpo-madre. Non apre il suo corpo, ma sfregia sua madre, la delude radicalmente, le conficca una lama nel cuore e si placa; per qualche giorno non odia più, si fa bella e le ci vuol poco e si lascia amare dal suo ragazzo ammutolito dagli sfregi che ogni tanto Rosy esibisce con assoluta nonchalance.

Marianna invece ha smesso da poco di lavorare con me, s'è presa una pausa di riflessione, ma sa che il nostro lavoro non è finito, che ci sono tante altre cosa che deve riuscire a capire, a mentalizzare come dicevamo tutti due divenuti quasi colleghi nel discutere del suo caso. Marianna odia invece suo fratello: lo odia e lo ama come solo nel vincolo fraterno si riesce a fare. Non si tratta di un odio occasionale, saltuario, accessuale, litigioso: Marianna lo odia sempre e vuole vendicarsi, perciò dedica alla rappresentazione delle cattiverie inflittele dal fratello e alle tragiche conseguenze che ha la sua tossicodipendenza sulla vita famigliare una enorme attività psichica e rappresentazionale. Qualche mese fa ha preso un bastone di ferro, s'è recata nella stanza del fratello addormentato e ha cominciato a sferrare mazzate violente; il fratello malconcio è riuscito a liberarsi e a denunciare ai genitori l'ennesima nefandezza commessa dalla sorella pazza divenuta ormai del tutto pericolosa. Marianna in realtà l'ha quasi ucciso nel sonno perché è troppo nostalgica del loro legame e non riesce a trasferire altrove l'erotismo che tuttora la lega al bel fratello incestuoso e narcisista. Quando riuscì a raccontarmi del gioco che facevano qualche anno fa, quando lei era in prima media e lui in quinta elementare non era alle prese né con sentimenti di colpa né di vergogna ma sperimentava una lancinante nostalgia ed era proprio l'intensità di questo sentimento che la faceva soffrire. Lei lo legava con una corda alla sedia della cameretta, lo denudava e lo "torturava", secondo la definizione che avevano concordato; in realtà la performance era di natura erotica ed il gioco aveva palesi intenti esplorativi, ma soprattutto esprimeva psicodrammaticamente importanti angosce di abbandono di Marianna e l'uso della relazione fraterna erotizzata come difesa nei confronti di una coppia genitoriale espulsiva. Marianna aveva cominciato ad odiare il fratello nel corso del nostro lavoro perché s'era resa conto di quanto fosse necessario rinunciare alla simbiosi con lui per accettare la sfida della crescita e come invece le risultasse difficile realizzare il progetto fino a che il fratello rimaneva così vicino a lei anche fisicamente, al di là del muro, nella cameretta vicina alla sua. Lo odiava ma aveva bisogno di lui che invece ora si interessava delle sostanza e dei loro stupidi effetti. Ad armare la mano di Marianna del bastone vendicativo fu quindi l'odio sovradeterminato e suscitato dalla commistione fra eventi recenti e antiche ripulse ancora oggi capaci di riattivare quantità ingravescenti di odio maligno, appunto funesto, come quello degli adolescenti dell'Iliade, avvinti da ambivalenti legami di odio e di reciproco bisogno di riconoscimento.

Anche Franco ha smesso da poco di frequentare il mio studio e penso che non lo rivedrò più poiché avevamo ambedue la certezza che il nostro lavoro avesse esaurito la sua carica propulsiva: lo rivedrò forse quando diverrà padre, ma non credo che prima di quell'appuntamento evolutivo sentirà il bisogno di venire a consultarsi con me. Franco aveva sfigurato la sua cubista perché era così bella e puttana che lo rendeva impotente nel mentre lo faceva diventare uomo e lo liberava dall'incantesimo di essere destinato a rimanere figlio per sempre. Danzava sul cubo nella discoteca, una terrificante danza dei sette veli per migliaia di ragazzi accaldati: Franco la amava ed anche lei lo amava ma lui non riusciva a possederla sessualmente e ciò aveva fatto maturare dentro di lui un odio crescente nel mentre s'addensavano i comportamenti sottomessi, compiacenti e servili finalizzati a documentarle l'amore che non riusciva ad esprimere entrando dentro di lei come un vero uomo e non limitandosi a guardarla pazzo di eccitamento come un bambino che non sa cos'altro si possa fare se non spiare in attesa degli eventi futuri. Un giorno lei lo tradì, nascondendosi dietro la colonna e baciando un ragazzo appena conosciuto ma che sapeva come si faceva a tirar giù dal cubo le danzatrici eccitanti. Franco la attese vicino al motorino e la colpì con un pugno sul naso: finirono al pronto soccorso in un finimondo di denunce reciproche, querele, genitori accaniti e confusi. Franco smise quella notte di odiarla e cominciò a liberarsi dalla dipendenza dall'odio che non aveva mai potuto sperimentare quando era più piccolo e la madre gli danzava attorno senza mai riuscire a trovare un momento per stare ad ascoltarlo, indaffarata com'era a fare carriera e a competere con gli uomini.

Giulio invece ha violentato Dolores, la ragazza che ama e che odia perché era certo che lo costringesse a continuare ad amarla e a starle vicino mentre lui voleva andare con gli amici in viaggio tutta l'estate, sul treno della notte e dei giorni, ma senza sentire il dolore della gelosia e la ferocia del bisogno del suo corpo eccitato e aperto. Giulio l'ha presa con la forza, una volta per tutte, quella decisiva, che lascia un segno ed annulla qualsiasi altra appartenenza successiva, mentre lei si divincolava e assisteva alla metamorfosi del suo ragazzone timido, impacciato e servile in un violentatore deciso a tutto, cattivo, violento, volgare nelle parole e nei gesti prepotenti e cattivi. Giulio ha tentato di separarsi dalla oceanica dipendenza da Dolores usando una sessualità penetrante, alimentata dall'odio per il suo esagerato potere di tenerlo sequestrato vivo nella cameretta, a non fare nulla, annoiandosi in attesa del mesto giro delle strade del centro in cerca di amici e di stolidi rispecchiamenti sociali. Dolores lo licenziò e non lo volle più vedere per qualche tempo, ma poco prima della partenza del treno della libertà gli scrisse un messaggino enigmatico sul telefono portatile e lui sentì che non sarebbe sopravissuto se alla fine della vacanza lei gli avesse confermato che aveva fatto l'amore con un altro ragazzo e decise di continuare a fare la guardia del corpo di Dolores, odiatissima secondina che lo accompagnò a salutare gli amici beffardi che partivano verso l'avventura ed il viaggio iniziatico lasciando in ostaggio Giulio della bella Dolores, significante di tutte le donne che sequestrano i ragazzi finalmente liberi dalla schiavitù esercitata dalla prima donna della loro vita: la madre della loro infanzia e tutti i suoi significanti, professoresse della scuola comprese.

Tutti questi ragazzi hanno esercitato violenza nei confronti di uno dei loro oggetti d'amore, generalmente quello al primo posto della hit degli oggetti vecchi e nuovi. L'hanno fatto perché lo odiavano da tempo, con ardore e grandissima concentrazione, proporzionale alla profondità della loro dipendenza, al bisogno di ottenere l'agognato ed improponibile riconoscimento, alla gravita della manomissione di ciò che vivono come un diritto di base, una condizione ineludibile per accettare di distrarsi dal desiderio di vendetta e concentrarsi invece sulla questione improrogabile dell'amore. Odiavano perché ritenevano di essere stati e di essere tuttora gravemente perseguitati da qualche caratteristica dell'oggetto d'amore ma principalmente d'odio.

Questa naturalmente è una questione di rilevante importanza, ma non me la sento di interloquire a livello metapsicologico. Vorrei solo riferire che nel lavoro clinico con gli adolescenti mi sembra che l'ipotesi sostenuta dal loro ruolo affettivo è che l'odio sia figlio della delusione amorosa, del voltafaccia, del tradimento, della inopinata cattiveria profonda ed incomprensibile di chi dovrebbe amare diversamente ed invece si ostina a farlo in modo equivoco, spesso incomprensibile, quasi sempre controproducente rispetto al fine di rendere felice il destinatario dei comportamenti che dovrebbero essere amorosi e che invece si rivelano offensivi, incuranti dei bisogni profondi e legittimi, e alla fine del tutto persecutori. L'odio, in base alle testimonianze degli adolescenti che lo vivono apertamente, a carte scoperte e che sono al corrente della loro sofferta ambivalenza, sarebbe secondario al maltrattamento amoroso e non un affetto primario, un derivato dell'aggressività in più che debbono imparare a gestire data l'età che hanno: non sarebbe un derivato dell'invidia o dell'istinto di morte. Secondo loro, all'età che hanno e con tutti i grattacapi che debbono risolvere, l'odio che li soverchia è una conseguenza dell'attacco inflitto dall'oggetto d'amore: proprio per questo esso esprime una forte dipendenza e un abissale bisogno di riconoscimento. Lavorando con loro, in quasi tutti i casi mi è sembrato di intravedere nella loro preistoria amorosa un attaccamento parecchio insicuro e delle relazioni oggettuali alquanto incostanti. In alcuni casi sono anch'io certo che la loro infanzia sia stata caratterizzata dall'appartenenza ad una rete di relazioni violente, a volte intrinsecamente abusanti o del tutto incuranti dell'effetto sulla mente infantile dell'esibizione della violenza e della sessualità adulta. Propendo perciò per l'ipotesi che l'odio, in quanto affetto stabile e grande organizzatore di rappresentazioni e di miti affettivi, non sia primario e non sia figlio dell'incremento pulsionale che caratterizza l'adolescenza: non sono però abilitato ad esercizi metapsicologici o a supportare una metafora o l'altra concernenti il narcisismo e il suo statuto. Ho però l'impressione che per i soggetti adolescenti non sia affatto una scorciatoia quella di fare i conti con l'oggettiva quantità di persecuzione che proviene dagli oggetti narcisisticamente superinvestiti: mi sembra al contrario che quelli fra loro, i più cattivi di tutti, che sostengono che non possono farci nulla perché sono aggressivi di natura e hanno dentro di loro una forza distruttiva che ogni tanto irrompe in gesta violente e crudeli, se la cavino a buon mercato attribuendo alla natura ciò che farebbero molta più fatica a mettere in conto alla cultura, cioè alla storia delle relazioni, a ciò che è successo con i loro genitori, al loro comportamento non propriamente educativo, spesso al contrario invischiante, espulsivo, incostante, eccitante e a volte seduttivo ed abusante. E' proprio con questi ragazzi seguaci della teoria degli istinti, dell'invidia, dell'istinto di morte che il lavoro clinico è più complesso poiché sono disposti a finire sul rogo piuttosto che abiurare la loro concezione metapsicologica che si fonda sull'innocentizzazione dei genitori maltrattanti attraverso la radicale identificazione con le loro ragioni ed il loro destino identificatorio e sociale.


ODIO E COMPITI EVOLUTIVI ADOLESCENZIALI

Vorrei ora riferire come mi sembra che cerchino di crescere i ragazzi che odiano la mamma, o il papà, o la professoressa, o il corpo, o la fidanzata, il fidanzato, l'autorità, la società, la religione, la scuola, la conoscenza o tutto ciò che riesca ad attirare i loro affetti e coinvolgerli, a suscitare la fantasia di una possibile dipendenza, la tentazione di appoggiarsi solo per un po', una piccola sosta nel viaggio doloroso verso il giorno della vendetta. L'odio complica molto le già perigliose vicende evolutive adolescenziali, però ritengo che strutturalmente l'odio sia un affetto tipicamente adolescenziale e che l'adolescenza serva proprio a realizzare questo obiettivo evolutivo, ad imparare ad odiare bene, senza distrazioni e cedimenti, senza per questo smettere di amare, anzi traendone ulteriori motivazioni, imparando a tollerare, a gestire, a riconoscere l'ambivalenza, la rabbia, il dolore, quindi la persecuzione inscritta nell'amore e nella dipendenza da un oggetto finalmente investito e che si rischia ogni giorno di distruggere, annichilire, avvilire e far tacere per sempre. I bambini hanno altro da fare che imparare ad odiare; prima devono imparare ad amare o a simulare grandi amori con quel che rimane del loro vero Sé. Gli adolescenti invece debbono imparare ad odiare, a vivere intensamente l'odio; alcuni di loro ne vengono disarcionati e commettono imprese antisociali, odiano tutti a tempo pieno e perciò vanno ad ingrossare le schiere dei soggetti antisociali; altri non eseguono il compito, fingono di nulla, non odiano nessuno, continuano a rimanere dei bambini schiavi e finiscono altrettanto male dei primi, cioè divengono delle persone normali; la maggior parte dei ragazzi impara ad odiare e quindi da grandi sapranno amare e farsi amare al massimo delle loro capacità e della fortuna che nelle faccende amorose, non sembra, ma conta parecchio. Ricordo una ragazza al suo ingresso in una comunità di accoglienza per adolescenti: le va incontro l'educatrice incaricata di accoglierla, le due sembra che s'intendano, la ragazzina appare soddisfatta di ciò che il nuovo ambiente le riserva, ripongono i pochi oggetti con cui era arrivata e al momento del commiato questa ragazza prende la mira e dà uno schiaffone potente sulla guancia dell'educatrice esterrefatta. Un anno dopo questa ragazza disse all'educatrice: "T'ho dato uno schiaffo perché sapevo che ti avrei amata". Fanno così i ragazzi che sono costretti ad odiare: prendono a schiaffi in modo mirato gli oggetti più minacciosi, quelli che li attirano, quelli che potrebbero amare: li odiano ancor prima di accorgersi che li amano. La stessa ragazza dello schiaffo se fosse giunta in comunità da bambina si sarebbe messa in braccio all'educatrice e non l'avrebbe più lasciata neanche respirare. Da adolescente le toglie il respiro lo stesso, ma con la violenza imprevedibile dello schiaffo di difesa e presentazione del problema che si dovrà affrontare. I ragazzi che non riescono ad entrare in contatto con l'odio che suscita in loro la relazione con l'oggetto d'amore non li incontriamo durante la loro adolescenza, ma dopo, poiché sono destinati a diventare i nostro rari clienti, quelli nevrotici, edipicamente dominati dal padre o dalla madre, i falsissimi Sé, i come se, i perversi di ritorno, cioè quelli che se ne accorgono da grandi di aver mentito durante l'adolescenza e si rifanno del tempo perduto combinando danni e delitti, oppure vivendo nella rete di Internet ove si illudono di poter essere finalmente odiosi senza rischiare di perdere la partita, tanto nella rete quelli più sfacciati vanno per la maggiore. Quelli che invece eseguono il compito dimostrano come l'odio, in quanto affetto stabile e non emozione momentanea, fugace e puntiforme come la rabbia e le sue crisi che durano come un temporalone estivo e poi torna il buon umore, sia in realtà un affetto necessario alla realizzazione piena dei compiti evolutivi. Ne propongo una rapida rassegna che per apparire plausibile avrebbe bisogno di essere documentata da ben altri riflessioni ed amplissimo materiale clinico, ma che ha la funzione di intercettare la specificità adolescenziale del tema dell'odio e del suo epifenomeno, cioè la violenza nei confronti dell'oggetto d'amore.
Ho incontrato adolescenti di quindici, sedici anni che usavano la costanza micidiale del loro odio per ottenere a sprazzi la visione di rappresentazioni fugaci ma esaltanti del loro vero Sé, o come si voglia definire quel particolare sentimento di veridicità affettiva che a tratti caratterizza la rappresentazione di Sè in adolescenza nel mentre si dipana la relazione significativa. L'odio che sperimentavano nei confronti dell'oggetto che avrebbero voluto e dovuto amare appariva loro più sincero di qualsiasi altro evento psichico, appariva come una verità irriducibile ed era con un sentimento di responsabilità etica nei confronti della nuova verità affettiva che odiavano ancor di più, come si trattasse di adempiere ad un dovere necessario per diventare grandi e smetterla di fare i bambini e raccontarsi frottole. Non mi sembrava che esagerassero: facevano il loro mestiere di adolescenti accaniti ricercatori di verità interiori ed esageravano solo di poco l'importanza della recente scoperta di quanto fosse denso l'odio che impastava la relazione d'amore e di dipendenza con uno dei due genitori o con il coetaneo o la coetanea eccitante e frustrante. Alcuni di loro, figli di genitori separati decisero di essere coerenti e di licenziare in tronco uno dei due contendenti rifiutandosi di collaborare a incontri o a convivenze fino ad allora infantilmente subite, dichiarando almeno a me che avevano assunto una posizione simbolicamente parricida o matricida perché avevano scoperto di odiare troppo per perdonare e non volersi vendicare alzando a dismisura il prezzo del gesto pacificatorio e consolatorio.
Ho incontrato adolescenti di più o meno sedici anni che odiavano le regole, l'autorità, il limite, gli orari, il codice stradale ed erano disposti a farsi massacrare dagli adulti pur di disobbedire con accanimento masochistico. Erano ragazzi che avevano incominciato ad odiare ciò che noi sbrigativamente da cent'anni chiamiamo il Super-Io e che, a mio avviso, non facevano altro che esasperare le tinte di uno dei tanti melodrammi adolescenziali: la devastazione del Super-Io legata alla scoperta dei suoi imbrogli e alla necessità di dare molto più spazio mentale all'Ideale dell'Io che durante l'infanzia aveva dovuto entrare in clandestinità perché troppo esile per battersi con il potere del Super-Io. Erano ragazzi che compivano imprese violente, esibite come trofei nel rodeo metropolitano dei motorini truccati, cioè liberati dal Super-Io e restituiti alla loro reale e originaria potenza e velocità. Odiavano la stupidità delle regole degli adulti ed erano disposti a farsi massacrare dai regolamenti e dalle tradizioni scolastiche pur di far venire, grazie al loro esempio, un sospetto anche agli altri coetanei che sia da coglioni sedersi tutte le mattine al medesimo posto: chi l'ha detto, ma chi l'ha detto, che senso ha? Attaccavano anche me, e tutti gli aspetti superegoici del setting, esprimendo un odio sistematico e intelligente nei confronti di abitudini di cui anch'io finivo per scoprire l'intenzione che era palesemente quella di difendere i miei interessi più che di fare i loro e allora perché loro avrebbero dovuto accettare un contratto tanto svantaggioso e asimmetrico? Mi sono perciò chiesto se si possa mettere in conto all'odio anche la funzione sostanzialmente evolutiva di mettere in mora il dettato degli aspetti più repressivi e sessuofobici del SuperIo della fase di latenza, lasciando parlare il quale non vi sarebbe grande spazio di manovra per la sessualità adolescenziale e neppure per la realizzazione in tempi decenti del processo di separazione ed individuazione. Non tutti gli adolescenti odiano il loro Super-Io: solo alcuni, pochi direi, almeno negli ultimi anni, ma ce ne sono ancora alcuni che è meglio lo facciano, anche se corrono qualche rischio, a volte forse maggiore di quello che correrebbero pazientando un po' e trattando invece che cercando di imporre con le cattive maniere un nuovo regolamento, meno stupido e perciò più funzionale alla crescita.
L'odio per il SuperIo e le imprese spesso violente che ne conseguono sospingono gli adolescenti che ne siano preda ad associarsi fra loro ed elaborare nuovi valori, alternativi a quelli odiatissimi che continuano ad allignare negli strati più profondi della loro mente. Ciò favorisce la nascita di gruppi-banda con più o meno espliciti intenti antisociali e comportamenti che lambiscono l'area dell'illegalità. Non sempre i ragazzi si vanno a cacciare in questi tipi di guai: più spesso si limitano a trovare nella complicità del gruppo un valido sostegno alla elaborazione del sentimento di colpa scatenato dai colpi di coda del Super-Io agonizzante ma ancora capace di svegliare nel cuore della notte e chiedere conto della proprie malefatte. L'importante in questo caso è non sentirsi solo ma in buonissima e scelta compagnia: la banda è la tutela più efficace nei confronti dei sentimenti di colpa.
E' spesso figlia dell'odio anche la determinazione con la quale gli adolescenti con i quali ho lavorato adorano i loro idoli. Adorano e sono devoti agli idoli, ne seguono le tracce informatiche e le piste biografiche grazie ad un'emorragia di idealizzazioni e proiezioni alluvionali, ma anche perché la colonna sonora intonata dall'idolo è l'opposto del coro del Super-Io: gli idoli che ho avuto occasione di studiare assieme al loro seguace avevano quasi sempre delle caratteristiche a noi già note in quanto speculari a quelle del genitore disturbante e, in quella fase del percorso evolutivo, odiatissimo.
E' comunque vero che la dimensione dell'odio viene scoperta dall'adolescente nell'inferno delle prime relazioni amorose allorché viene sorpreso dall'intensità della propria ambivalenza e dal movimento ondivago dei propri investimenti affettivi; ma del desiderio di vendetta che fa seguito alla delusione amorosa o che protegge dal successo parlerò successivamente. Per il momento mi sembra utile sottolineare come l'odio possa avere delle caratteristiche specificamente adolescenziali e quanto possa essere perciò utile studiare le funzioni che svolge al servizio del percorso di crescita. Nel lavoro clinico con adolescenti in crisi non mi sembra infrequente che l'odio appaia come l'ariete che apre la strada alla marcia verso la superficie del vero Sé che ha bisogno di un profeta che ne annunci l'avvento. L'odio si presta ad aprire la strada ai primi vagiti sociale e familiari del vero Sé poiché certi contenuti gli adolescenti possono declamarli solo alzando molto la voce e appoggiandosi ad un affetto forte e sicuro come l'odio: poi sopraggiunge l'amore, non sempre, solo nei casi fortunati, gli altri continuano ad odiare ed il vero Sé non viene mai alla luce ed è tutto tempo perso quello consumato a mettere zitti gli altri se non si ha poi nulla da dire.

Purtroppo l'odio è un affetto con tendenze egemoni e tende a polarizzare la vita affettiva ed inoltre ha una naturale propensione ad assumere in modo autocratico la regia dei comportamenti e il meccanismo di produzione delle rappresentazioni mentali. L'odio riesce a perseguire le proprie mire colonialiste nei confronti degli altri affetti e dei diversi miti che le altre strutture psichiche propongono in quanto dispone di un rappresentante molto persuasivo dotato di una straordinaria abilità nel chiedere che gli venga lasciato solo temporaneamente in mano il timone delle scelte operative per poi tenerselo stretto a tempo indeterminato: esso è il desiderio di vendetta, anzi, credo sia più pertinente definirlo il "progetto vendicativo". Se è vero che l'odio è figlio del trauma inflitto dall'oggetto d'amore del cui rifornimento narcisistico si ha ancora sconfinato bisogno, il progetto vendicativo rappresenta il tentativo di mettere a regime il doloroso ribollire dell'odio incanalandolo verso l'universo rappresentazionale e il mondo cognitivo, offrendogli anche dei bersagli a volte pienamente coincidenti con l'oggetto traumatizzante, a volte molto somiglianti, a volte sfacciatamente simili tanto da non valere neppure la pena di prendersi la briga di annunciare che si tratta di uno scambio di persona o di una paradossale omonimia.
La responsabilità del blocco della crescita o dell'accumulo di pericolosi ritardi evolutivi o di scacchi parziali nella realizzazione dei compiti di sviluppo dipende dal fatto che il progetto vendicativo costringe a rinviare la conquista di livelli maggiori di autonomia invitando al contrario a permanere nell'area delle vecchie relazioni proprio per realizzare l'obiettivo primario del castigo: saldare i conti comporta sempre un rinvio pericoloso e la malignità dell'odio, la sua vischiosità e la sua prepotenza inducono a rinviare la nascita di nuovi rapporti e nuovissime dipendenze se prima non si sono saldati i conti. Credo che tutti coloro che lavorano clinicamente con adolescenti abbiano agghiaccianti testimonianze di come l'odio per la madre o il padre sia il principale responsabile di prolungate occupazioni sadomasochistiche dello spazio domestico e il motivo cruciale in base al quale alcuni adolescenti decidono di rimanere figli per sempre, per meglio punire, castigare, insomma per vendicarsi fino in fondo, cioè fino alla morte, spesso non solo simbolica dell'avversario troppo amato ed odiato per provare interesse per altre relazioni all'acqua di rose.
Inoltre l'odio allorché individua finalmente il proprio bersaglio principale stabilisce una relazione di straordinario accanimento, molto simile in questo alla passione amorosa, e non si distrae facilmente suggerendo al contrario la rappresentazione che il lavoro di distruzione non è ancora del tutto finito e che i nemici tramano ancora nell'ombra e che sotto le ceneri cova ancora qualcosa di estremamente pericoloso. Lo si vede chiaramente nella vita dei ragazzi antisociali, ribelli sfegatati, o in quelli travestiti da rappresentanti di qualche ideologia pacifista o razzista o ecologista, come l'annientamento dei valori precedenti, generalmente di pretta marca superegoica, non consenta di prendersi delle vacanze e costringano ad una lotta senza quartiere il cui termine appare quanto meno aleatorio.
Il progetto vendicativo fa far tardi, non c'è dubbio; se la vendetta non viene consumata in tempi ragionevoli, miniaturizzandola, simbolizzandola o comprendendo che il modo migliore di vendicarsi è entrare nel mondo della pietas, trasformando i propri avversari, meritevoli di tortura e castighi, in oggetti di cui prendersi cura dato il loro evidente stato di incapacità di capire e tener dietro al ritmo della crescita e delle scoperte, gli adolescenti accumulano ritardi evolutivi massicci e la loro crescita risulta gravemente disarmonica. Ho conosciuto alcuni adolescenti talmente occupati a ruminare e a perfezionare il loro progetto vendicativo che s'erano dimenticati di mentalizzare la loro nuova e sgargiante corporeità sessuata e generativa, dimodochè il loro sentimento di realtà faceva acqua da tutte le parti. Altri ragazzi mi sembrava che utilizzassero la loro identità di genere, alla quale erano costretti a prestare un minimo di attenzione, in modo totalmente paranoico, cioè come fosse la nuova arma totale da utilizzare contro il nemico principale e consumare finalmente la vendetta a lungo ruminata in fantasie solitarie: ragazzine travestite da amazzoni vendicative che impugnavano la loro fiammante femminilità come uno strumento di guerra contro la madre, a volte contro il padre, o contro i maschi, o contro il SuperIo, comunque non per stringere vincoli e conquistare il piacere amoroso ma per consumare l'orgia della vendetta che col piacere sessuale raramente ha qualcosa a che vedere. Maschi travestiti da maschi, anche loro convinti che l'ingresso a pieno titolo nei nuovo valori dell'identità virile li avesse finalmente dotati dell'arma totale per potersi finalmente meglio vendicare; protervi, supponenti, sfidanti ragazzacci troppo odiosi per poter essere amati: tutto tempo perso.


CONTROTRANSFERT DELL'ADULTO DI FORMAZIONE ANALITICA

Sono convinto che nelle esperienze di consultazione o di psicoterapia breve con adolescenti in crisi, che sono quelle da me praticate con maggiore frequenza e più elevata motivazione professionale, il controtransfert comprenda anche complessi fenomeni di mobilitazione di rappresentazioni e di metafore culturali pertinenti all'area del nostro mestiere. Ho anzi l'impressione che l'adolescenza sia una fase evolutiva caratterizzata da movimenti particolarmente adatti a mobilitare nuovi modelli di ascolto e capaci di stimolare la formulazioni di nuove metafore relative al funzionamento dell'apparato psichico. Penso perciò che si debba, come d'altra parte è previsto dal nostro regolamento interno, porsi in ascolto di questo segmento di fenomeni controtransferali che definirei "culturali" perché, abbandonati ai loro automatismi interni possono renderci sordi e muti, mentre se ascoltati e padroneggiati possono essere di grande aiuto a dare senso a ciò che caratterizza lo statuto interno delle problematiche adolescenziali. Ma è sicuramente il caso di fare degli esempi molto semplici affinché questa ovvia considerazione divenga finalmente intellegibile.
Lavorando con adolescenti innamorati, stravolti dall'imprevista intensità delle crisi di rabbia che il comportamento del loro oggetto d'amore ogni tanto promuove, la metafora che immediatamente si affaccia alla mia mente e che organizza il mio ascolto intenzionato ad organizzare una decorosa donazione di senso agli avvenimenti in corso consiste nell'ipotesi che sia proprio la caratteristica strepitosamente positiva dell'oggetto ciò che promuove l'odio nei suoi confronti, la sua insostenibile bellezza, il suo splendore, l'intensità dell'emozione estetica e della commozione che riesce a suscitare. In pratica l'ipotesi che si fa avanti per prima è che l'adolescente in quanto debuttante nella vita amorosa all'esterno della famiglia, si senta minacciato dallo splendore del suo oggetto d'amore perché ancora troppo fragile da un punto di vista narcisistico e che da ciò derivi la sua rabbia prima e il suo odio successivamente, finalizzati ad attaccare l'insostenibile splendore dell'oggetto che lo rende goffo e meschino. Si tratta di una rappresentazione forse in qualche caso plausibile, ma che comunque sgorga spontanea e perentoria dall'archivio delle metafore psicoanalitiche immagazzinate nella mia memoria rigida e che è sicuramente prudente prendere con le molle e verificare se sia davvero capace di render conto dell'intensità dell'odio e del rischio di violenza che il comportamento dell'oggetto d'amore e il suo intrinseco statuto sono in grado di attizzare nel mio giovanissimo interlocutore alle prese con i complessi fenomeni psichici che sciamano attorno e attraversano l'area della passione amorosa.
Nel corso del tempo ho più volte dovuto riconoscere che la mia era un'ipotesi ideologica e stereotipa facente parte della malevolenza con la quale la cultura degli adulti interpreta il significato dei comportamenti e delle esperienze psichiche degli adolescenti. In molti casi il mio interlocutore aveva ragione: il comportamento del suo oggetto d'amore era davvero pericoloso per la sua sopravvivenza simbolica e lo minacciava dopo averlo sedotto e attratto in un trabocchetto micidiale. Non era il suo splendore ma la sua inopinata meschinità, incapacità di identificarsi e quindi di amare, o almeno di lasciarsi amare, la causa della rabbia e dell'odio che il mio giovanissimo cliente sperimentava. L'errore l'aveva commesso prima, non ora, allorché aveva avuto bisogno di costruire, per consolarsi, un oggetto idealizzato; ora stava solo facendo tristemente e rabbiosamente i conti con la delusione e con lo sviluppo dell'odio che può cominciare a scavare la sua lunga galleria se il bisogno dell'oggetto eccitante e frustrante è talmente elevato e sovradeterminato da rendere impossibile una separazione senza rimpianti. La mia ipotesi che l'oggetto sia troppo splendido per il mio fragile ed inesperto debuttante non è sempre fondata. In alcuni casi senz'altro si, ma nella maggior parte degli altri casi il vero problema è che l'oggetto d'amore ha degli aspetto rivoltanti, visti dalla parte di chi ama, ed il vero problema non è riuscire a tollerare la bellezza, la bontà e la generosità, ma le nefandezze che vengono commesse nella contrattazione amorosa da ambedue i debuttanti, non ancora avvezzi al necessario cinismo che deve obbligatoriamente sostenere nei patteggiamenti amorosi, nel corso dei quali riuscire ad accontentarsi e smetterla di pretendere tutto è già una buona partenza.
Lo specifico della contrattazione amorosa adolescenziale a ben pensarci, al di là degli automatismi controtransferali, è rappresentato dalla difficoltà a governare la rabbia e la delusione per gli attacchi che inesorabilmente l'oggetto d'amore porta al suo devoto adoratore. E' ovvio sia così ed è naturalissimo che i ragazzi siano egoisti e a volte molto cattivi al loro debutto della vita amorosa e che perciò possano reciprocamente farsi del male e prodursi traumi anche rilevanti senza rendersene assolutamente conto. Da quando ho preso atto che il mio controtransfert culturale nei confronti dell'odio suscitato dall'oggetto d'amore è l'espressione sia della mia invidia adulta nei confronti degli amori adolescenziali dai quali sono deontologicamente escluso, sia il tentativo di salvare la relazione nascente del mio recalcitrante cliente mi sembra di essere divenuto più utile nel tentativo di aiutare a rappresentarsi la più profonda natura degli eventi in corso.
L'odio nasce dal trauma, non dall'invidia, questo è il vero problema ed è per questo che è molto periglioso aiutare i ragazzi a capire quale possa essere una soluzione evolutiva ad un problema che ha delle eco inquietanti. Vengono da lontano la permalosità e la rabbia per il maltrattamento amoroso, solo che negli anni precedenti la regola era di non prenderne atto e tenere tutta la vicenda molto riservata, mentre ora la scommessa evolutiva consiste nello sperimentare e nell'esprimere prevalentemente la rabbia e l'odio più ancora che l'amore e la tenerezza; ciò fa si che i ragazzi innamorati passino più tempo a litigare con passione che nel conversare amoroso.

Un'altra metafora che sopraggiunge nel mio schermo rappresentazionale controtransferale quando ascolto le peripezie degli adolescenti innamorati e folli di odio per i torti ed i soprusi subiti da parte del loro splendido oggetto d'amore è che si difendano dall'avanzata dell'oggetto d'amore perché sentono che la sua egemonia minaccia il processo di soggettivazione rischiando di risucchiarli nuovamente in una relazione di coppia che ha inesorabili caratteristiche fusionali. In alcuni casi ed in certe specifiche evenienze ciò può davvero essere l'organizzatore centrale e profondo della vicenda dell'odio nei confronti del nuovissimo oggetto d'amore: la minaccia sarebbe davvero micidiale e giustificherebbe un contrattacco deciso. Ma è davvero così che si svolgono i fatti? Secondo testimonianze inoppugnabili raccolte negli ultimi anni non mi sembra affatto. Secondo me è vero il contrario: i ragazzi si arrabbiano ed avviano i meccanismi dell'odio che li condurrà alla violenza allorché l'oggetto si rifiuta di aiutarli a soggettivarsi. Sia i maschi che le femmine hanno in mente il proposito di utilizzare la coppia amorosa proprio per realizzare l'interesse privato di accelerare il loro interiore processo di soggettivazione o individuazione rispetto alla rete delle relazioni originarie: il loro partner può assecondare il progetto o invece ostacolarlo consapevolmente o inconsapevolmente e contribuire alla reinfetazione familiare del neonato sociale ed amoroso. Ciò può avvenire attraverso manipolazioni complesse per altro ampiamente approvate dall'attuale galateo amoroso della coppia adolescenziale; una delle più insidiose è la progressiva familiarizzazione della coppia neoformata e la sua inscrizione all'interno della rete delle relazioni familiari con possibili effetti di amplificazione delle irrisolte dipendenze infantili capacissime di risucchiare anche la coppia amorosa in riti e ritmi controevolutivi.
L'odio nei confronti dell'oggetto d'amore che si dimostra incapace di assolvere il proprio compito di aiutare ad individuarsi può essere molto violento anche perché potenziato dalla percezione del tempo perduto ad aspettare che maturi il momento propizio per sfilarsi dalla rete delle relazioni infantili spalleggiato dal coetaneo complice interessato ad essere aiutato a realizzare il medesimo obiettivo.
Il mio controtransfert culturale penso sia attivato dalla specificità delle rappresentazioni del mio ruolo adulto che guarda alla ritrosia amorosa del soggetto adolescente come ad un fuga dalle responsabilità della vita di coppia e dalla mia focosa motivazione professionale favorevolissima alla realizzazione dei processi di soggettivazione.
Invece la sostanza della vicenda è diversa; l'odio amoroso adolescenziale nasce dalla delusione di chi s'aspettava fossero finalmente venuti a liberarlo dal campo di concentramento per bambini scemi ove l'avevano rinchiuso appena nato e quindi indebolito e reso complice dei suoi sequestratori, ed invece s'accorge che la grande speranza è una truffa, si tratta di un banale trasferimento da un campo di concentramento ad un altro; non cambia nulla, dalla padella direttamente sulla brace di una noia ancor più mortale e soffocante con richieste di sottomissione più sceme di quelle del primo campo. Anche in questo caso l'odio nasce dal trauma, dalla violenza che subisce il soggetto che s'era illuso che l'oggetto fosse sopraggiunto per liberarlo e s'accorge che la nuova dipendenza è ancor più feroce della prima poiché da essa trae alimento e motivazioni segrete.
Certe imprese violente dei ragazzi innamorati, ma, come vedremo anche delle ragazze, si possono comprendere solo come castigo nei confronti di chi non ha fatto il proprio dovere liberamente concertato; cioè non ha portato affettivamente e perché no anche logisticamente lontano ed in salvo dalla originaria nicchia affettiva ma anzi ha provveduto a rinsaldare i vincoli venendosi anche lui ad indovare al suo interno per godere parassitariamente di un'altra famiglia illusoriamente migliore della propria.


ODIO E IDENTITA' DI GENERE

Nella lotta mortale fra i sessi, maschi e femmine utilizzano strumenti diversi a volte per perseguire obiettivi simili a volte per raggiungere risultati contrapposti. Provo perciò a sintetizzare alcune caratteristiche salienti delle diverse modalità di utilizzare la violenza in amore da parte di adolescenti femmine rispetto ai maschi e alle diverse interpretazione dell'affetto dell'odio e delle pratiche diversificate attraverso le quali si esprimono i profondi progetti vendicativi nei due generi, quello maschile e quello femminile.

La violenza femminile nei confronti dell'oggetto d'amore:
Le ragazze hanno come mira di fare impazzire i ragazzi che amano, cioè di farli soffrire mentalmente: i ragazzi invece non mi sembra che vogliano fare impazzire le ragazze, anche se a volte è proprio questo l'effetto che ottengono attraverso i loro comportamenti amorosi.

Una delle fonti principali di odio e di desiderio di vendetta nelle ragazze innamorate deriva dall'angoscia fase specifica di non essere in grado di portare con sé il ragazzo che piace, di non avere la competenza adeguata per riuscire a sedurlo, a vincolarlo, a fidelizzarlo, a contenerlo all'interno della relazione, rendendola esclusiva dal punto di vista sessuale e in grado di stabilizzarsi nel tempo. Le adolescenti femmine avvertono in modo preciso e prepotente l'urgenza di darsi dimostrazione di aver sviluppato in base all'esercizio o di essere naturalmente dotate del necessario talento per realizzare l'obiettivo del contenimento del ragazzo all'interno dello spazio mentale e sessuale delle coppia neoformata. Attorno alle problematiche connesse al perseguimento di questo fine fase specifico e che costituisce uno dei mattoni su cui poggia la percezione del valore della propria femminilità, si agitano intense preoccupazioni e rilevanti quantità di angoscia. In generale mi sembra si possa dire che le adolescenti non siano propriamente gelose, cioè timorose di perdere la lotta con le altre femmine per la conquista del maschio più attraente, bensì mi sembra che abbiano il timore di non riuscire ad essere sufficientemente attraenti in grado cioè di essere potenti nei confronti dei maschi non tanto nei confronti delle altre femmine. Ciò le induce ad istituirsi come puntigliose verificatrici del livello di calore, appartenenza, fedeltà, accomunamento e stabilità raggiunto dalla coppia, sollecitando il partner maschio a dare convincenti dimostrazioni di voler partecipare alla costruzione e stabilizzazione della coppia. Allorché la adolescente femmina non riesca a collezionare indizi convincenti che i vissuti del partner siano allineati alle sue imprescindibili aspettative decolla il vissuto dell'attacco al vincolo e si dipana la fenomenologia adolescenziale femminile innescata dalla angoscia di abbandono che viene profondamente vissuta come mortificante lesione narcisistica in quanto documenta l'inettitudine a creare le precondizioni per l'innesco del progetto generativo: se la giovanissima femmina perde i ragazzi che desidera la ferita narcisistica non riguarda solo i valori della femminilità ma soprattutto quelli della futura ed inconsapevole maternità già protesa a cercare conferme del proprio talento nel mettere le premesse per creare la tana per la nascita e il primo sviluppo del cucciolo. S'avverano in questo caso le premesse per lo sviluppo di un importante sentimento di minaccia proveniente dall'oggetto d'amore che viene accusato di simulare i comportamenti di attaccamento mentre in cuor suo è lontano e per nulla vincolato, ma è anzi libero, distratto e forse inconsapevolmente intenzionato ad abbandonare il progetto e recarsi altrove. Il sentimento di minaccia aumenta la percezione della dipendenza e l'angoscia di perdita: nello sfondo a piangere sulla morte imminente del progetto di coppia è più la componente materna che quella femminile dell'adolescente ed è proprio la mobilitazione delle motivazioni generative a fomentare l'odio e i desiderio di vendetta nei confronti del maschio che minaccia di morte il progetto di coppia e che continua a mentire e a declamare le proprie poco credibili buone intenzioni. Il progetto vendicativo generalmente si esprime attraverso violente e drammatiche ritualizzazioni dell' "abbandono" e feroci provocazioni mediate da vistosi processi di identificazione con l'aggressore che generalmente orientano ad abbandonare per prevenire di subire passivamente l'abbandono ormai ritenuto ineluttabile. Questa procedura solitamente comporta livelli elevati di violenza verbale ed anche fisica a documentazione che la rottura della coppia amorosa coinvolge sempre un livello di funzionamento mentale di indole simbiotica che inevitabilmente produce, negli adulti, comportamenti vandalicamente sadomasochistici.

L'odio dell'adolescente femmina inscritta nella contrattazione finalizzata alla fondazione della coppia amorosa oltre che dall'angoscia persecutoria dovuta alla implicita minaccia di abbandono può derivare da un precedente ed infantile conto in sospeso da saldare con il desiderio del maschio. L'adolescente femmina ora dispone dell'arma totale, cioè di una corporeità erotica che la mette in condizioni ben diverse rispetto alla passività disarmata della condizione infantile, profittando della quale il desiderio sessuale del maschio l'ha molestata in un clima relazionale di scissione e parziale inconsapevolezza.
Com'è noto la vendetta delle adolescenti femmine tende ad utilizzare il canale della corporeità e della sessualità: se ci sono dei vecchi conti da saldare i maschi picchiano, le femmine scopano. In realtà le adolescenti che odiano il desiderio sessuale del maschio non scopano affatto ma fanno tutti i preparativi generalmente previsti per farlo; eccitano il desiderio del maschio che odiano e poi lo piantano in asso somministrandogli la violenta e confusiva castrazione del voltafaccia di cui sono acrobatiche dispensatrici le adolescenti schiettamente isteriche, ma non è obbligatorio esserlo sempre, si può esserlo anche saltuariamente ed in modo mirato, ad esempio solo con quel campione di maschi che a causa della loro somiglianza con quello testa di serie, lo meritino, anche se si tratta di vistosi e per certi versi ingiusti scambi di persona.
La violenza adolescenziale femminile può anche saltuariamente esprimersi attraverso l'uso della forza fisica e la manipolazione violenta del corpo della vittima, più spesso a me sembra però che si esprima attraverso la somministrazione di comportamenti ed esperienze relazionali finalizzate a provocare dolore mentale, confusione e disperazione nella vittima che, come al solito è anche amata e proprio per questo va castigata e punita per la grave minaccia che porta al valore e alla sopravvivenza simbolica del Sé.
La trama vendicativa, punitiva, o di messa alla prova ordita nel gineceo nei confronti del maschio fedifrago che è stato denunciato per inaffidabilità amorosa da una componente del gruppo generalmente prevede sanzioni psicologiche, supplizi amorosi simbolici destinati a creare ansia, allarme, mortificazione, paura e soprattutto confusione, gelosia, sentimento di perdita, disperazione. Ciò mi sembra allineato con i valori prevalenti di riferimento dell'adolescenza femminile, fortemente orientati verso la valorizzazione degli aspetti affettivi e simbolici della vita di relazione e perciò intrinsecamente valorizzanti l'esperienza del dolore mentale nel caso si debba provvedere a castigare l'uomo che ha osato prima molestare e successivamente rendersi irreperibile proprio nel tempo in cui si sarebbe dovuto provvedere a mettere in cantiere il grande progetto.


VIOLENZA MASCHILE NEI CONFRONTI DELL'OGGETTO D'AMORE:

I maschi invece, almeno nel corso della loro adolescenza, non mi sembra siano particolarmente interessati a produrre sofferenza psichica nel loro oggetto d'amore: la violenza che esercitano è di altra natura, ma mi sembra che non saprebbero neppure come fare a punire attraverso la sevizia morale e il tormentone psicologico. I maschi alzano la voce, le mani e il pene se intendono punire le nefandezze commesse dalla ragazza che amano ed odiano, ma non saprebbero come cavarsela se decidessero di ordire una vendetta psicologica; possono riuscire a terrorizzare, a provocare un grande dolore ma solo attraverso azioni banali, tradendo, giurando il falso, profittando della buona fede e della smisurata dipendenza e bisogno di appartenenza del loro oggetto d'amore. Purtroppo perciò i maschi sono costretti dai valori della loro identità di genere ad usare violenza contro il corpo più che nei confronti dell'anima della ragazza che li fa impazzire.
Ho l'impressione che i giovanissimi maschi abbiano, da adolescenti, una considerevole propensione ad identificarsi con le ragioni del maltrattamento che subiscono da parte del loro oggetto d'amore e che ciò li conduca ad adottare condotte rischiose per la salute, come nel caso dell'abuso di alcool e sostanze stupefacenti, più in chiave depressiva che in una prospettiva di provocazione masochistica connotata da intenti punitivi nei confronti dell'oggetto d'amore divenuto maltrattante. C'è da parte dell'adolescente una consistente disponibilità ad identificarsi con le connotazioni negative che di lui dà l'oggetto superinvestito: ciò rende in parte ragione dell'intensità dell'odio e conseguentemente della violenza che può essere scatenata dalla delusione amorosa: essa non solo si configura come risposta primaria all'offesa narcisistica ma anche come tentativo obbligato di contrastare la maggiore disponibilità ad incanalare la risposta in direzione depressiva.
Alcuni degli adolescenti maschi che ho conosciuto in questi anni e che avevano commesso gesti violenti nei confronti del loro oggetto d'amore l'avevano fatto per molti motivi poiché si tratta comunque di imprese sovradeterminate ma uno se ne stagliava e costituiva la ragione primaria del loro confusivo procedere.
Erano ragazzi esposti al rischio di diventare pericolosi quando erano sessualmente eccitati così come lo erano ancor di più allorché erano delusi o frustrati poiché in questo caso la miscela esplosiva che malgovernavano era appunto quella costituita da forti componenti eccitatorie e da focose forze aggressive. Ragazzi che non erano ancora riusciti a individuare i diversi obiettivi delle due forze ed i due piani di comportamento, che anzi vivevano come fossero strettamente correlati fra loro, non perché fossero dominati dalla prepotenza degli istinti o perché non fossero ancora riusciti a defondere gli istinti aggressivi da quelli libidici, ma perché la loro formazione sentimentale era avvenuta in un ecosistema in cui gli adulti li avevano subissati di esibizioni pluriquotidiane di litigi distruttivi e accoppiamenti nel corso dei quali era per loro indistinguibile il lamento erotico da quello del supplizio, il gesto volgare da quello violento, la sottomissione erotica dal gesto dominatore. La protratta esposizione all'irriguardoso esibizionismo degli adulti di riferimento aveva creato in loro un cortocircuito in cui eccitamento e distruzione esplodevano all'unisono impedendo un governo adeguato e pertinente alle situazioni, ai segnali ed agli stimoli che ricevevano dall'oggetto d'amore. La loro difficoltà mi sembrava consistesse proprio nel non riuscire a discriminare il significato della profferta da parte dell'oggetto d'amore poiché non erano in grado di capire quando si trattasse di una proposta di lotta e di sfida aggressiva e quando invece il comportamento segnalasse disponibilità sessuale e bisogno di tenerezza. Adolescenti maltrattati cresciuti in spazi antropologici inadeguati e deprivanti sono esposti al rischio di usare violenza come risposta ad una mite richiesta di tenerezza e appoggio, così come rischiano di confondere la protesta ed il rifiuto con un eccitante comportamento seduttivo finalizzato a cercare un contatto fisico in vista dell'accoppiamento.
Altri ragazzi che ho conosciuto avevano fatto molto male al loro oggetto d'amore perché il loro odio nei suoi confronti era stato innescato dalla paura di essere ontologicamente insoddisfacenti e inadeguati oltre che sessualmente anche dal punto di vista relazionale e sentimentale a soddisfare il bisogno dell'oggetto d'amore. Terrorizzati di essere giudicati, al di là delle propiziatorie dichiarazioni ufficiali, come del tutto incapaci di regalare l'esperienza del piacere inteso nel senso lato del termine, cioè di riuscire ad essere divertenti, molto gradevoli, di piacere, di essere ritenuti utili e preziosi per arricchire la propria vita: al contrario, la loro convinzione quasi paranoica era che il loro oggetto d'amore celasse l'insoddisfazione nei loro confronti legata ad un dato strutturale ed irrecuperabile e cioè all'essere maschi. La loro identità di genere era la causa principale dell'irritazione e dell'insoddisfazione malcelata del loro oggetto d'amore: ritenevano che le ragazze in generale pensino che i maschi siano incompetenti a farle divertire e che esista una inconciliabilità radicale fra le esigenze delle donne e quelle degli uomini. Poiché loro erano invece adolescenti ed avevano perciò come compito evolutivo quello di riuscire ad acquisire una rappresentazione di Sé come preziosa proprio in questo specifico settore di attività e cioè di nobilitare la propria identità di genere in quanto altamente desiderata e valutata positivamente dalle ragazze, ne derivava un forte risentimento nei confronti di un oggetto d'amore che appariva più come giudice fazioso e altamente prevenuto piuttosto che come indispensabile strumento di verifica del proprio valore e della propria capacità di mitigare la solitudine e la tristezza del loro irraggiungibile oggetto d'amore. L'infanzia di questi ragazzi rendeva ragione del loro odio attuale e del bisogno di vendicare le mortificazioni che aveva dovuto subire il bambino che erano stati. Il loro depresso e deluso oggetto primario aveva quotidianamente dimostrato come la loro intrinseca natura di maschi fosse la principale causa della apprensione, stanchezza e malumore e come non ci fosse da parte loro possibilità di riscatto poiché la loro identità di genere era al contrario destinata a peggiorare ulteriormente il già deplorevole stato di cose attuale; più maschi fossero diventati e maggiore sarebbe stata le delusione e l'irritazione malcelata nei loro confronti. Ora erano adolescenti ed erano perciò diventati definitivamente inadatti a soddisfare le inaccessibili esigenze del loro oggetto d'amore, ma ora ciò poteva essere vissuto oltre che come profonda paura di essere condannati da sempre e per sempre al vandalismo relazionale anche come un ottuso attacco razzista e sperimentare per tanto l'odio e il relativo progetto di vendetta che una minaccia di questa entità all'aspetto nucleare del Sé comporta.
Forse non si può estendere e farla diventare una categoria, ma è successo anche a me di lavorare clinicamente con due adolescenti maschi che in un certo senso, non solo metaforico, torturavano fisicamente la loro ragazza perché avevano bisogno di trovare il modo di insediarsi al loro interno, di indovarsi come ospiti stabili delle loro interne viscere, della loro corporeità interna, non solo sessuata e non solo generativa, ma anche biologica, strutturale, quasi che il terrore di essere lasciati cadere, di essere repentinamente dimenticati e resettati dalla loro memoria esitasse nel bisogno di realizzare un innesto biologico, una penetrazione e ancoraggio stabile alla struttura biologica più profonda, un piercing perenne, un tatuaggio in profondità, un trapianto del Sé fragile nel contenitore corporeo dell'anima dell'oggetto d'amore. Sempre appiccicati, abbracciati, penzoloni dalle labbra e allacciati con la lingua, avvinghiati con le mani, le braccia, alla ricerca degli orefizi in cui inserirsi e trovare il calore dell'appoggio e la rassicurazione dell'ospitalità che rincuora nei confronti della fantasia di trovare la porta sbarrata e il divieto d'accesso stabilito a tradimento e senza preavviso.


ODIO E DELUSIONE AMOROSA

Credo si dovrebbe approfondire da un punto di vista psicodinamico quali siano le conseguenze della ripulsa amorosa in adolescenza. A mio avviso il rischio di ridurre il trauma adolescenziale ai suoi precursori infantili è particolarmente insidioso nel caso della delusione amorosa. La mia impressione è che la delusione amorosa, soprattutto se la relazione ha preso avvio e la coppia amorosa si è costituita e poi si sia inopinatamente sciolta, possa in certi sfortunatissimi casi avere un effetto devastante proprio perché impone complicati problemi di gestione di una violenza virtuale che incombe sull'oggetto d'amore diventato fonte di estrema persecuzione.
La faccenda si complica a causa dell'intensità dell'odio che fa seguito all'esperienza confusiva che caratterizza la rottura imprevista del vincolo e la morte della mente di coppia. Per un soggetto adolescente l'esperienza di non abitare più nella mente dell'altro, di non avervi più diritto di cittadinanza è un'esperienza altamente confusiva poiché per quanto prevedibile razionalmente in realtà da un punto di vista affettivo è un'ipotesi non azzardabile. La scoperta di essere morto nella mente del partner è fonte di fortissima angoscia e viene vissuta come evento non noto e classificabile e perciò determina fortissimi stati confusivi e di disorientamento, capaci di disorganizzare profondamente sia le funzioni psichiche che quelle biologiche. A mio avviso la fuoriuscita dalla stato confusionale della prima ora avviene generalmente attraverso l'organizzazione e razionalizzazione di un forte sentimento di odio che spinge a chiedere prima spiegazioni e poi vendetta. In questo passaggio si gioca una partita decisiva e assolutamente caratteristica dei fenomeni relazionali che s'avverano nell'area gestita dall'odio e dalla gamma degli affetti ad esso correlati. Il soggetto condannato a morte affettiva e relazionale e vittima della tragedia del repentino disinvestimento da parte del partner vive un'esperienza che spesso assume dei connotati cinestesici quali diminuzione dell'intensità delle percezioni, sentimenti di estraneità, sonnolenza e complessiva devitalizzazione non comprensibili solo in termini di vissuti depressivi, ma meglio definibili in termini di grave e profonda deprivazione, quasi che il ritiro dell'investimento affettivo del partner possa concretizzarsi ed istituirsi come esperienza sensoriale contribuendo ad inflazionare i vissuti di confusione legati agli aspetti di repentina novità dell'esperienza. Egli perciò sente provenire dall'oggetto d'amore una minaccia mortale: tanto maggiore e profonda diviene la percezione del bisogno di ristabilire il contatto col partner tanto più grave diviene l'angoscia persecutoria innescata dal rifiuto di spiegare l'inspiegabile e di collaborare ad un impossibile restauro della coppia ormai devitalizzata. La minaccia mortale suscita sentimenti di terrore primario di non poter sopravvivere alla perdita e alla gravità della mutilazione narcisistica e conseguentemente la riorganizzazione del piano di sopravvivenza avviene sotto la regia dell'odio che comincia a fermentare e s'appresta a prendere le sembianze del progetto vendicativo.
In questa fase una quantità consistente di odio viene proiettata sull'oggetto d'amore e ciò ha conseguenze importanti poiché lo sciame di identificazioni proiettive influenza in modo perentorio gli stati affettivi della mente dell'oggetto contribuendo potentemente ad indurlo ad assumere comportamenti ostili, espulsivi, di truce difesa delle buone ragioni della propria scelta di rottura della relazione e di morte della coppia amorosa faticosamente costruita col partner.
A questo punto del processo di rottura definitiva del vincolo amoroso il soggetto ha costruito un persecutore al quale può attribuire l'intenzione determinata di nuocere gravemente e infliggere danni irreparabili, ma volutamente, con elevata consapevolezza del dolore che infligge rispetto al quale non sono percepibili segnali di pietà e pentimento. La minaccia è quindi reale, l'oggetto d'amore è divenuto spietato rivelando una componente della personalità insospettabile ma che ora è innegabilmente operativa
E' in questa fase del processo di rottura della membrana simbiotica che avvolge e protegge qualsiasi coppia amorosa che è possibile che l'odio del soggetto rifiutato dia vita a gesti molto violenti che suggellano la definitiva rottura, a volte lasciando spazio a fantasie di reinfetazione violenta, o che concretizzano la decisione divenuta incrollabile perché cementata dall'odio di aver diritto a pareggiare i conti arrecando un danno all'ex oggetto d'amore che sia in qualche maniera confrontabile con quello che il soggetto ha subito in un clima che ormai è chiaro quanto sia voluto, consapevole e intenzionale: è infatti definitivamente chiaro che "lo fa apposta", potrebbe essere diverso, come prima di tanta inutile e incomprensibile cattiveria, ed invece intenzionalmente procede nelle condotte persecutorie seminando angoscia e rovine, potenziando la minaccia e quindi l'odio che ora è legittimato proprio dalla palese intenzione di nuocere da parte di chi ha un enorme potere e lo usa per seminare disperazione.



* Gustavo Pietropolli Charmet
E-mail minotauro@tiscalinet.it





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